Il combinato disposto tra la tanto commentata conferenza stampa del Presidente del Consiglio Draghi (con relative
bugie) e le reazioni dei partiti politici della sua maggioranza – iniziate
pochi secondi dopo la sua conclusione – la dice lunga sul drammatico marasma
istituzionale che il “governo dei migliori” rischia a inizio ‘22. E anche sullo
spesso strato di ipocrisia che ha avvolto sia le parole dell’uno che quelle
degli altri.
A Draghi, evidentemente, in tutte quelle due ore e passa di speach tacitiano,
interessava lanciare un unico, chiaro messaggio, e cioè che il suo compito come
Capo del Governo poteva considerarsi concluso, e che quindi lui era pronto per
il grande salto tra i palazzi, da Chigi al Quirinale. L’ha fatto al prezzo di alcune
evidenti bugie: la “normalità ritrovata” nonostante la pandemia si stia
impennando, l’operato concorde di una maggioranza che in realtà più litigiosa
non si potrebbe immaginare, la riforma fiscale che premierebbe i più poveri
(affermazione smentita proprio ieri dallo stesso Ufficio parlamentare di
bilancio come documenta il più amico dei suoi giornali
di riferimento, Repubblica)… Oltre che di disinvolte imprecisioni:
un PNRR già perfettamente strutturato e in attesa solo di essere “messo a
terra” come se quest’ultima operazione non comportasse tutte le problematicità
possibili, per dirne una. E di una vera e propria provocazione: l’affermata
“centralità del Parlamento” da parte di uno che la discussione parlamentare se
l’è messa sotto i piedi sistematicamente, l’ultima volta in forma marchiana con
la Legge di Bilancio rimasta in aula l’espace d’un matin (poco
più di un giorno in Senato, appena tre ore alla Camera, tanto da aver fatto
esclamare a un rappresentante della sua maggioranza la fatidica frase “Meglio
l’esercizio provvisorio che distruggere così il Parlamento”)… Ai partiti, tutti
o quasi – comunque quelli che costituiscono la sua maggioranza -, interessava
al contrario sfilargli di sotto il trampolino per quel salto. E l’hanno fatto
tessendone in apparenza un elogio sperticato e tirando in realtà un colpo basso
alle sue ambizioni.
Incrociando questa doppia menzogna, se ne ricava una verità. E cioè che per
“uscirne vivo” dalle Idi di gennaio, al “governo dei migliori” sarebbe
necessario un doppio miracolo, sia che prevalgano le ambizioni dell’uno sia che
facciano premio gli appetiti degli altri. Se Draghi andasse al Quirinale,
resterebbe il rebus irrisolvibile di chi gli succederebbe al Governo, dopo che
i suoi “azionisti di maggioranza” avessero consumato obtorto collo la
loro precaria unità in quel mandato subìto. Occorrerebbe appunto il “miracolo”
di una maggioranza arlecchino che dopo aver subito l’umiliazione di non aver
potuto scegliere il sovrano (come avrebbe voluto e come ha gridato in tutti i
modi), si acconcia anche a sottomettersi in tinta unita a un sosia in
sedicesimo, privo del carisma d’ufficio che “il Migliore” si era visto
assegnare. Se al contrario Draghi restasse inchiodato al suo trono “minore” di
Palazzo Chigi, con che maggioranza si ritroverebbe se quella che l’aveva
sostenuto finora si fosse spaccata e dilaniata nell’elezione presidenziale?
(domanda che d’altra parte si è fatto lui stesso) Qui il “miracolo” necessario
starebbe nella trasformazione istantanea di un branco di istrici rissosi in
disciplinate api operaie di un alveare mandelvilliano (e anche questo, come sa
chi ha letto la favola, non sarebbe né perfetto né desiderabile). Ma in
politica – dovremmo averlo imparato – i miracoli sono rari. Soprattutto i
“miracoli italiani”. E allora?
Allora bisognerebbe incominciare a riflettere su quanto in realtà sia stata
“avventuristica” la soluzione voluta dal Quirinale esattamente un anno fa,
favorita dalla solita vocazione piratesca di Matteo Renzi e dal tartufiamo di
gran parte del sistema dell’informazione), con la sostituzione per via
extra-parlamentare (cioè senza nemmeno un passaggio in Parlamento per
verificare la fiducia o certificare la sfiducia) del governo Conte II col
governissimo Draghi I: soluzione che allora apparve a quasi tutti – con
l’eccezione di questo giornale e pochi altri – la cosa più ragionevole del
mondo, scritta nell’ordine delle cose (che coincideva con l’ordine di
Confindustria), virtuosa per sua natura. E che invece conteneva già in sé (per
la personalizzazione estrema del comando e l’estensione abnorme della
maggioranza) i semi del male che ora germoglia: l’estenuazione e la
frammentazione dei partiti in crisi di leadership ma soprattutto di identità;
la rissosità marginale di una maggioranza commissariata da un Capo
insindacabile che si riserva sempre l’ultima parola; la marginalizzazione
definitiva di un Parlamento già ampiamente delegittimato e che proprio ora
rivela in diretta il proprio carattere puramente ornamentale (altro che la
“democrazia parlamentare” evocata da Draghi come scudo per non rispondere a
domande per lui scomode); infine, last but not least,
l’eccezionalità dei un’aggregazione innaturale che non ne permette repliche
credibili… Quella soluzione, allora applaudita in forma trasversale, non ha
avvicinato la soluzione della crisi italiana. Ha contribuito per molti aspetti
a incancrenirla. E’ probabile che da questo nuovo passaggio ne usciremo
peggiori. Anche perché due incognite pesano come macigni.
La prima è sanitaria. Dopo che hanno parlato le forze politiche (le cui parole
però, si sa, son leggere), occorrerà aspettare che parli il virus (il cui
codice comunicativo è al contrario pesantissimo): che succederà se alla metà di
gennaio i contagi saliranno ancora, magari raddoppieranno come teme l’OMS, se
le terapie intensive si satureranno, e persino se una parte di “grandi
elettori” non potrà esser presente in aula perché in quarantena (sia pur
abbreviata a 5 giorni)? Come evitare che la tentazione dell’emergenza (quella
vera, non quella dei DPCM) allunghi la sua ombra sul passaggio istituzionale in
atto? Il secondo è politico (o meglio “etico”, se il termine si potesse ancora
usare senza temere i risolini di scherno dei soliti uomini di mondo): ed è
l’ipotesi di una candidatura Berlusconi. Non dico dell’elezione, che sarebbe
una catastrofe inimmaginabile. Ma anche solo della sua candidatura, che alla
tragedia della pandemia aggiungerebbe la farsa della politica. Se in quell’aula
echeggiasse nello scrutinio il nome del pluricondannato ex presidente del
Consiglio (proprio in quei giorni – il 21 gennaio – coinvolto davanti al
Tribunale di Bari in una brutta storia di prostituzione e “cene eleganti”)… Se
pur anche una parte della nostra rappresentanza parlamentare votasse un uomo
che non solo è stato condannato in via definitiva, ma che ha ancora processi in
corso (ben quattro!), per conferirgli la più alta carica dello Stato (quella
che comporterebbe la presidenza del CSM e la guida di quella magistratura che
dovrebbe giudicarlo); uno, aggiungiamo, che manda in giro un condannato per
mafia come Dell’Utri a fare scouting per lui; se questo
accadesse, l’immagine stessa dell’Italia cadrebbe in un fango indelebile.
Costituirebbe, diciamocelo – diciamolo! – un punto di non ritorno.
Sarebbe bene che chi ha mantenuto un brandello di lume della ragione (e un
minimo di senso del pudore) si risvegliasse dal torpore. Che i vari Letta e
Conte la smettessero di far melina (cosa va bisbigliando il primo con la
Meloni? Cosa va riconoscendo il secondo a Berlusconi?). E prendessero atto del pericolo,
parlando per una volta con chiarezza, perché un’eventuale candidatura
Berlusconi non è “divisiva”, come vanno dicendo. E’ distruttiva.
Per il Paese intero.
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