Turchia, si alza il velo sugli orrori di Erdogan - Antonio Ferrari
La denuncia della Commissione
per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il Paese trasformato in un
carcere-lager, dove si moltiplicano i suicidi. La ferocia e le bugie del
dittatore-sultano
Avevo spento la luce e mi ero imposto di tacere sulle mille porcherie che
conosco, e di cui vengo costantemente informato, nella Turchia del
dittatore-presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan. Era diventata quasi
un’ossessione. Ma ora non posso più tacere. Le notizie e i video che tanti
coraggiosi turchi mi mandano sono davvero mostruosi. Il Paese che amo da sempre
è diventato una gigantesca e feroce prigione, preambolo di morte altamente
probabile. Chi finisce in carcere, oltre a violenze di ogni genere, è spinto a
suicidarsi. Sono centinaia gli arrestati che hanno avuto la forza di gridare la
verità e che vanno a moltiplicare il numero di coloro che preferiscono
togliersi la vita, impiccandosi, piuttosto che sottostare all’infamia della
spietata dittatura. Non parlo dei fatti che ho denunciato per anni. Non parlo
della vendita o svendita di terre turche per arricchire l’unico padrone e i
suoi accoliti. Non parlo della telefonata di Erdogan al figlio, chiedendogli di
far sparire oltre 20 milioni di dollari, frutto di traffici illeciti. Non parlo
del ridicolo PHD all’Università di Bologna del figlio ( oggetto di un’inchiesta
giudiziaria), iscrittosi solo per poter raggiungere in fretta la Svizzera e
depositare il malloppo. Non parlo dei soldi pagati ad Ankara dall’Unione
europea per evitare un’invasione di profughi. Non parlo di ciò che Ankara fa
nel Kurdistan contro l’Intrepida minoranza curda. Non parlo di una politica
estera dissoluta. Silenzio imbarazzato su tutto. Eppure ho sempre creduto nel
giornalismo vero, composto di cronaca, buona scrittura e capacità di analisi e
di visione. Però credetemi. Mai avrei immaginato la catena degli orrori che mi
raccontano e mi documentano. Amici magistrati, riusciti a sfuggire agli
arresti, fuggono per salvarsi. Il 16 marzo di quest’anno la “Questione
Giustizia” in Turchia è stata denunciata dalla Commissione dei diritti umani
delle Nazioni Unite. Pensate che nel 2020 ben 283.000 persone erano state
arrestate, per ordine di Erdogan, perché accusate di terrorismo. E pensate che
all’inizio del 2021 il numero era salito a 597.783. Un lager mostruoso. Lo dico
con il cuore a pezzi perché avevo creduto, all’inizio, al riformismo di
Erdogan. Quando era sindaco di Istanbul e persino quando era riuscito a
diventare primo ministro. Era stata un’illusione. Ho conosciuto bene il
dittatore-sultano, l’ho intervistato quattro volte, oltre ad averlo ascoltato e
aver discusso animatamente con lui durante alcune conferenze-stampa a Istanbul
e ad Ankara. Alcune decisioni, appena eletto presidente, mi hanno sconcertato,
altre mi hanno sconvolto. La porcheria che il sultano aveva inventato la notte
del presunto colpo di Stato, porcheria che aveva fatto rabbrividire il mondo,
era davvero troppo. Ero riuscito a scoprire, con alcune importanti telefonate,
e non dal mio super controllato cellulare, che Erdogan era in vacanza. Non era
in volo, chiedendo asilo politico si leader di tutta Europa. Non sarebbe
tornato ad Ankara ma a Istanbul la mattina dopo, sperando che avrebbero vinto
gli allocchi creduloni. Ho giocato allora, alla vigilia del mio 70mo
compleanno, tutte le carte della mia credibilità. Che mai avrei sacrificata per
uno scoop improbabile. Il giorno dopo ero diventato, sempre improbabilmente, un
genio. Da quel momento Erdogan nella mia mente si è quasi trasformato in un
criminale. Oggi eliminerei il quasi. Ogni porcheria in Turchia è possibile. E
anche l’Europa, che gli vende armi dovrebbe vergognarsi. A questo proposito
Giorgio Gaber cantava “Mi fa male il mondo”. Quanto è vero e quanto mi manchi,
caro amico Giorgio.
TURCHIA: CARCERI DI STERMINIO? - Gianni Sartori
L’INFERNO DELLE CARCERI DI STERMINIO
TURCHE: sono già cinque i prigionieri politici curdi morti in circostanze
sospette in meno dieci giorni.
Per ora è l’ultimo. Ma si teme che non
lo sarà a lungo.
Condannato all’ergastolo, Vedat Çem Erkmen era rinchiuso nella prigione di
tipo F di Tekirdağ. Le dinamiche della sua morte (stando alla versione
ufficiale si sarebbe suicidato domenica 19 dicembre) risultano perlomeno
sospette. Quando i suoi familiari, gli avvocati dell’Associazione per i diritti
dell’uomo (IHD) e quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà
(ÖHD)si sono presentati alle porte del carcere sono stati informati che
l’autopsia era già avvenuta in loro assenza.
Un esponente della Commissione sulle prigioni di ÖHD, Gürkan Isteli, ha messo
in rete le sue perplessità: “Cosa cercano di nascondere? Siamo andati avanti e
indietro per ore dalla prigione al palazzo di giustizia, all’ospedale.
Ma tutte le nostre richieste di poter vedere il corpo venivano respinte. Solo
dopo molte ore, quando finalmente siamo riusciti a entrare nell’ufficio del
procuratore, abbiamo potuto identificarlo”.
Da qualche giorno il prigioniero curdo era stato trasferito in una cella
d’isolamento, senza plausibili ragioni. A meno che – è questo il timore che
serpeggia tra gli avvocati e non solo nel caso di Vedat Erkmen – tali
trasferimenti siano il preludio per l’eliminazione fisica del detenuto.
Particolare inquietante, solo qualche giorno prima (il 17 dicembre) nel corso
di una telefonata, il prigioniero aveva chiesto al fratello di presentare un
reclamo contro l’amministrazione penitenziaria per i maltrattamenti subiti. Si
profila quindi l’eventualità di una ritorsione dei guardiani nei suoi
confronti.
Come avviene quasi regolarmente nel caso dei detenuti curdi morti in
carcere, il corpo di Erkmen non è stato consegnato alla famiglia (affinché
potesse seppellirlo a Kars, la città natale), ma portato dalla polizia in un
cimitero di Istanbul (Küçükçekmece) già nel primo mattino di lunedì 20
dicembre.
Con quello di Erkmen siamo al quinto decesso sospetto di prigionieri politici
curdi in meno di dieci giorni.
Solo due giorni prima avevo scritto che “a costo di apparire cinico (ma in
realtà disgustato, affranto per questo rosario infinito e ingiusto di morte…) e
consapevole che sulla tragedia del popolo curdo l’ironia è fuori luogo, dopo la
morte di Halil Güneş il 15 dicembre (successivo a quelli di Abdülrezzak Şuyur
il 14 dicembre e di Garibe Gezer il 9 dicembre) non avevo potuto fare a meno di
pensare che “Non c’è due senza tre”.
Ma siccome non c’è limite al peggio, ora la lista si è ulteriormente
allungata”.
Infatti a distanza di un paio di giorni dalla morte di Halil Güneş l’ennesimo
prigioniero politico curdo era deceduto il 18 dicembre in una maniera che anche
i suoi familiari ritengono “sospetta”.
Ilyas Demir (32 anni, condannato all’ergastolo) si trovava in una cella
d’isolamento (dove, di fatto, i prigionieri sono completamente in balia dei
loro carcerieri) della prigione di tipo T di Bolu. La famiglia non era nemmeno
stata informata direttamente dalla direzione del carcere, ma soltanto dal
muhatar (il rappresentante di quartiere che evidentemente era stato contattato
dalle autorità). E senza che venisse fornita qualche spiegazione sulla cause
dell’improvvisa morte.
Madie Demir ha dichiarato che suo fratello, da quando venne arrestato nel 2013,
era stato rinchiuso in varie prigioni, spesso in isolamento. Inoltre,
nonostante patisse di gravi problemi psicologici, non era mai stato curato.
Aggiungendo che “costringerlo in isolamento in tali condizioni è stato un
crimine in quanto avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale per venir curato”.
Un passo indietro.
Quando il 13 dicembre del 1980 il giovanissimo militante del Türkiye Devrimci
Komünist Partisi (Partito Comunista Rivoluzionario della Turchia) Erdal Eren
venne impiccato, la sua vera età (16 anni) venne falsificata dalle autorità
turche per poterlo giustiziare.
Il ragazzo era stato arrestato con altri militanti di sinistra durante una
manifestazione e accusato della morte di un soldato.
Colui che ne aveva patrocinato l’impiccagione ( e che non certo impropriamente
venne definito il “Pinochet turco”), il generale golpista Kenan Evren, aveva
così commentato: “Avremmo forse dovuto incarcerarlo e nutrirlo a vita invece di
impiccarlo?”.
Quasi con le stesse parole veniva commentata la morte – il 9 dicembre -nel
carcere di Kocaeli della prigioniera politica curda Garibe Gezer (già torturata
e violentata dai suoi guardiani).
Alcuni media a favore di Erdogan si sono rallegrati per la sua morte
scrivendo che ora “c’era una terrorista di meno da nutrire in carcere”.
Di Garibe Gezer, morta il 9 dicembre,mi ero occupato circa due mesi fa
denunciando le ignobili sevizie a cui veniva sottoposta.
Torturata e violentata dai carcerieri, il suo è stato un autentico calvario.
Alla fine gli aguzzini hanno completato l’opera di annientamento nei confronti
di questa prigioniera politica rinchiusa nel carcere di massima sicurezza (di
tipo F) di Kandira a Kocaeli.
Secondo la versione fornita dall’amministrazione carceraria, la giovane curda –
arrestata a Mardin ancora nel 2016 – si sarebbe“suicidata”.
Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne
Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (TUHAY
DER) e dell’HDP, si sono riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il
corpo della giovane vittima. Hanno poi portato a spalla la bara scandendo
slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo.
Nella tarda serata del 10 dicembre è stata sepolta a Kerbora, la città dove era
nata 28 anni fa.
Ma la versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non ha convinto Eren
Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti
dell’Uomo (IHD) si è chiesta come la detenuta abbia potuto suicidarsi visto che
si trovava in isolamento (per una sanzione disciplinare), sotto lo sguardo
perenne delle telecamere.
Nell’ottobre scorso, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito
Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in
isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento – il 15 marzo – dalla
prigione di Kayseri in quella di Kandira dove in queste ore ha perso la vita.
Il 24 maggio, agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella
sua cella per picchiarla. Si leggeva nel rapporto che “mentre le guardiane le
tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena.
I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere
quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti
maschi”.
Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore
su 24”.
E qui subiva “violenze sessuali da parte dei carcerieri”.
A causa delle violenze subite, secondo il rapporto di HDP, la prigioniera
avrebbe cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del
carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata.
Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e
veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione
telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe
stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate
altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state
censurate, altre mai spedite.
Nonostante le sue proteste e denunce degli abusi subiti in carcere fossero note
da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata.
Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo
stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli
avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere
all’autopsia.
Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre. La sua
famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di
liberazione.
Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8
ottobre2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir
a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e
Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici
governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che
sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta
di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis.
L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi
provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua
Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate
(quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti.
Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di
Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla
polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della
famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati.
Come ho detto dopo Garibe altri quattro detenuti curdi (Abdülrezzak Şuyur,
Halil Güneş, Ilyas Demir, Vedat Çem Erkmen) sono deceduti carcere.
Arrestato nel 1993, Abdülrezzak Şuyur aveva 56 anni ed èmorto nella prigione di
Sakran (nella provincia di Izmir) dove, nonostante fosse da mesi gravemente
ammalato, sembra non sia stato curato. Due settimane fa aveva potuto incontrare
i figli, ma in seguito di lui non si erano avute notizie. Invano un fratello si
era recato al carcere per poterlo vedere. Così come erano rimaste lettera morta
sia una richiesta di scarcerazione, vista la gravità della sua situazione, sia
la richiesta di potersi curare in un ospedale esterno.
In precedenza Abdülrezzak Şuyur era stato rinchiuso a Siirt e Antep. Halil
Güneş, deceduto il 15 dicembre nella prigione di Diyarbakir, aveva 51 anni.
Condannato all’ergastolo nel 1993, era da tempo gravemente ammalato.
La questione della situazione sanitaria dei detenuti in Turchia
(soprattutto della mancanza di cure adeguate) è da tempo all’ordine del giorno.
In ottobre l’Associazione dei Diritti dell’Uomo in Turchia (IHD) aveva
nuovamente chiesto il rilascio almeno di quelli ammalati più gravemente (in
particolare di Adem Amaç, Atilla Coşkun e Eser Morsümbül).
Richiesta comunque caduta nel vuoto nonostante siano ormai centinaia di
prigionieri politici senza cure adeguate continuano a languire (un supplemento
di pena) nelle carceri turche.
Secondo IHD sarebbero 1.564 i prigionieri ammalati e per 591 di loro le
situazione è estremamente grave. Ovviamente si tratta dei casi accertati, ma
appare scontato che il numero reale sia ben più elevato. E per chi era già
ammalato con la pandemia i rischi sono aumentati.
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