Il fatto che l’Unione Europea coltivi una sorta di sovra–nazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere, non solo è causa d’una strage di migranti e potenziali rifugiati/e di proporzioni mostruose, ma ha anche contribuito indirettamente, a mio avviso, a incoraggiare i nazionalismi “nazionalitari” o etnici, quindi al successo delle destre, anche estreme, in tutta Europa. Oltre che economica, la crisi europea è anche politico-ideologica, come ci ricorda da non pochi anni il filosofo, sociologo e politologo Slavoj Žižek.
Non per caso, nell’intero continente, a occupare il primo posto nella scala
del rifiuto e del disprezzo sono rom, sinti e caminanti, le popolazioni che più
di altre incarnano, almeno simbolicamente, il rifiuto di confini e frontiere. Secondo non pochi
sondaggi sulle attitudini nei confronti dei cosiddetti “zingari”, per
anti-ziganismo è l’Italia, seguita dalla Francia, a collocarsi in testa alla
classifica. La stragrande maggioranza dei campioni intervistati nel corso del
tempo esprime ostilità o paura per la presenza di non più di 140mila fra rom,
sinti e caminanti, la metà dei quali sono cittadini/e italiani/e.
In realtà, essi/e continuano a svolgere un ruolo vittimario assai simile a
quello storicamente attribuito agli ebrei, a tal punto che sugli “zingari”,
come un tempo sugli ebrei, tutt’oggi fioriscono e si propalano voci, leggende e
“false notizie”, per dirla alla Marc Bloch: anche le più arcaiche, come quella
della propensione al rapimento di bambini, pur smentita da dati e lavori
scientifici.
Insomma, fra le politiche di militarizzazione delle frontiere e il
dilagare delle retoriche del rifiuto v’è un legame assai
stretto, se non un circolo vizioso. In gran parte dei paesi europei
va diffondendosi sempre più l’uso politico e ideologico di tali retoriche: i
cliché dell’“invasione”, dei/delle migranti come fonte d’insicurezza e
d’impoverimento dei “nazionali”, della “clandestinità” come sinonimo di
criminalità sono ampiamente utilizzati perfino da istituzioni, talvolta anche
da partiti di centro–sinistra, ma soprattutto da formazioni populiste,
di destra e di estrema destra, che in Europa conoscono oggi un’ascesa
rilevante. In particolare, quella dell’”invasione” e della “marea montante” è
una tipica falsa evidenza: come è ben noto, la quota preponderante dei
cosiddetti flussi migratori parte dai paesi del Sud del mondo per dirigersi
verso altri paesi del Sud.
Sul versante delle istituzioni, in una parte dei paesi dell’Unione Europea
prevale un approccio di tipo emergenzialista, conseguenza, fra le altre cose,
del fatto che, in realtà, migrazioni ed esodi non sono stati integrati – meno
che mai elaborati – come tendenze strutturali del
nostro tempo. Anche questo spiega perché il razzismo tenda a diventare
ideologia diffusa, senso comune, forma della politica, per dirla
con Alberto Burgio. E non si tratta del ritorno in superficie dell’arcaico,
bensì di una delle fasi del riemergere ricorrente del lato oscuro della
modernità europea.
Le discriminazioni istituzionali, l’allarmismo dei media nonché la cattiva
gestione dell’accoglienza, almeno in alcuni Stati-membri, non fanno che
produrre ondate ricorrenti di moral panic, alimentando anche
violenza razzista “popolare” nei confronti degli/delle indesiderabili,
spesso usati/e come capri espiatori, particolarmente in questa fase.
In non pochi paesi europei la crisi economica, aggravata dagli effetti
della pandemia, si coniuga con una crisi, altrettanto grave, della democrazia e
della rappresentanza, talché la distanza fra i cittadini e il potere si
fa siderale e la cittadinanza va trasformandosi sempre più in sudditanza,
per dirla con Etienne Balibar. Non sorprende affatto, quindi, che gli
effetti sociali della crisi, coniugati con la condizione e il senso soggettivo
di sudditanza, alimentino frustrazione, spaesamento, risentimento sociale e
conseguente ricerca del capro espiatorio. Una buona parte di cittadini/e
penalizzati/e dalla crisi finisce così per identificare il proprio nemico nelle
persone immigrate “che rubano il lavoro” o nei rom che degraderebbero il loro
già degradato quartiere di periferia. Sicché si potrebbe sostenere che
il razzismo “popolare” sia perlopiù rancore socializzato.
Etichettare i numerosi casi di razzismo popolare con la formula abusata di
“guerra tra poveri” è, a mio avviso, un’espressione di quel pensiero debole che pretende
di definire un mondo complesso. Infatti, ammesso sia opportuno usare
la metafora della guerra, questa è tutt’altro che simmetrica: è, semmai, una
guerra contro i/le più vulnerabili tra le persone povere.
In assenza d’itinerari sicuri e legali per raggiungere l’Europa, i/le
rifugiati/e in cerca di protezione e le persone migranti che aspirano a una
vita migliore sono sottoposti dall’Unione Europea a un’autentica prova di
sopravvivenza. Non tutti la superano, com’è ben noto.
L’Europa è largamente in testa alla classifica delle aree migranticide,
per usare un neologismo. E ciò non solo per ovvie ragioni geografiche e per
l’aumento vertiginoso di persone migranti e potenziali rifugiati/e che cercano
di raggiungerla, ma soprattutto perché le politiche proibizioniste europee
rendono i viaggi sempre più pericolosi, spesso letali.
In realtà, i cosiddetti “trafficanti di esseri umani” rappresentano
soltanto gli “utilizzatori finali” del sistema di frontiere e muri che l’Europa
ha eretto intorno alla sua fortezza. Sono le politiche
proibizioniste ad avere creato le condizioni perché si sviluppasse l’offerta di
attività irregolari e dunque un aumento spaventoso delle stragi in mare.
Ricordo che il nuovo regime delle frontiere affermatosi in Europa ha
prodotto non solo un’autentica ecatombe, ma anche la proliferazione
e perfino l’esternalizzazione dei centri di detenzione per migranti, nei
quali, in certi casi, sono rinchiusi finanche richiedenti–asilo e
minori; anche per responsabilità di Frontex. Le condizioni di tali lager – spesso
muniti di gabbie e filo spinato, e controllati da forze dell’ordine e militari
armati – sono state condannate dalla stessa Corte di
Strasburgo. In alcuni paesi, come l’Italia, sono istituzioni del tutto
abusive, in quanto violano la Costituzione e lo stato di diritto.
Questo sistema si è rafforzato anche grazie agli accordi bilaterali con
paesi dell’altra sponda del Mediterraneo, cui si delega una parte del “lavoro
sporco”. L’Italia non fa che perpetuare gli accordi di cooperazione perfino con un
paese devastato qual è la Libia, il quale, oltre tutto, non ha leggi
sull’asilo, pratica gravissime violazioni dei diritti umani, non ha
sottoscritto neppure la Convenzione di Ginevra del ’51.
Come è ben noto, la Libia, tappa ineludibile soprattutto per le persone
migranti e i/le profughi/e sub–sahariani/e, è un vero e proprio inferno.
Come e peggio che al tempo di Gheddafi, pratiche tuttora correnti sono gli
arresti arbitrari, il lavoro forzato, lo sfruttamento schiavile, le
deportazioni, i taglieggiamenti, le torture, gli stupri: orrori la cui apoteosi
è l’inferno della prigione di Kufra. L’unica differenza è che oggi sono
le milizie armate a “dirigere” i centri di detenzione e a compiere le
nefandezze cui ho fatto cenno.
È necessario, dunque, modificare radicalmente la legislazione
europea (per non dire di quella italiana). Ma soprattutto occorre che tra
le nostre stesse fila si affermi la consapevolezza che decisiva è la battaglia
contro il razzismo e per i diritti delle persone migranti e delle rifugiate. Da
essa non si può prescindere se si vuole scongiurare il lato oscuro della
modernità europea, in favore della prospettiva di un’Europa della democrazia,
della giustizia sociale, dell’uguaglianza dei diritti.
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