Ci risiamo. Si riaccendono
le luci sull’insostenibilità del debito pubblico italiano. È bastato poco meno
di un anno di governo per svelare il bluff di Draghi. Incoronato come il
salvatore della patria, lo scudo nazionale nei confronti dell’Europa, nonché il
grande cacciatore di virus, sono bastati undici mesi per ritrovarci nel pieno
della quarta ondata di pandemia e con lo spread che torna a riveder le stelle.
E mentre il ‘nostro’ cerca la via di fuga del Quirinale, i segnali di
accelerazione dell’inflazione accendono i fari sulle politiche delle banche
centrali e sulle conseguenze per il debito pubblico.
Il fatto è che la Federal
Reserve, banca centrale degli Usa, ha già pianificato la riduzione
dell’immissione di liquidità sui mercati e una serie di progressivi aumenti dei
tassi d’interesse, che, rafforzando il dollaro e rendendo più attrattivi i
titoli di stato statunitensi, potrebbero provocare un nuovo terremoto in
Europa.
Draghi e Macron, fiutato
il pericolo, hanno lanciato la proposta di rimettere in campo il Mes, il
cosiddetto Fondo Europeo Salva Stati, al quale dovrebbe essere ceduta la
quota di debito “pandemico” – per l’Italia si tratta di 68 miliardi all’anno
per un periodo di cinque anni e un totale di 340 miliardi – ora in mano alla
Banca Centrale Europea, in seguito alla ripresa dell’acquisto di titoli di
stato effettuata dalla Bce con l’avvento della pandemia.
Si tratta della
riproposizione a pieno titolo del rigore e dell’austerità – il Mes non è nato
in Lapponia, dunque non è Babbo Natale – per quanto mascherata da probabili
piccole modifiche dei parametri di Maastricht, ormai insostenibili per tutti.
Ma se la Bce seguisse
pedissequamente quanto intende fare la Fed, ovvero ridurre l’immissione di
liquidità e rialzare i tassi di interesse, che male ci sarebbe? Sarebbe un
disastro, determinato dal fatto che non si è mai messo mano al vero nodo
strutturale: la natura e il funzionamento della Banca Centrale Europea.
Già, perché diversamente
dalle banche centrali di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone, la Banca Centrale
Europea ha come unico scopo statutario la stabilità della moneta, ma, essendo
l’euro la moneta di molti Stati profondamente diversi tra loro dal punto di
vista economico e sociale, ci troviamo di fronte ad un insormontabile paradosso:
da una parte la BCE presta il denaro alle banche allo stesso prezzo dovunque
queste siano collocate; dall’altra, le banche intervengono a seconda dei tassi
di interesse di ciascun Paese, determinati dall’andamento dei titoli di stato
quotati sul mercato. (lo spread non è altro che la differenza fra i tassi di
interesse sui titoli di stato di Italia e Germania).
Di conseguenza,
un’automatica applicazione da parte della Bce delle politiche della Fed,
facendo crescere parallelamente i tassi di interesse di tutti i Paesi, avrebbe
conseguenze pesantissime sugli Stati maggiormente indebitati, a partire
dall’Italia.
Cosa si dovrebbe dunque
fare? Occorre pretendere che la Banca Centrale Europea si ponga l’obiettivo di
far convergere i tassi d’interesse sui titoli di stato di tutta l’eurozona,
applicando criteri selettivi nella propria modalità d’intervento, a partire
dalla garanzia dell’acquisto dei titoli di stato dei paesi più fragili.
Per farlo, occorre uscire
dall’idea di un’Europa come libera prateria della speculazione finanziaria e
come terreno per la competizione selvaggia fra gli Stati e fra le economie.
Perché va bene il
“whatever it takes” ovvero il ‘con ogni mezzo necessario’, ma è sulle finalità
a cui applicarlo che la disparità con Draghi e i grandi interessi finanziari
resta incolmabile.
(Articolo pubblicato sul manifesto del 15 gennaio 2022)
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