Vorrei raccontare la storia di Zingara. Lei si chiama
proprio così: non è uno pseudonimo “etnico” né un nome di fantasia, come dicono
i giornali quando parlano di una vicenda personale controversa (mi viene in
mente che quando raccontai, anni fa, in un libro, del ragazzo marocchino
arrestato e ammanettato ai Murazzi di Torino e che poi finì nel Po e
naturalmente annegò, i giornali scrissero che si chiamava “Al Arabi”, cioè
l’Arabo, anche se il suo nome era Khalid).
Zingara è una giovane donna Rom, una famiglia della ex
Jugoslavia rifugiata in Italia dai tempi della guerra in Bosnia. Una delle tante.
Senonché il padre finì in carcere e la madre, che aveva altri otto figli, non
sapendo come sopravvivere, affidò la bambina a una casa-famiglia, dove lei
crebbe abbastanza bene. Finché il padre uscì di galera e la rivolle indietro.
In un campo, nella roulotte. Dove qualche fratello o amico suo la usò come
parafulmine per i loro furti sistematici di motorini: Zingara era minorenne,
perciò non finiva in carcere, e la sua fedina penale si arricchì.
Ma la ragazza e poi donna non stava bene, nella
roulotte, a prescindere dai motorini, era abituata a stare in una casa, cercava
una vita migliore. Infine si innamorò, ricambiata, di un non Rom, un romano,
che di mestiere faceva la guardia giurata, aveva una casa di sua proprietà e
insomma era, ed è, quel che si dice una persona normale. Finalmente una donna
Rom occupa nella società una casella che non allarma nessuno.
Senonché l’amore ha le sue conseguenze, Zingara resta
incinta, e qui cominciano, o ricominciano, i guai.
Sarà per il nome che sfacciatamente porta, sarà per la
fedina penale, o la casa famiglia e poi la roulotte, ma la donna è sotto il
microscopio dei servizi sociali del Comune di Roma. O forse si tratta, più o
meno consciamente, dell’ostilità verso un bambino un po’ Rom e un po’ no. E
insomma una assistente sociale segnala all’ospedale dove Zingara va a partorire
che non si deve assolutamente permettere che la donna, e il suo compagno, che
nel frattempo ha riconosciuto il figlio, porti via con sé il bambino. Il motivo
è che lei, Zingara, è border line e “pericolosa per sé e gli
altri”.
Così, la donna e il padre del bambino, nel frattempo
chiamato Alessandro, per due mesi vanno, ogni giorno, all’ospedale, dove lei
allatta e tutti e due si prendono cura del figlio, lo cambiano, gli fanno il
bagnetto eccetera. E si comportano, secondo l’ospedale, in modo amorevole e
sollecito. Al termine dei due mesi, Alessandro viene “dato in pre-adozione”,
cioè rubato ai suoi genitori, e affidato a una coppia regolarmente italiana
che, guarda caso, era pronta ad accoglierlo. Segue indagine di polizia che,
perquisita la casa dei due genitori naturali e trovata la pistola da guardia
giurata, del tutto regolare, sequestra l’arma, dato che Zingara è “pericolosa”,
e quindi lui perde il lavoro. Seguono due tappe giudiziarie, dove l’assistente
sociale spiega che Zingara l’ha minacciata. E come? chiede il giudice. Mi ha
detto che mi fa una fattura e dopo tre giorni muoio. Il perito, una donna, del
tribunale certifica invece la sanità mentale di Zingara, il fatto che non è
affatto pericolosa ed è ansiosa di fare la madre. Ma i giudici, niente. In base
alla legge italiana, che stabilisce come in questi casi prevalga il “benessere”
dei bambini, confermano, sia in primo e che nel secondo grado, che Alessandro è
adottabile, cioè non deve stare con una madre zingara e con una coppia non
tanto regolare.
Si dirà che è una storia piccola, individuale, può
capitare. Ma non è così. Qualche anno fa, l’associazione 21 luglio, che si
occupa di Rom, presentò una ricerca intitolata “mia madre era Rom”, da cui si
ricavava che nel Lazio un minore Rom ha 60 probabilità in più di essere
segnalato come “adottabile” rispetto a un suo coetaneo non Rom, ciò che si
traduce in un 40 per cento di probabilità in più di essere dichiarato
adottabile. In definitiva, per un minore Rom su 33 (il 3,1 per cento della
popolazione minorenne Rom nel Lazio) è stata emessa una sentenza in via
definitiva che ha dichiarato il bambino adottabile. Di contro, i minori non rom
dichiarati adottabili nello stesso arco di tempo nel Lazio sono stati lo 0,08
per cento della popolazione minorenne non rom, ovvero uno su 1250. E poi dice
che sono gli zingari a rubare i bambini.
È talmente sistematica, questa pratica, da far pensare
a quel che facevano gli australiani con i figli degli aborigeni o i canadesi
con i figli dei nativi americani o “prime nazioni”, cioè il tentativo di
cancellare, assorbire, le culture non europee e non cristiane con
l’assimilazione forzata delle nuove generazioni. Pratiche tanto diffuse e
feroci da spingere i governi australiano e canadese a chiedere scusa, mentre si
scavano, in Canada, le fosse comuni dove, ai margini delle scuole (molto spesso
cristiane), finivano i bambini più riottosi.
Un paragone esagerato? Forse. In fondo in Italia non
esiste alcuna norma o legge che consenta di rapire i bambini, come non esiste
alcun regime codificato di apartheid nei confronti, in generale, di Rom e
Sinti. Ma il fatto che nulla sia scolpito in leggi, non impedisce che la
discriminazione sia sistematica, come nel caso di quel padre di famiglia che,
buttato fuori dalla baracca perché l’allora sindaca di Roma Raggi, alla ricerca
spasmodica di voti, aveva fatto sgombrare il campo senza di fatto offrire
alcuna alternativa, viveva in macchina con tutta la famiglia, finché i vigili
urbani gli contestarono che l’assicurazione era scaduta e minacciarono di
sequestrare l’auto, e volonterosi dovettero fare una colletta per pagare
l’assicurazione.
Altro caso isolato? Ma la sindaca Raggi ha sgomberato
in questo modo cinico molti campi rom, compresi quelli regolari, e centinaia di
famiglie sono andate a vivere sotto i ponti, ai margini del Tevere, in una
piccola stazione ferroviaria dove almeno c’erano dei rubinetti per lavarsi,
eccetera. Per non parlare della sordità o ostilità dell’“ufficio rom” quando si
trattava di dare alle famiglie Rom gli aiuti d’emergenza per la pandemia o il
reddito di cittadinanza. O dei pregiudizi dei servizi sociali, appunto.
Se Avvenire, quotidiano cattolico,
pubblica un appello che denuncia un reale “apartheid” contro Rom e Sinti,
appello firmato da personalità di molte provenienze, cattolici ed ebrei,
intellettuali e docenti, e gente di sinistra (https://volerelaluna.it/territori/2021/12/13/liberiamo-roma-dallapartheid/), è perché il fenomeno,
accuratamente tenuto invisibile ai nostri occhi dai media, c’è ed è grave.
Infatti Zingara e gli avvocati che la aiutano a recuperare il suo bambino
meditano ora di rivolgersi alla Corte di giustizia europea. Forse lì il
pregiudizio è meno ferreo, chissà.
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