Negli ultimi tempi si è parlato molto del fenomeno della “Great Resignation”, la “Grande Dimissione”, che negli Stati Uniti ha portato circa 24 milioni di persone a lasciare il proprio impiego nei primi tre trimestri del 2021. La sociologa Francesca Coin ha analizzato le ragioni di questa fuga di massa dal lavoro, evidenziando come, perlomeno negli USA, più che di processi individuali si tratti di un “fenomeno politico” e collettivo, “teso a rinegoziare il confine tra ciò che è lecito e ciò che non è più accettabile” - un orario di lavoro eccessivo, non riuscire a pagare l’affitto, comprare una casa o permettersi cure mediche, bassi salari, troppo poco spazio per i tempi di vita.
Moira
Donegan sul Guardian si è chiesta se esista anche una questione di genere attorno al
fenomeno della “Great Resignation” statunitense: “Durante la pandemia, le donne
sono uscite dalla forza lavoro a un tasso doppio rispetto agli uomini; la loro
partecipazione è ora la più bassa da oltre 30 anni. Circa un terzo di tutte le madri lavoratrici ha ridimensionato o lasciato
il lavoro da marzo 2020”.
Secondo
Donegan questi dati hanno poco a che fare con scelte personali e molto con
condizioni materiali, come quella banalmente del non avere avuto nessuno che si
occupasse dei figli tra scuole chiuse per quasi due anni, quarantene e carenza
di strutture per bambini piccoli (o a prezzi molto alti diventati ancora più
proibitivi). Un discorso analogamente applicabile anche all’assistenza delle
persone anziane e tutte quelle attività di cura non retribuite che, non
ricevendo dovuta attenzione da parte dei governi, hanno l’effetto di spingere
le donne nella sfera domestica. “Potrebbe essere più corretto, quindi, dire che
per quanto riguarda le madri che lavorano, la ‘Grande Dimissione’ non
riguarda le donne che lasciano la forza lavoro. Riguarda il loro
esserne espulse”, scrive. Un trend che era già in atto sin dal
2008, ma che la
pandemia ha drammaticamente accelerato.
In
Italia secondo il
ministero del Lavoro nel terzo trimestre del 2021 le cessazioni richieste dai
lavoratori sono state 569mila, di cui 524mila sono dimissioni, cresciute del
26,7%. Queste ultime nel trimestre precedente avevano segnato un aumento
dell’85% rispetto allo scorso anno e del 10% rispetto al 2019. Qui però va
fatta una precisazione, perché nel 2020 le dimissioni si erano praticamente
dimezzate: è stato l’anno dell’arrivo del nuovo coronavirus, dell’incertezza e
dei lockdown, chi aveva un lavoro tendeva a tenerselo. Coin ritiene che la
riflessione sul nostro paese circa la “Grande dimissione” sia parzialmente
diversa da quella che riguarda gli Stati Uniti: più una dimensione personale
che collettiva e di lotta - almeno fino a questo momento. Non vanno trascurate,
tra l’altro, le diversità strutturali del mercato del lavoro in Italia,
caratterizzato da alti tassi di disoccupazione, crescita di contratti a termine
e lavoro dequalificato. Siamo l’unico paese d’Europa dove negli ultimi 20 anni gli stipendi sono
diminuiti invece di aumentare, con un tasso di soddisfazione dei lavoratori tra i più bassi al mondo. La scelta di lasciare il lavoro diventa una sorta di salto
nel buio.
E sulla
questione di genere? Se si vanno a guardare i dati del ministero del Lavoro,
non c’è grossa differenza tra uomini e donne sulle percentuali in aumento delle
dimissioni. Nelle rilevazioni più recenti, ad esempio, si parla di +27,6% per
il sesso maschile e +25,5% per quello femminile.
Le cose però
assumono una prospettiva diversa se si mette in ballo la famiglia. Secondo un
rapporto dell’Ispettorato del Lavoro che prende in considerazione i
provvedimenti di convalida di dimissioni di lavoratori e lavoratrici con figli
fino a tre anni, nel 2020 il 77,2% di quelle relative a dimissioni volontarie
ha riguardato donne. Nel 2019 la
percentuale era del 73%.
“La
condizione di genitorialità ha strutturalmente un impatto diverso sulla
partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne. Sussiste infatti una
relazione tra la diminuzione degli indicatori relativi alla partecipazione e
all’occupazione in coincidenza della maternità e in relazione al numero dei
figli”, scrive l’Ispettorato. Quando ci sono bambini, all'aumentare dei figli
la partecipazione maschile aumenta, quella femminile si riduce sempre di più.
Stessa cosa succede con l’inattività (cioè non avere un lavoro e non cercarlo).
È
interessante guardare le motivazioni delle dimissioni, sulle quali “esiste una
profonda differenza di genere”: quelle che riguardano difficoltà di
conciliazione per ragioni legate ai servizi di cura o ragioni legate
all'organizzazione del lavoro sono presentate quasi esclusivamente da donne
(tra il 96% e il 98%). Per gli uomini, la motivazione più comune è invece il
“passaggio ad altra azienda”.
Quello che
emerge allora è il solito elefante nella stanza: il grosso problema dello
squilibrio di genere nei carichi di cura in Italia, specchio di una divisione
dei compiti stereotipata e profondamente maschilista.
Una
concezione, quella dell’uomo come breadwinner e la donna
regina del focolare, che è piuttosto radicata: le rilevazioni
dell’Eurobarometro 2014-2017 mostrano che in
Italia il 51% del campione intervistato pensa che il ruolo più importante per
una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia. È diffusa
anche la convinzione che i figli soffrano quando la mamma lavora, che se ci
sono pochi posti di lavoro siano gli uomini a doverseli prendere e che le donne
siano più adatte al lavoro di cura. Secondo il rapporto Istat “I tempi della vita quotidiana
- lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo” del 2019, il
62% del tempo di lavoro totale degli uomini è assorbito dal lavoro retribuito e
il 38% da quello non retribuito. Per le donne, invece, il tempo di lavoro non
retribuito copre il 75% loro monte ore di lavoro quotidiano.
La pandemia
– così come per altri contesti – non ha fatto che confermare e acuire le
storture.
Il progetto Career –
CARE for womEn woRk (nato dalla collaborazione tra Università Cattolica del Sacro Cuore e
Politecnico di Milano) ha elaborato un’analisi sugli effetti dello smart
working sulle donne lavoratrici. «Abbiamo iniziato i nostri studi in pieno
lockdown, nel marzo 2020. Volevamo cercare di capire cosa stesse succedendo
alle lavoratrici. Da un primo studio trasversale, confrontando l’Italia con
altri paesi dell’Europa mediterranea come Spagna e Grecia, è emerso che la
situazione delle lavoratrici italiane è peggiorata più che nelle altre nazioni,
perché da noi le donne si sono trovate a fronteggiare una drastica diminuzione
degli aiuti provenienti dalla famiglia allargata, senza riuscire a coinvolgere
di più i partner nell’organizzazione familiare», ha spiegato la coordinatrice Claudia Manzi, docente di Psicologia sociale alla
Cattolica. «Risultato: i carichi sono diventati più gravosi. E oggi la
situazione, a quasi due anni dallo scoppio della pandemia, è peggiorata. Le
donne sono più stressate e fanno sempre più fatica a conciliare famiglia e
lavoro».
Dallo studio
è emerso che se da un lato le lavoratrici hanno visto nello smart working
un’occasione di maggior presenza in casa, dall’altro il carico domestico ha
reso difficile conciliare lavoro e vita familiare. A subirne le conseguenze non
sono stati tanto i risultati, quanto i livelli di stress e benessere mentale.
Messe a confronto le due giornate lavorative in ufficio e da casa per uomini e
per donne, emerge come queste ultime facciano più fatica a gestire le interferenze
della vita familiare in quella lavorative.
Il passaggio
dal lockdown alla cosiddetta fase 2 ha confermato il
modello tradizionale di divisione dei ruoli di cura.
Uno studio portato
avanti da alcune ricercatrici per la Fondazione Collegio Carlo Alberto nella
prima e nella seconda ondata mostra come in quasi tutte le possibili modalità lavorative
– da casa o in ufficio - le donne dedichino più ore dei loro partner al lavoro
domestico. "La differenza più significativa emerge nelle famiglie in cui
gli uomini continuano a lavorare sul posto di lavoro mentre le donne lavorano
da casa (1,81 ore). Nella situazione opposta, in cui le donne continuano il
lavoro precedente alla pandemia e gli uomini lavorano da casa, le donne
dedicano comunque più tempo al lavoro familiare degli uomini (2,92 contro 1,40
ore al giorno). La distribuzione del lavoro familiare penalizza le donne anche
nelle situazioni simmetriche, ossia anche quando entrambi i membri della coppia
lavorano da casa", spiegano le
curatrici.
“Le donne
italiane, già prima della pandemia più responsabili della famiglia dei loro
partner, hanno continuato a dedicare al lavoro familiare più tempo durante
tutto il 2020”. Questo, secondo le ricercatrici, è dovuto anche alla chiusura
delle scuole.
Anche secondo
un rapporto curato
dall’Istituto Nazionale per l'Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), in
periodo di lockdown, nonostante la compresenza del partner, le attività di cura
sono rimaste prevalentemente a carico delle donne: “La crisi ha rafforzato
l’etichetta di sandwich generation con cui si definiscono le
donne, prevalentemente di età compresa tra i 35 e i 45 anni, compresse da
esigenze di cura multiple a cui si trovano a far fronte senza aiuto stabile del
partner”. Al carico di cura ordinario, in questo periodo, si sono aggiunte le
attività connesse alla prevenzione sanitaria e la didattica a distanza. “In
questo scenario, la transizione a una fase di ripresa, non è stato un processo
neutro”.
Dopo il
lockdown, infatti, a rientrare al lavoro fuori casa sono stati prima – e in
misura maggiore – gli uomini. Le donne con figli o carichi familiari e con un
reddito medio inferiore a quello del partner sono state penalizzate da
“accordi” familiari: in base a questi hanno spesso rimandato il rientro al
lavoro, sino ad arrivare in alcuni casi alla decisione delle dimissioni. Perché
le donne e non i loro mariti o compagni? “Per la mia capacità/ruolo di gestione
e cura familiare”, “il mio orario di lavoro mi consente maggiore flessibilità
del partner” o “il mio stipendio è più basso di quello del partner, se resto io
a casa, la perdita economica è minore”: sono motivazioni usate esclusivamente
dalle lavoratrici.
La
disponibilità delle donne a modificare la propria prestazione lavorativa fino
alla rinuncia e la discontinuità occupazionale in presenza di carichi familiari
non sono certo nate con la pandemia. Rappresentano, anzi, spiega l’INAPP, “una criticità che intreccia la dimensione reddituale con quella
culturale in una spirale tuttora irrisolta”.
In Italia,
infatti, nelle coppie in cui entrambi guadagnano, il contributo delle
donne non supera il 40% del reddito familiare,
con la maternità una donna su sei esce dal mercato del lavoro perché
non riesce a conciliare l’impiego con le esigenze di cura e le dimissioni
volontarie delle madri di figli da 0 a 3 anni sono in costante aumento negli
ultimi anni, superando le 35mila unità nel 2019. Sono le donne, infine, come
mostrano anche gli ultimi dati Istat, ad avere i contratti più precari e
la maggioranza di quelli part-time. A questo scenario si aggiunge la carenza di servizi per l’infanzia, con 24,7 posti disponibili in asili nido ogni 100
bambini da 0 a 2 anni in Italia.
Se dunque
esiste una questione di genere nella “Grande dimissione”, è certo che la
pandemia ha grattato su una ferita già aperta. Uno squilibrio dei carichi di
cura che non può più essere considerato un fatto privato e un mercato del
lavoro tutt’altro che favorevole, quando non decisamente ostile, nei confronti
delle lavoratrici, specialmente se decidono di avere dei figli.
Nessun commento:
Posta un commento