Esistono autori sfortunati, messi nell’angolo perché affetti da disattenzione oppure perché girovaghi tra gli editori oppure ancora perché tradotti a singhiozzo. Stanislaw Lem, polacco nato nel 1921 e morto nel 2006, è uno di questi ma la sua sfortuna è immeritata. Conosciuto soprattutto, e forse quasi esclusivamente, per Solaris del 1961 (da ultimo in Sellerio) e per il conseguente film del 1972 di Tarkovsjij, al pubblico italiano giunge la sua produzione in termini incompleti e ondeggianti tra svariati editori, Sellerio, Marcos, Voland, Bollati Boringhieri, Mondadori con Urania, o addirittura in attesa di traduzione (su di lui doppiozero, Maculotti, “La fantascienza apocrifa di Stanislaw Lem” e Orlando Meloni, “Il ritorno di Stanislaw Lem”). Ma perché questa sorte nonostante la fama mondiale, la candidatura al Nobel nel 1977, la vendita nel mondo di migliaia di copie, il Premio di Stato della Polonia nel 1973, il Grand Prix al terzo Congresso Europeo di Fantascienza nel 1976?
La risposta
più semplice, e come spesso avviene forse la più banale, è che il nostro paga
l’atipicità rispetto alla letteratura di fantascienza dominante, in cui
peraltro si immerse dal 1951 con Gli argonauti (conosciuto
anche come Il pianeta morto, in Baldini e Castoldi), per poi non
più coltivarla fino al 1987 con l’ultima opera Il pianeta del silenzio (in
Mondadori). I suoi articoli e saggi scientifici andarono presto a scontrarsi
contro la dottrina del regime staliniano, e caduto in disgrazia fu costretto a
guadagnarsi da vivere come assistente di laboratorio. Tornerà a scrivere
soltanto alcuni anni più tardi, soprattutto a cavallo tra gli anni ’50 e
’60.
La
fantascienza di Lem è fortemente innervata da intenti speculativi, scaturiti
dall’ampia conoscenza in materie forse opposte ma dotate di punti di contatto,
dalla filosofia alla medicina in cui si laureò, alla cibernetica tanto da
essere un fondatore dell’Accademia di Cibernetica ed Astronautica. La scelta
della fantascienza come forma espressiva è per lui cruciale, in quanto la
considera non già una scrittura di evasione, ma il veicolo per proporre romanzi
filosofici, così passando “dal ghetto della fantascienza a quello della critica
specializzata”. Qualcuno ha notato che “quello che disturba Lem nella produzione
commerciale americana è lo spreco di potenzialità creative. Crede nelle
possibilità della fantascienza, ma intesa alla maniera rigorosa di Wells. Nei
suoi epigoni scorge debolezza intellettuale e una tendenza a mascherare i
vecchi cliché della fiaba” (Lippi, Introduzione a Ritorno dall’universo del
1961, Mondadori).
Questo è il
punto: Lem non si pone il problema se uno scritto è buono o cattivo, al di là
della collocazione in un genere. Per lui invece la scelta di campo è rilevante
in quanto ritiene la fantascienza percorsa da due scie narrative, quella
popolare e quella speculativa. Ha in altre parole una doppia anima, come quando
nel passato venivano distinti il filone legato alle innovazioni tecnologiche
(alla Verne) e quello fondato su scenari filosofici e umanistici (alla Wells).
La tormentata distinzione tra letteratura "alta" e "bassa"
oggi è in declino in quanto, osservava Eco, il problema non è costruire i
generi e incasellare le opere all’interno, ma adottare un criterio per
distinguere se l’opera sia valida o meno (“Il mondo della fantascienza”,
in Sugli specchi, Bompiani, 1985). E questo perché i mondi sono
interconnessi, spesso conflittuali tra loro, cui partecipano i mezzi di
comunicazione e la cultura collettiva. E la contaminazione rappresenta un segno
distintivo della fantascienza, la quale si afferma come narrativa in cui
l'autore inventa una vicenda (fiction) e nel contempo introduce elementi da far
risultare verosimili (science). Al suo interno, si è osservato, sembrano
coesistere due momenti, l’interpolazione che introduce dati nuovi nella lettura
della realtà e l’estrapolazione che li estrae per ricavare conclusioni spesso
sorprendenti (Groccia, “La biblioteca inesistente: qualche esempio di
fantastico non classificabile”).
Queste convinzioni
sono la cornice entro cui ha scritto Lem. Fu radiato nel 1976 dall’Associazione
americana degli scrittori di fantascienza per aver sostenuto che “la
fantascienza è un caso senza speranza, con eccezioni” in quanto al 99% è un
genere di consumo, massificato, dozzinale, ondeggiante tra la creazione di
facili mondi fiabeschi o inversioni ingenue del mondo reale. Al contrario essa
deve concentrarsi sull’“inesistente possibile”, su visioni omogenee con la
scienza pur oltrepassando il presente, con un ruolo che non ammette sbavature.
Deve rappresentare il funzionamento del pensiero scientifico, avendo però
presente che esso riduce le antinomie e si considera un soggetto indifferente
agli effetti dei suoi lavori. La letteratura invece non è un trattato scientifico,
si nutre di contraddizioni e si articola su “un’irresolubilità semantica”. Lem
è impegnato in una produzione didattica, un collegamento tra scienze naturali e
lettere umanistiche, mondi che si guardano da lontano per timore di
contaminarsi. Folgorato dallo straordinario progresso scientifico di quegli
anni, sembra interpretare l’auspicio di Italo Calvino di una letteratura che
costruisca ponti tra la logica scientifica e il linguaggio quotidiano, dal
momento che “la scienza moderna offre immagini non visive, che possono essere
comprese solo astrattamente e concettualmente” (Le cosmicomiche, Einaudi
1965).
Un
immaginario professore scrive che “La stampa ha insinuato che l’astronauta
Tichy si sarebbe valso dell’aiuto di qualcuno e addirittura che non sarebbe mai
esistito. Le sue opere sarebbero state create da un fantomatico dispositivo
chiamato «Lem» che secondo versioni estreme sarebbe addirittura un essere
umano. In realtà chiunque abbia una conoscenza, anche superficiale, della
storia della cosmonautica sa che LEM è la sigla di LUNAR EXCURSION MODULE, cioè
del modulo di esplorazione lunare che fu costruito negli USA nell’ambito del
«Progetto Apollo» (Memorie di un viaggiatore spaziale, del 1957,
nell’antologia, in Marcos e Marcos e poi Mondadori)”.
Suo
bersaglio, neppur troppo velato, è Philip Dick, definito “visionario
per ciarlatani” perché crea visioni basate su debolezze
scientifiche, progetti grandiosi ma irrealizzabili. Dick in realtà, che è stato
un maestro della realtà non reale, in quel periodo si stava dibattendo con il
problema del tempo (Ubik, Tempo fuori luogo, Noi marziani, in Fanucci)
ed era disorientato da uno scrittore che frequentava il suo mondo inserendo le
idee. Per questo lo riteneva una spia comunista.
Forse il
visionario era invece proprio Lem, con la sua pretesa di divulgare la filosofia
della scienza attraverso il racconto, convinto che lo scrittore di fantascienza
debba possedere sì stile da letterato, ma anche cultura da scienziato. E lui lo
era e si riteneva tale. “Non sono un esperto… impiego la tattica dei pompieri:
sono attratto dal fuoco e vado dove ci sono gli incendi” (“Intervista a
Stanislaw Lem” di Piergiorgio Odifreddi, La rivista dei libri, 2002). Lem
inoltre ha pagato lo scotto, in quei decenni ‘60 e ‘70, di scrivere di
fantascienza senza essere anglo-americano, quasi da infiltrato come capitò a
scrittori sovietici, celebrati da noi quasi di soppiatto nella collana loro
dedicata a fine anni ‘60 dall’editore romano FER (ben 7 volumi oggi trattati
come una reliquia).
Il
volume Universi ora in esame racchiude romanzi e racconti
scritti tra il 1957 e il 1996 ed è impostato su due sezioni, una con cinque
pezzi di fantascienza pura, un’altra con cinque testi riuniti da un
denominatore comune su cui ci si intratterrà.
La prima
parte consente di avvicinarsi ai temi classici di Lem attraverso scritti
dispersi ed uno non ancora tradotto appartenenti al cd ‘ciclo cibernetico’.
In Fiabe per robot del 1964 (in Marcos y Marcos)
si immagina come potrebbero essere le fiabe scritte per robot da robot che
diventano così protagonisti creatori. Cyberiade del 1965 (in
Mondadori e Marcos y Marcos) racconta le bizzarre avventure degli inventori
amici e rivali Trurl e Klapaucius, pronti ad escogitare macchine avveniristiche
per risolvere problemi interstellari, che quasi sempre si ritorcono contro. Lo
stesso stile, tra umoristico e parodistico, si trova in Memorie di un viaggiatore spaziale del 1957 (dianzi citato) che,
accostate al Gulliver di Swift, narrano le vicende di un astronauta in viaggio
nel cosmo, tra mondi abitati da robot impauriti dagli umani, e in I
viaggi del pilota Pirx del 1968 (in Mondadori), ambientati in un
futuro popolato da collegamenti regolari con i pianeti e viaggi di chiassosi
turisti tra la Terra e la Luna. Epidemie a bordo, equipaggi di fortuna e robot
impazziti movimentano le vicende. L’astronauta Pirx affronta le difficoltà da
disincantato protagonista dell'era spaziale, conoscitore degli itinerari tra
stelle e pianeti, ma estimatore della vita sulla Terra dove si può mangiar bene
e bere buona birra.
L’antologia
contiene anche l’inedita traduzione di tredici racconti da Enigma,
riuniti in lingua originale nel 1996, alcuni dei quali particolarmente
meritevoli di attenzione. Ad esempio “Il martello”, in cui un astronauta che
dialoga con un’intelligenza artificiale durante un viaggio, ma scopre che lo
sta portando fuori rotta perché non vuole separarsi da lui e quindi fa di tutto
per disattivarla. Sembra un’opaca replica del film di Kubrick 2001: Odissea nello spazio, ma è del 1959 mentre il film è
successivo, del 1968. In “Invasione” strani oggetti alieni, sferici e
trasparenti, cadono sulla Terra e riproducono le fattezze inquietanti di
esseri, umani e animali, rimasti uccisi dalla collisione con gli oggetti.
“Muffa e oscurità” immagina microbi sintetici, i Whisteria
Cosmoloytica, che traggono energia vitale dalla distruzione della materia e
che, diffusi nell’ambiente, si replicano all’infinito. Su tutti, a nostro
avviso, svetta “Centotrentasette secondi” ove un
computer è in grado di anticipare il futuro di 137 secondi esatti. Il numero
non è banale perché rimanda alla “costante di struttura fine” proprio di 1/137,
la più misteriosa delle costanti fondamentali. Quella costante adimensionale , indipendente da un’unità di misura, quasi
arbitraria, è interpretata da alcuni scienziati come indizio di incompletezza
dell’attuale modo di interpretare le leggi della natura. I protagonisti possono
fornire al computer l’inizio di una frase che descrive un avvenimento attuale e
ottenerne la conclusione, cioè prevedere quanto accadrà circa due minuti dopo.
E poi “Il materassino” che ha come protagonista un uomo d’affari
che sospetta di essere stato rapito per ottenere informazioni. In realtà non si
tratterebbe di un rapimento qualsiasi, ma impostato su una particolare tecnica
con cui una persona, resa incosciente, è collegata a un macchinario che simula
la realtà. In questo modo viene fatto credere al rapito di trovarsi nel mondo
reale quando invece è vittima di una simulazione, diretta a carpirgli
informazioni.
L’unico modo
per scoprire se si trova nella realtà o nella simulazione, gli suggerisce lo
psicologo cui si è rivolto, è verificare l’esistenza di un particolare a lui
esclusivamente noto e che eventuali sequestratori nella realtà simulata non
sono in grado di riprodurre. Il protagonista, recandosi dal barbiere, nota un
materassino a strisce rosse e azzurre in vetrina, ma quando esce le strisce
sono divenute bianche e verdi. Gli uomini che lo scortano sostengono che la
vetrina sia stata modificata mentre si trovava all’interno. L’altra possibilità
però è che i sequestratori gli abbiano innestato gli elettrodi per produrre la
simulazione mentre si trovava dal barbiere. Decide così allora di andare a casa
per verificare se un documento, noto solo a lui, si trovi ancora nella
cassaforte. Ma un allarme bomba gli impedisce di entrare e quando con una gru
riesce a recuperare la cassaforte, un crollo la fa finire sotto le macerie.
Ritorna allora dal barbiere, chiede di vedere il materassino rosso e azzurro,
ma non è più disponibile. Ormai convinto di essere nella realtà simulata, cerca
di uscirne con azioni sconsiderate che possano mettere in crisi la simulazione
e tenta persino di togliersi la vita.
Il lettore
appassionato della produzione di Lem si augura che l’iniziativa editoriale
prosegua riportando alla luce testi vagabondi tra scaffali impolverati ed
offrendo anche la saggistica non ancora tradotta, come “Dialoghi” del 1957 e
“Summa Technologiae” del 1964. Come peraltro si ricava dal catalogo delle
opere, originali ed italiane, presente nella parte iniziale del volume (p.
XV-XVI), purtroppo omettendone alcune già tradotte (“Esiste davvero, Mr. Johns?” del
1955 in Interplanet n. 5 del 1964, “La nebulosa di Magellano” presentata con il
titolo “Trovarsi dentro l’incubo” in “La Repubblica” 7.12.2002 e “L’hotel
straordinario o il milleunesimo viaggio di Ion il Tranquillo” in Racconti
matematici, Einaudi, 2006).
L’antologia,
comunque e per fortuna, permette di esplorare alcuni temi cruciali.
Innanzitutto gli spazi. Le galassie e l’universo sono per Lem come il mare,
realtà insicure e dense di pericoli che mettono alla prova chi è disposto a
misurarsi con loro. Nella postfazione a L’invincibile dell’edizione
Sellerio (non menzionata nel Catalogo delle opere citato) F. M. Cataluccio
scorge acutamente un’analogia con Conrad. Entrambi polacchi, entrambi scrivono
anche in altra lingua, entrambi attratti da pianeti e distese marine che
sembrano vivere di vita propria. “Il mare è un luogo metafisico,
isolato, astorico, di pienezza e solitudine, in cui i conflitti spirituali
raggiungono le posizioni estreme e radicali, in cui gli uomini vengono a
trovarsi drammaticamente alle prese con l’Assoluto” (Lord Jim). E poi, in
quegli spazi, avviene il contatto con altre intelligenze, in generale con gli
alieni, con la convinzione della loro incomunicabilità.
La struttura
dei romanzi che si occupano di questo argomento (soprattutto “Solaris” del
1961 dianzi citato, “Il pianeta morto” del 1951 dianzi citato, “Eden” del
1959 in Baldini Castoldi, Editori Riuniti e Mondadori, “L’invincibile” del 1964
dianzi citato, “La voce del padrone” del 1968 in Bollati Boringhieri, Il
pianeta del silenzio del 1986 dianzi citato, e la “La nuvola
di Magellano” del 1955 dianzi citato) si ripete: un incontro con l’ignoto,
con una società altra, diversa con la quale l’uomo è costretto a confrontarsi.
Non è popolata da umanoidi leggermente differenti, ma di entità
indeterminabili, indefinibili, incomprensibili che mettono in difficoltà le
nostre sicurezze. La sfida è comunque perduta per l’impossibilità di capire
veramente quella realtà, per l’amara consapevolezza che l’umanità è una
particella minuscola nell’immensità dell’universo e che esistono leggi di
natura non dominabili. Gli alieni, prima di essere una minaccia, sono una sfida
alla nostra comprensione: se anche vi fossero, come sarebbe possibile riconoscerli,
come sarebbe possibile comunicare stabilire un contatto? Del resto, come
osservava Wittgenstein nelle Ricerche logiche, “se un leone potesse
parlare non lo capiremmo”. Questo perché l’uomo è limitato pur
sentendosi vanamente e orgogliosamente padrone di sé stesso, ma nel contempo
schiavo della tecnica che ha introdotto e sta affinando. E così i personaggi
dei romanzi-racconti si trovano traumaticamente incapaci di comprendere,
addirittura di prefigurarsi gli alieni.
È in atto in realtà un cambiamento antropologico, e Lem s’inserisce a pieno titolo nelle inquietudini novecentesche In Solaris immagina una creatura talmente diversa dal ‘sapiens’ da essere incomprensibile. Nell’Invincibile descrive un pianeta extrasolare con una vita non organica evolutasi con le macchine con cui non si può scendere a patti, come constata un equipaggio che vi discende per cercare i superstiti di una precedente spedizione. E per passare ad un settore apparentemente estraneo, ma non troppo, il giallo (L’indagine del tenente Gregory del 1959, in Rusconi, Mondadori, Bollati Boringhieri), un ispettore di polizia si trova alle prese con cadaveri che tornano in vita qualche ora dopo la morte, fenomeno che resterà inspiegabile fino alla fine.
Il
tentativo di superare l’antropocentrismo pur in modo lucido e radicale però non
riesce, e l’uomo è destinato alla decadenza, alla follia incombente, alla
perdita della memoria, alla regressione, alla perdita del raziocinio, elementi
tutti che lo ridurranno a un ‘balbettio infantile’.
Il confronto
con H. P. Lovecraft pare avventato, ma solo in apparenza. Questi è visionario,
intriso di pregiudizi, prefigura un universo troppo grande per noi come luogo
di terrore e paura, con creature semidivine dall’aspetto mostruoso. Lem invece
è dotato d’intelligenza tagliente, talora persino ironica, impostata su basi
scientifiche, consapevole dell’incapacità di afferrare del tutto il cosmo.
Entrambi
però accomunati dall’immaginario fantascientifico popolato da esseri alieni
provenienti da un’altra dimensione spazio-temporale. “Le leggi, gli
interessi e le emozioni comuni agli esseri umani non hanno validità, né
significato nella vastità del cosmo. È puerile un racconto in cui la forma
umana – e le ben definite e limitate passioni umane e le condizioni e le
valutazioni – sono descritte come proprie anche di altri mondi o di altri
universi […]. Occorre dimenticare che concetti quali la vita organica, il bene
e il male, l’amore e l’odio, e tutti gli analoghi attributi locali di una razza
trascurabile ed effimera chiamata umanità, abbiano un’importanza di qualsiasi
genere» (Lovecraft, L’orrore nella realtà, Edizioni
Mediterranee, 2007). Entrambi segnalano la fine dell’antropocentrismo, la
perdita della centralità dell’uomo nell’universo, la percezione di non essere
l’uomo la specie unica e più evoluta, la crisi della ragione di fronte a una
realtà diversa e mostruosa. Le loro radici sono profondamente diverse, l’uno
protestante che vede dissolversi la sua America, l’altro ebreo scampato
miracolosamente allo sterminio nazista, eppure si tratta di una strana coppia
che ha trovato un luogo d’incontro e confronto nella fantascienza. Non a caso,
come sostiene il nostro, perché si tratta di un veicolo di idee.
Esiste poi
il rapporto con la tecnologia. Lem non esalta il progresso perché riconosce i
limiti della scienza. Nel contempo è convinto che la situazione si complichi
con l’ingegneria genetica e l’Intelligenza artificiale, le quali potrebbero
condurre a ritenere non esclusivo il dato della specie biologica e dell’“homo
sapiens”. Per questo il nostro si occupa non solo della letteratura sul futuro,
ma anche della letteratura “del” futuro quando un computer intelligente non si
occuperà troppo di noi ma ci scaccerà come mosche fastidiose. Come nel
significativo “Golem XIV” del 1981, in antologia e di cui si parlerà più avanti
(in Edizioni Il Sirente), dove le lezioni di filosofia subliminale sono tenute
da un io narrante cibernetico e non più umano che, finita la lezione ultima,
cesserà di comunicare con gli esseri umani.
Non basta:
la società futura sarà dominata da internet ed algoritmi che nel 1970, gli anni
di Lem, erano impensabili, eppure è stato probabilmente uno dei primi scrittori
di fantascienza a prevedere la fine dei libri di carta e l’arrivo dei formati
elettronici e degli e-book. Essi sono immaginati come piccoli cristalli di
memoria che possono essere caricati su un dispositivo, gli ‘opton’, con un
rinvio immediato ai tablet contemporanei. “Libri non ce n’erano, da quasi più
di cinquant’anni si era smesso di stamparli. … Pazienza. Non sarebbe stato più
possibile frugare negli scaffali, soppesare i volumi, sentirne quel peso che
faceva prevedere la durata della lettura. La libreria ricordava piuttosto un
laboratorio elettronico, i libri consistevano in piccoli cristalli a contenuto
fisso. Si potevano leggere con l’aiuto di un opton, qualcosa di simile a un
libro, a parte il fatto che aveva un’unica pagina tra i due cartoni della
legatura.
Bastava
toccarla e subito apparivano, una dietro l’altra, le restanti facciate del
testo” (Ritorno dall’universo, in Garzanti, Mondadori, ora
Sellerio). Nello stesso libro Lem predisse anche l’ingresso degli audiolibri
che chiamò “lekton” “…che leggevano ad alta voce e potevano essere regolati su
qualsiasi tipo di voce, di ritmo e modulazione”. All’inizio degli anni
cinquanta Lem stava riflettendo sulla possibilità di connettere tra loro i
computer per aumentarne le capacità di calcolo. Nei Dialoghi del
1957 considerava una direzione realistica di sviluppo che la graduale
accumulazione di “macchine informatiche” e “banchi di memoria” portasse a
stabilire “reti informatiche statali, continentali e, più tardi,
planetarie”.(così Mikołaj Gliński “13 previsioni di
Stanislaw Lem sul futuro in cui viviamo” tradotto on line qui). Più o meno nello stesso periodo Lem previde che le
persone avrebbero avuto un accesso istantaneo e universale a un gigantesco
database virtuale che chiamò “Biblioteca Trionica”. I trioni sono minuscoli
cristalli di quarzo, “la cui struttura delle particelle può essere
modificata in modo permanente”, funzionano come le moderne chiavette
USB, ma connesse attraverso onde radio e formano un gigantesco deposito di
conoscenze (ancora Glinski citando La nube di Magellano del
1955). In quello stesso libro Lem descrive una sorta di smartphone, piccoli
televisori portatili che consentono l’accesso immediato ai dati della
Biblioteca Trionica. “La usiamo senza nemmeno pensare
all’efficienza ed alla potenza di questa grande rete invisibile che avvolge il
mondo.
Quante volte
dalle parti più disparate del mondo ciascuno di noi ha preso il ricevitore
tascabile..ed ha chiamato la centrale della Biblioteca Trionica, nominando
l’opera desiderata che è apparsa davanti allo schermo del televisore?” Non
è superfluo ricordare che queste idee sono state concepite in anni in cui i
computer avevano le dimensioni di un’enorme stanza, e il World Wide Web avrebbe
iniziato a essere immaginato solo alla fine degli anni sessanta,
materializzandosi a partire dagli ottanta. Ancora La nube di Magellano prevede
la produzione di beni che richiama la stampa 3D. “Un trione è in
grado di memorizzare una ‘ricetta di produzione. Connettendosi alle onde radio,
l’automa produce l’oggetto necessario ed in tal modo anche i sofisticati
capricci della fantasia possono essere soddisfatti. Dopo tutto è difficile
spedire in ogni parte del mondo la inimmaginabile varietà di beni desiderati
solo occasionalmente”.
Cyberiade offre anche un’altra idea
innovativa con la “polvere intelligente”, sciame di minuscoli droni non più
grandi di granelli di sabbia, che operano come un enorme sistema di computer a
elaborazione parallela. L’idea della polvere intelligente sembra essere
abbastanza in linea con le ultime conquiste della nanotecnologia. Lem scrisse
sulla realtà virtuale (il termine usato era “fantomatica”) nel 1964 nella Summa
Technologiae, ove descrive una macchina chiamata “fantomaton” capace di
creare realtà alternative indistinguibili dalla realtà “originale”. Egli
immaginava che questa tecnologia funzionasse su più livelli, il che significa
che una persona che lascia una realtà virtuale non tornerebbe necessariamente a
quella “reale”. Piuttosto si potrebbe passare tra diverse simulazioni
alternative, senza mai essere sicuri che si tratti della realtà “originale” o
del mondo reale.
Ciò
ovviamente porterebbe a sfumare il confine tra verità e finzione. (ancora
Glinskij citato). L’interesse per il rapido sviluppo tecnologico portò il
nostro a intuizioni sull’attuale natura della circolazione delle informazioni,
quasi anticipando fenomeni mediatici contemporanei associati al concetto di post-verità
o politica post-fattuale. Nel 1968 La voce del padrone (in
Bollati Boringhieri) scrisse: “Accade talora che la libertà di parola si riveli
un mezzo ancor più micidiale del pensiero. Le idee proibite possono circolare
clandestinamente, ma che fare quando un fatto importante affonda in un oceano
di informazioni fasulle?” E ancora il racconto del 1955 “Esiste davvero,
Mr. Johns?” (in Interplanet, dianzi citato) riflette
sull’allora ipotetico problema dello stato giuridico di un uomo che, una volta
operato, si ritrova con le parti originali del corpo sostituite da impianti
artificiali (cervello incluso). Viene citato in giudizio dalle società che
hanno finanziato le operazioni perché lo ritengono di loro proprietà. La storia
affronta questioni oggi rivelanti per quanto riguarda gli esseri umani e i
robot, rivelandosi un’esplorazione pionieristica in ambiti della scienza oggi
cruciali. Come si già detto, Lem non è stato un fautore del progresso
tecnologico perché preoccupato dei lati minacciosi, soprattutto riguardo il
corpo umano.
Nel Ventunesimo
viaggio delle Memorie di un viaggiatore spaziale (in
antologia) il protagonista Ijon Tichy atterra su un pianeta chiamato Dictonia,
i cui abitanti sono così avanzati che possono fare e rifare i loro corpi a
piacimento. Come viene spiegato: “All’inizio questa tecnologia è usata per fini
prevedibili, come gli ideali della salute, dell’armonia, della bellezza, ma
viene presto manipolata per obiettivi diversi, come ad esempio i ‘gioielli
cutanei’ delle donne, o ‘ basette e codini, pettini da testa, mandibole a
doppia articolazione… Dopo un po’ di tempo i Dictoniani abbandonano la forma
umanoide… La scelta illimitata può diventare, sostiene la storia, un grande
fardello…” In seguito, verso la fine del secolo scorso, commentando le
possibilità e le minacce della clonazione degli organismi umani (che vedeva
come l’inizio della nuova era della schiavitù), Lem ricordava: “Le mie storie
divertenti scritte quarant’anni fa sulla corteccia cerebrale usata come carta
da parati stanno cominciando ad assumere la forma di una realtà terrificante”.
La seconda
parte dell’antologia è dedicata agli apocrifi, con spunti d’innegabile
interesse. Si tratta di cinque pezzi che costituiscono una biblioteca
inesistente di libri immaginari, perduti o mai scritti, recensioni di saggi
inesistenti (“Vuoto assoluto” del 1971 in Editori Riuniti e Voland, e l’inedito “Provocazione” del
1984) o introduzioni e commenti a opere immaginarie (“Grandezza
immaginaria” del 1973 e “Biblioteca del XXI secolo” del 1983
entrambi finora inediti), a cui si affianca Golem
XIV (dianzi citato). Siamo nel campo della “pseudobiblia”, neologismo
coniato nel 1947 da L. Sprague De Camp che ha escogitato un altro noto
termine, E.T. Extra Terrestrial, in riferimento alla vita
aliena mentre per H.G. Wells l’espressione indicava l’uomo al di là della
terra. (De Turris e Fusco, “Pseudobiblia, I libri che non esistono”, Bietti,
2020). Vi sono casi di pseudobiblia celebri come il Manuale delle Giovani Marmotte o il Necronomicon citato
nelle opere di Lovecraft, La cavalletta non si alzerà mai
più ne La Svastica sul Sole di Dick, il Libro Rosso di La letteratura
nazista in America di Bolano, senza dimenticare le Finzioni di Borges. Il cinema italiano ha presentato un
cameo nel primo Fantozzi del 1975 con la regia di Salce,
quando il protagonista corre alla stazione per riportare il romanzo
giallo “L'albicocco al curaro” alla figlia di un azionista dell'Azienda.
Lem ha
costruito, con ispirazione ludica quasi postmoderna, un congegnato scherzo
letterario che ironizza sul concetto di libertà espressiva degli scrittori e
dei critici. «Scrivere romanzi significa privarsi della libertà creativa. Il
critico si trova in una situazione ben peggiore, inchiodato al libro da
recensire come il galeotto ai ceppi… Lo scrittore smarrisce la libertà nella
propria opera, il critico in quella altrui?»
Qualche
esempio. In “Gigamesh” un immaginario autore irlandese, sulla
scorta dell’esperienza di Joyce che riscrisse l’Odissea ambientandola
a Dublino, scrive l’epopea sumerica di Gilgamesh. V’introduce riferimenti
letterari, numerologici, storici e scientifici con l’intento di farne una summa
del sapere umano tanto che l’apparato critico ha un numero di pagine doppio
rispetto al racconto. “Gruppenführer Louis XVI” è la storia di un
criminale nazista che, fuggito in America latina con il tesoro delle SS, fonda
nella foresta amazzonica con altri fuggiaschi tedeschi, avventurieri, balordi,
prostitute, una città di nome Parisia dove installa una corte che vuole essere
quella di Luigi XIV, almeno sulla base di conoscenze letterarie che rinviano a
Dumas e a romanzi d’appendice. “Rien du tout, ou la conséquence” cerca
di raggiungere il grado zero della scrittura scrivendo di niente ed
esprimendosi soltanto attraverso negazioni. L’incipit è eloquente: “Il treno
non arrivò” e nel periodo successivo “Egli non venne”.
Il vuoto
circonda la narrazione, un flusso di non-pensieri che annulla anche la stessa
autrice come soggetto narrante. “Pericalypsis” sarebbe scritta da
un profeta che è muto come chi, essendo un tedesco, sceglie di rivolgersi ai
francesi in olandese dopo un’introduzione in inglese. L’assunto è che il mondo
è invaso dai vuoti a perdere, dagli imballaggi e dall’inutile chiacchiericcio
letterario e spirituale. Di questa situazione nessuno si è accorto anche se già
avvenuta, per cui la profezia è una retrofezia. Per questa ragione non si
chiama Apocalisse e contiene una proposta radicale: chi scrive
libri deve pagare di tasca propria e deve essere disincentivato da una
tassazione proporzionale al numero di opere, così pubblicherà solo chi ha
qualcosa di davvero importante da dire ed è disposto a pagare di persona per
dirlo. Per l’esistente propone roghi della cultura del XX secolo, non
reazionari ma di salvataggio, progressivi, redentori. Coerentemente suggerisce
al lettore di fare a pezzi e consegnare al fuoco la sua stessa Pericalypsis.
“La nuova cosmogonia” è il discorso per la premiazione del Nobel di
un inesistente cosmologo, Alfred Testa che analizza l’opera che lo ha ispirato,
la Nuova cosmogonia dell’immaginario Aristides Acheopoulos.
Essa delinea una visione dell’universo totalmente nuova, in quanto le leggi del
cosmo sarebbero la manifestazione tecnologica di civiltà evolutesi per miliardi
di anni e così avanzate da non usare più macchine o tecnologie riconoscibili ai
nostri occhi.
Per
misteriosi scopi modificherebbero le leggi fondamentali dell’universo cambiando
la realtà fisica così da rendere il cosmo più congeniale alla propria esistenza
e nel tempo si passerebbe a fasi in cui le modifiche avverrebbero a piacimento
in ambiti sempre più estesi. L’universo odierno sarebbe lo scenario del Gioco delle antiche civiltà
extraterrestri, i fantomatici e quasi onnipotenti Giocatori. Dopo le antiche e
violente fasi competitive si sarebbe affermata la fase collaborativa
odierna in cui «si massimizzano i benefici comuni e minimizzano i danni». La
conseguenza per Testa e Acheropoulos è che ormai nell’universo non è più
possibile distinguere il naturale dall’artificiale.
Alcune
domande sono destinate a ripetersi: “Che cosa significhiamo per il mondo? E che
cosa significa il mondo per noi?”. “Siamo… sempre ossessionati dall’ansia di
indagare e in questo modo soddisfiamo la condizione preliminare: la limitazione
senza la quale non potremmo fare nulla, perché altrimenti saremmo tutto.”
(Il pianeta morto, dianzi citato). La tomba di Lem è una lapide di marmo
e granito nel cimitero di Salwator poco fuori Cracovia, con un’iscrizione in
latino tratta da Le tre sorelle di Cechov: Feci quod
potui, faciant meliora potentes (“Ho fatto quel che potevo, chi può
faccia di meglio”).
https://www.doppiozero.com/materiali/grandezza-di-stanislaw-lem
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