Sempre di più mi torna in mente questo motto di Carlo Michelstaedter
Mi sembra che indichi l’essenza del navigare nel mare sordido dei nostri
tempi in cui non si intravvede un orizzonte; quell’orizzonte che, per oltre un
decennio o poco più, ho creduto di intravvedere in anni ormai lontani e dei cui
limiti mi rendo conto, senza tuttavia rinnegarlo.
Il rapporto fra capacità di immaginare un orizzonte progettuale e impegno
concreto esperisce oggi uno scarto abissale.
La messa in crisi irreversibile dell’equilibrio geo-biologico degli ultimi
15.000 anni è ben oltre le capacità d’interventi che dovrebbero essere
necessariamente collettivi e diffusi, in un mondo dominato invece da un
capitalismo senza freni, che sta gestendo una crisi come quella del Covid19,
dovuta oltretutto a spillover, in termini di ancora più aggressiva autoaffermazione.
Per un uomo della mia generazione, che ha cominciato un’attività politica
nella seconda metà degli anni Sessanta, entrando nel PCI per poi uscirne nel
’68 e ha in seguito vissuto intensamente nel mondo della cosiddetta sinistra
radicale, oggi riesce difficile persino comunicare una così lunga esperienza,
oltre che raccordarla a un tempo così diverso.
In primo luogo, oggi non esiste più, in Italia ma anche altrove (almeno così mi
sembra) un’area politico-sociale sufficientemente significativa, diffusa in
modo da poter incidere anche in minima parte nei rapporti di potere.
Penso all’Italia, dei tre movimenti fondamentali degli anni ‘60-’70 – il
movimento operaio, il movimento degli studenti, il movimento femminista
(nell’ordine della mia esperienza). Il primo è scomparso per disintegrazione
della classe operaia in quanto classe politica e non solo sociologica. Il
secondo era un movimento dall’impostazione generazionale legato quindi a una
particolare situazione storica. Del movimento femminista rimangono oggi
significative aree di movimento, gruppi e centri cultural-politici, ma con
scarsa capacità d’influenza sociale oltre una cerchia abbastanza ristretta.
I gruppi e collettivi residui che fanno ancora riferimento a una tradizione
di tipo marxista (o anche, in misura assai minore, anarchica) si sono
estremamente ridotti e frazionati, in grado di svolgere soprattutto attività
prevalentemente culturali e, sul piano sociale, locali.
L’unica attività politica collettiva dotata di notevole continuità e aderenza
sociale, limitata però a una situazione specifica, anche se con più vasta
risonanza, mi sembra il Movimento No tav.
Il variegato movimento ambientalista internazionale agisce in prevalenza a
livello d’opinione: del tutto incapace di incidere in qualche misura su
rapporti di potere che sono insieme mondiali e capillari e in grado di
catturare frammenti di soggettività in maniera sempre più efficace soprattutto
per mezzo della tecnologia elettronica, ormai indispensabile, divenuta
necessariamente il principale strumento di comunicazione anche di chi si oppone
ai dominanti.
In tale desolante contesto, sono apparsi, verso il 2014 i nuovi migranti.
La loro caratteristica è di essere migranti-profughi (mi riferisco alla Rotta
balcanica, di cui ho esperienza diretta, ma anche all’Africa), provenienti cioè
da vastissime e popolose regioni del mondo in cui la geopolitica delle potenze
occidentali e satelliti (ma anche di Cina e Russia), sta producendo
l’impossibilità di vivere in maniera tollerabile. Basti pensare
all’Afghanistan, dove milioni di bambini rischiano di morire di fame: Afghani,
insieme a Pakistani, sono i più numerosi fra quelli che riescono ad arrivare
qui a Trieste.
Si è aperto, in tal modo, un nuovo campo d’intervento politico, con
caratteristiche molto diverse rispetto a quello che conoscevo fin dai
lontanissimi anni Settanta, ma anche dopo: sorge, infatti, necessariamente, dai
bisogni elementari del corpo, i bisogni della sopravvivenza – curare, nutrire,
vestire.
Si tratta di un approccio piuttosto estraneo alla cultura della sinistra
sociale radicale degli anni’70. Più familiare alla cultura cattolica, in cui
esiste un’importante tradizione di intervento sociale – basta pensare a don
Milani e a tanti preti intensamente impegnati nel sociale. Di conseguenza, è
più facile trovarsi ad agire con attivisti a sfondo religioso.
Escludendo, ovviamente, un agire puramente umanitario, si tratta allora di
tentare un impegno politico, ma in quanto ‘convocati da una situazione
concreta’ (Benasayag), in alternativa e in opposizione allo stato di cose
presente, praticando con fermezza una prospettiva di relazioni personali e
collettive, basate sulla cura reciproca, non ideologicamente proiettata in un
futuro immaginario, ma da costruire giorno per giorno partendo dal concreto
della situazione in cui ci troviamo a vivere.
Oggi, l’azione politica non si manifesta più come una narrazione che
progetta un futuro a partire da un immaginario e un pensiero strutturati,
legati a una tradizione intessuta di lotte, che in passato aveva il suo centro
di forza principalmente (non solo) nella classe operaia; ma come una resistenza
che, giorno dopo giorno, genera legami di solidarietà, a partire dal punto in
cui si trova a vivere. In tale contesto, fondamentale è il rapporto di cura per
l’altro, inteso come centro attivo, vivificante, della relazione sociale.
Ciò non significa buttar via quella narrazione e quella tradizione, ma
riarticolarle radicalmente, in un contesto storico assai diverso, irreversibile
segnato dalla devastazione biologica e geologica effetto della violenza senza
freni dell’Economia di mercato.
Bisogna partire dall’oggi e dal qui, dal luogo sociale in cui si vive e dalla
propria quotidianità, dal centro della propria vita di tutti i giorni, dalla
propria esperienza di vita sociale per estendersi reticolarmente più che si
può, senza disconnettersi dalla concretezza dell’intervento: metodo induttivo e
non più deduttivo.
Tutto ciò rimanda anche all’importanza di mettere in discussione se stessi:
le proprie emozioni, le proprie abitudini. Si tratta di camminare, quindi,
sempre su un duplice sentiero, sociale e personale, ciò che implica temporalità
differenti: ulteriore elemento di difficoltà.
La sottovalutazione del personale è stato un errore fondamentale nel passato:
la cappa protettiva dell’ideologia spesso nascondeva le problematiche
personali, rendendo superficiale l’adesione a pratiche trasformatrici, come si
è visto in seguito. Il movimento o piuttosto i movimenti femministi, che ne
hanno invece compreso l’importanza, non sono riusciti a correggere tale
sottovalutazione, sotto la spinta corrosiva dell’Economia.
Le problematiche soggettive sono una delle questioni che ci stanno di
fronte in un contesto in cui i dominanti, mediante la tecnologia elettronica,
controllano in maniera radicale la maggior parte delle possibilità di
comunicazione. Per il mio tipo d’attività, con i migranti, è fondamentale
Facebook, di cui mi è ben chiara la funzione imprenditoriale e di potere. Ciò
introduce una sottile dimensione di angoscia nella pratica comunicativa
quotidiana: da una parte sono in grado di diffondere ciò che faccio e ciò che
desidero, dall’altra sono dentro un sistema di potere e profitto che mi
osserva, ma anche agisce su di me, su di noi. Sono consapevole che ciò produce
effetti sulla mia soggettività, sul mio rapporto con me stesso-e-con-altri,
modificando il mio comportamento, anche in modi che vanno oltre la mia
comprensione.
La dimensione pandemica ha poi portato ad un ulteriore rilancio della
comunicazione elettronica, anche in settori fondamentali come la scuola,
frapponendo molteplici barriere fra i corpi, mediante, fra l’altro, tutta una
serie di passaporti sanitari interni, peggiorando ulteriormente il rapporto fra
Stato e cittadini: uno Stato sempre più autoritario – ma in modi ben diversi
dal vecchio autoritarismo di stampo fascista perché dovuto al suo legame
ombelicale con l’attuale Regime dell’Economia – e cittadini divenuti sempre più
passivi.
Negli anni ’60-’70 del Novecento, la comunicazione era molto più lenta,
fortemente legata agli incontri diretti: sappiamo che la forma della
comunicazione modifica anche il contenuto. Esistevano allora un’opposizione
sociale, un immaginario ed un tessuto narrativo diffusi che, pur nelle
differenze e nelle divergenze anche fortissime, aveva creato un territorio
culturale e sociale comune, anche emotivo.
Non lo dico nostalgicamente: ne ho ben presenti i gravi limiti. Rimanda,
inoltre, a un tempo storico definitivamente passato.
Ma, la differenza radicale, nel senso letterale della parola, fra la situazione
politica attuale e quella degli anni ’60-’70 del secolo scorso va al di là
della storia umana. Siamo dentro un tempo molto più vasto di geostoria, per cui
si è aperto un orizzonte che non riusciamo nemmeno a immaginare, se non nei
termini della fantascienza o della letteratura o filmografia del disastro, e
quindi non riusciamo a progettare, ma in cui bisogna pur camminare, anche
politicamente.
In tale contesto, l’unico modo d’azione che riesco a immaginare e praticare
è, come accennavo prima, quella che nasce dall’esperienza diretta di situazioni
concrete, che abbiano, però, una valenza etico-politica generale: oggi, la
‘realtà’ della nostra condizione di vita sulla terra, si legge, ad esempio, sui
corpi dei migranti che bussano tutti i giorni alle nostre porte.
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