sabato 29 gennaio 2022

Umbria - Nino Savarese

 

 

entrando nelle città dell’Umbria si sente l’urto di una pietra dura ed ostile. I centri abitati, eccetto quelli in piano che non sono molti, sembrano scavati nella roccia o ne sono fasciati, con inusitata dovizia. Dalla campagna, così piena di grazia e soffusa di candore, gli uomini si separano con precauzioni terribili, e quando essa appare, dalle strade scure, dentro le occhiaie profonde degli archi poderosi, o dagli spiragli tra le case scoscese, sembra lontana ed irraggiungibile. 

 

Pietre e tenerezze dell’Umbria 

 

Le pietre dell’Umbria 

Terra verde, ma pietrosa; coperta di alberi dal piano ai monti, ma di alberi bassi, stentati. Agricoltura industriosissima, oggi largamente tecnica, ma fertilità limitata. Gli ulivi, minati dalla carie, hanno il tronco biforcato dalle continue amputazioni e sono poveri di rami: nani, al confronto di quelli di altre regioni; la vite pesantemente aggrappata all’acero, a canestro, ha nodosità nere che sembrano pietrificate. 

Sui monti, il ligustro, l’albero di Giuda, il frassino, l’elce, il ginepro, il caprifoglio, il corbezzolo, tutta, insomma, la flora appenninica è ridotta di sviluppo, ingentilita nelle linee, si direbbe umile.

Terra ricca di acque, ma che non scorrono tutte alla superficie, anzi, per gran parte scompaiono in buche e inghiottitori, creando una complicata idrografia sotterranea. Brevi pianure, e subito fermate da monti, da dolci creste, o da burroni o da acropoli naturali. 

La terra sempre presente, non sfuggente verso l’orizzonte, ma rilevata e ferma come un volto da guardare. Silenzi pieni di stupore, ma senza canto di uccelli, che sono piuttosto rari. Tale è la terra dell’Umbria. 

Ma tutti questi limiti, che sembrano contrastare ad ogni suo aspetto, sono la ragione principale della sua misteriosa bellezza, fatta di misura e di difficoltà. Il suo fascino nasce da questi ostacoli, da questi pentimenti: l’opposto di questo rigore è il cieco ed eccessivo rigoglio della vegetazione e della fauna dei paesi tropicali. 

In certe plaghe, sotto certa luce, ha qualche cosa di innocente e di nuovo, quasi per una infanzia della vegetazione. Pensando che in geologia l’unità di misura è il secolo, si fa l’ipotesi che questa sia una terra agraria recente, che qui la pietra, nel suo disfacimento, provi le sue prime tenerezze materne; che sia alle prime stagioni, al confronto delle zolle esauste dalle millenarie fruttificazioni. Perciò i colori dei prati ed i tenui vapori che li accarezzano avrebbero questa ineffabile freschezza, questa nuova innocenza. 

Qualche cosa di simile si osserva nella gente e nella vita di questa regione, specie in certi punti di essa, e, più precisamente, tra Perugia, Gubbio e Assisi. Gli occhi delle persone, sereni e un po’ trasognati, annunciano qualche novità sociale. Si avverte che certe barriere della convivenza sono cadute: gli incontri sono più semplici, gli sguardi senza sottintesi; le donne parlano poco al senso, e sviano l’attenzione con l’aria lontana e l’aspetto un po’ malato: le parole sono più discrete, i sorrisi più schietti; fiducia e semplicità illuminano i rapporti tra gli uomini. 

Ma entrando nelle città dell’Umbria si sente l’urto di una pietra dura ed ostile. I centri abitati, eccetto quelli in piano che non sono molti, sembrano scavati nella roccia o ne sono fasciati, con inusitata dovizia. Dalla campagna, così piena di grazia e soffusa di candore, gli uomini si separano con precauzioni terribili, e quando essa appare, dalle strade scure, dentro le occhiaie profonde degli archi poderosi, o dagli spiragli tra le case scoscese, sembra lontana ed irraggiungibile. 

Paeselli, che altrove accoglierebbero l’invito di una così bella natura a porte aperte, allungandovi incontro davanzali fioriti, terrazzi e ballatoi, qui vi levano contro aspre muraglie. 

Una simile osservazione, una volta fatta, non abbandona più, visitando l’Umbria, e sempre più chiaramente appare lo strano contrasto tra la pietra e la vegetazione; tra una campagna gentile ed adorna, e una pietra fredda e dura che vi si oppone e quasi la respinge. 

Una pietra sulla quale il tempo ha fatto presa più che altrove. La storia vi sta scritta sopra con cruda evidenza, perché essa non ha ceduto, non cede, e il ricordo perciò non si affievolisce. Certi paesi, Gubbio ad esempio, sembrano ammalati di nostalgia: fermi e fedeli al loro primo amore con la storia: nelle strade deserte, i pochi passanti vanno rasente i muri, per dar luogo alle ombre che ancora vi si aggirano, e il selciato e la pietra delle gradinate sono vivi ed intatti. Il Palazzo dei Consoli è sospeso nel tempo, come è sospeso sui suoi agili archi che sembrano fatti per preservarlo da ogni corruzione: è lontano ed intangibile come le altissime rocce che ha alle spalle sulla via di Scheggia, e dalle quali sembra uscito con una grazia di cosa naturale. I ragazzi non vi giuocano intorno: la vita che è venuta dopo è passata al largo e non lo ha toccato. 

Allorché si fa buio, tutta questa pietra dei castelli, delle mura, delle case dell’Umbria rientra nel fondo del tempo: ritrova una più giusta ambientazione, come se, ogni sera, dai monti bruni che la chiudono, tornasse su questa terra un’aria di altri tempi. 

I monti, tra le macchie verdi, scoprono le ossa delle loro rocce; certuni, ricchi di vegetazione alla base, non riescono a coprirsene le spalle, e pare che ne soffrano; come Monte Acuto, che si allontana freddoloso, tra monte e monte, nel suo mantello sbiadito e rattoppato di pellegrino.

Ma non solo sui monti e nelle alture la pietra è sempre presente; anche sul terreno lavorato, in pianura o in collina, affiora un pietrisco bianchiccio: lo strato coltivabile è in genere pochissimo profondo e, se basta a far prosperare le piante annuali, arresta o mortifica quelle di alto fusto. Tra Spoleto e Norcia questa sensazione di pietrosità prende il suo maggiore sviluppo. 

Sembra che un Dio irato abbia stretto il pugno su questo lembo di terra nell’atto di crearlo e darvi forma. È un cerchio ferreo di monti, alcuni altissimi come la Rotonda, il Bicco, l’Aspro, altri a picchi scoscesi: ora sono monti e colline affiancati, ora cuciti l’uno all’altro, ora accoppiati od ammucchiati con vero capriccio. 

L’unica strada che vi passa, e il Nera che vi scorre, si nascondono nelle pieghe strettissime tra monte e monte. Il treno elettrico che, partendo da Spoleto, percorre tutta la contrada, passato il varco di questo cerchio di rocce sembra non ne possa più uscire.

Arrampicatosi per le cime, resta per qualche poco come sospeso nel vuoto; gradatamente ritorno a poca distanza dalla via fatta, e di nuovo innalza, come per tentare una nuova evasione. e ridiscende, o si rassegna a costeggiare i fianchi di un monte altissimo che gli sta sopra. In certi punti, i regoli sui quali scorre con uno sviluppo di serpentina o di spirale, si vengono a trovare sovrapposti, e un ponte o un passaggio stanno sopra un altro ponte e un altro passaggio come i gradi di una scala aerea e fantastica. 

Aggrappati ai fianchi dei monti più alti, in bilico sul cocuzzolo di quelli più bassi o abbandonati in fondo alle pieghe, tra monte e monte, sono disseminati numerosissimi paesi e villaggi che il treno va a cercare ad uno ad uno, nella sua corsa. S. Anatolia, Scheggino, Ceselli, San Martino sono i primi che vediamo sporgendoci sul vuoto pauroso, e sembrano piccoli mucchi di pietra ruzzolati dall’alto dei tre monti che li sovrastano. 

Ma è raro che questi paeselli sieno in vista tra loro, come quelli nominati, anzi pare che, a posta, si nascondano gli uni agli altri. Sembra impossibile vi sieno tanti uomini nascosti in questa solitudine, eppure i paesi si susseguono con suono subito familiare: Vallo di Nera, Piedipaterno, Triponzo, Tassano, Borgo Cerreto, Sellano, Visso, Grotti, Cascia… Si guarda con la sospesa meraviglia che coglie chi ficca l’occhio nel cavo di un tronco e vi scopre un insospettato popolo di abitatori, o solleva un sasso in primavera e si accorge di aver forzato la porta di una città sotterranea nella quale ferve il traffico consueto di una grossa colonia di insetti. Tuttavia la solitudine di questi centri abitati, in qualche punto, è spaventosa: si pensa che se, in una notte, uno di questi paesi si mettesse a gridare, forse non potrebbe essere inteso da nessuno, e la sua voce si aggirerebbe di balza in balza senza poter uscire dal cerchio dei monti. 

Le rocce ci stanno sempre sul capo; sembra anche a noi di esserci smarriti dentro le pieghe della terra; siamo posseduti, siamo attaccati alle sue mostruose rotondità che ci avvolgono come una cosa carnale ma fredda su cui la peluria delle boscaglie non ha fremiti. 

In certi punti, le rocce nere e rosee, hanno la struttura delle fibre del legno; scendono dall’alto a striature, a strati verticali, come enormi tronchi fossili scortecciati. Pare che anche le piante si sieno mutate in pietra, in un paesaggio irreale. 

Gli uomini hanno scavato pazientemente qualche viottolo su questa terra massiccia e vi si inerpicano fin dove può giungere la forza delle loro gambe: rintracciano i tartufi, raccolgono le ghiande, bruciano la legna per farne carbone; le pecore e i maiali a piccole frotte, ma frequenti, strappano un po’ d’erba ai piedi dei monti giganteschi come se li accarezzassero; ma si comprende che questa è terra di nessuno: la natura, qui, non si lascia possedere, respinge ogni velleità dell’uomo, e non sarà domata che dall’acqua e dall’aria, nei millenni. 

Per ora, resta lungamente estatica nella notte sotto le stelle; beve l’acqua nelle lunghe giornate di pioggia, ed offre le sue cime vergini al giuoco folleggiante dei venti. 

Caratteri 

C’è in tutti, forse favorita dalla solitudine di questa terra, tra i monti, una particolare disposizione a risentire la compagnia delle cose naturali e degli animali. Ciò che una volta si liberò in un canto di amore universale, e un’altra volta riuscì ad ammansire il feroce lupo. 

Ma dovunque è presente questa concordia. Già notammo come, a mano a mano che si penetrava nel cuore dell’Umbria, i bovi ingentilivano le loro linee e presentavano una faccia più quieta e più debole, ora vediamo che c’è diversità anche nel modo di aggiogarli. E il giogo umbro, al confronto di quello laziale, accenna ad un trattamento più riguardoso dell’animale, più attento e sollecito. Ha il legno dolcemente rialzato nella parte centrale della scannellatura, dove il collo dell’animale poggia per il maggiore sforzo, e quella specie di collare che serve a tenerlo fermo, non è di ferro o di corda, ma di corda all’estremità e di legno piatto nel mezzo, di modo che, nella trazione, sono le due tavolette che poggiano sul collo e non l’offendono come farebbero la corda o la catena. 

Per quanto i contadini abbiano dei tratti comuni in tutti i paesi, pure, parlando, ad esempio, della diffidenza del contadino umbro, bisogna subito avvertire che essa è posta a guardia di un’intima coscienza di bonomia e di innocenza, magari a protezione della sua indolenza; ad ogni modo è qualche cosa di molto diverso dalla diffidenza dei meridionali, fatta di realistica conoscenza del cuore umano, e, in fondo, di disistima dell’uomo. 

Andavo a Gubbio. 

Guardavo avidamente la campagna che qui, più che altrove, mi appariva umile ed armoniosa, affettuosa quasi. Sembra che gli animali sieno chiamati a far compagnia all’uomo che vive solitario: non esiste, o non appare, l’allevamento industriale, l’armento, il gregge, il branco numeroso e rumoroso. 

Le pecore, a piccole frotte, in piccolo numero, si trovano quasi in ogni podere; i piccioni volano su ogni casa, i tacchini errano su ogni prato, e di maiali neri, di piccola mole e col pelo lucido e corto, ce ne sono quasi quanti sono i ragazzi che li guardano in ogni tenuta; mentre le mucche, i bovi, i vitelli sporgono le teste dalle stalle dove fanno vita ritirata in compagnia delle donne che custodiscono le case. 

Lungo tutta la via, era un accorrere di bimbi, di ragazzetti, di mocciosetti tenuti in braccio da ragazze più grandicelle: quasi tutti biondi, tutti scalzi. Venivano fuori dalle case di campagna, sbucavano dalle siepi, avanzavano correndo dalle viottole incassate tra le boscaglie; si piantavano in fila sul ciglio della via, appena sentivano il rombo dell’autobus, alzavano le manine nel saluto, poi si curvavano a terra come per raccattare qualche cosa. 

Guardavo, ma non riuscivo a dare un senso a quella stranezza ormai costante da quasi a mezzo il viaggio da Perugia. Ma, fattomi più attento, vidi che il fattorino del servizio, un omaccione sulla sessantina dalla faccia larga e cordiale, tirava fuori da un grosso cartoccio delle caramelle e dallo sportello accanto al guidatore, o dal lato opposto, che egli raggiungeva a fatica, buttava tante caramelle quante, ad una sua rapida inchiesta, gli pareva ne occorressero per il gruppetto dei ragazzi che egli si trovava di fronte. Alle volte, allarmato dall’avidità o dalla maggiore età di qualcuno del gruppo, si sporgeva col capo in fuori e gridava con paterna sollecitudine: «Una per uno! ». E l’autobus filava incontro ad altri bimbi, ad altri saluti, ad altre trepide attese e sorrisi di gratitudine e di contentezza. Ed era strano vedere che l’uomo non appariva né divertito né compiaciuto, anzi era piuttosto serio e grave, e di tanto in tanto si asciugava il sudore dal faccione rosso. 

I viaggiatori, tutte persone del luogo che non erano nuove a quella funzione, vollero presentare a me, che ero l’unico forestiero, il sor Giovanni della posta di Gubbio, e seppi così che egli ogni domenica comprava una cartocciata di caramelle e le distribuiva, al modo che avevo veduto, sulla via tra Perugia e Gubbio, da uomo solo quale era, ed amantissimo dei bambini. 

« Quando morrà » disse uno dei viaggiatori « tutti questi bambini che già gli vogliono bene, si ricorderanno del sor Giovanni della posta di Gubbio ». 

Il piccolo episodio che ho raccontato non è altro che la bizzarria di un brav’uomo, ma una bizzarria che, per il suo carattere, difficilmente riusciremmo a collocare in un’altra regione italiana con uguale naturalezza, con uguale pudore silenzioso, e l’assenza completa di leziosaggine e di scherzo. Allo stesso modo, certe cose viste in questi luoghi, anche le più insignificanti, restano lungamente nella memoria, per una grazia tutta particolare che ricevono dal colore stesso del paese, per l’ambientazione arcaica e ferma che prendono: si tratti di alcuni asinelli visti entrare, una domenica, per una porta di Spello, o di due poveri sposi incontrati in autobus, con un sacchetto bianco sulle ginocchia, seduti accanto, senza parlarsi, senza curiosità degli altri, e gli occhi lontani e buoni e l’aspetto umile; sia che capiti di vedere, come io ho visto a Gubbio, un agnello bianchissimo nella bottega di un fabbro starsene accucciato in un canto della bottega nera e sonante, quasi a far compagnia al lavoro del suo padrone. 

Né questa ambientazione si perde se i nostri ricordi vi collocano arditamente la figura di quel l’uomo che, per queste strade ghiaiose e dure, andò prima a San Damiano, poi verso il Subasio, e un giorno, mezzo nudo, a Gubbio per chiedervi un vestito. 

Anzi, l’atto decisivo del mercante di Assisi, che sulla via tra Santa Maria degli Angeli e Foligno, sceso da cavallo, dette al lebbroso la borsa, fatto non nuovo, ma quel che fu più importante, gli baciò la mano, sembrerebbe, anche oggi, assistito da una diffusa disposizione di questa terra, che è terra veramente amorosa; dolce, cioè, ma energica come dev’essere l’amore che vuol diventar realtà. 

Guardandola da queste alture di Assisi, non so perché, mi tornano alla memoria parole lette tanto tempo fa: « il mondo è un paradiso, ma gli uomini non lo sanno, e non vogliono saperlo ».

Si comprende perché non vogliono saperlo, quando si pensa da che oscuro travaglio nasce la bellezza di questa terra e la soave dolcezza dei suoi santi. 

Né idillica, né sentimentale, ma frutto della rara armonia in cui si fondono quegli aspetti che finora ci sono apparsi opposti e contrastanti tra loro: forza e gentilezza, bontà ed energia. 

Se Perugia fu terribile contro i suoi nemici, San Francesco fu terribile contro se stesso: così, dietro le soavi figure dei santi umbri, mostrano i loro profili arcigni le ombre minacciose degli Oddi, dei Baglioni, degli Ansidei, dei Della Corgna, come tra la levità e gentilezza della vegetazione, umile e nana, la terra umbra mostra la sua pietra dura e ferrigna. 

Sul punto di allontanarci, ci sembra di udire, per la campagna che si fa buia, il saluto che erano soliti ripetere per queste vie i primi seguaci del Santo: « Dio vi dia la pace ». Ma queste parole, così belle ad udirsi nelle prime ombre della sera, non suonano come un vago augurio, bensì come un appello severo, perché quelli che le ripetevano avevano vinto se stessi e tornavano, stanchi ma sereni, dal duro lavoro manuale d’una intera giornata.

 

Le fatiche del Nera 

Il Nera, che di tanto in tanto si nasconde, ma che subito ritroviamo, ci assicura che non ci smarriremo: egli, che sa la via, ci chiama col suo intimo e contento borbottio. Per lunghi tratti si va proprio insieme e come in compagnia, e non ci stanchiamo di fissare il suo occhio nero e limpido di montanaro. Di tanto in tanto si allontana e ci lascia, come il vero padrone di questi luoghi che ha le sue cose da fare; poi si affretta, saltellando, e lo ritroviamo fresco e rinfrancato dai lunghi e sereni riposi delle marcite di Norcia. La quale appare, dopo Serravalle, dove la terra si allarga e distende in un illusorio respiro, libera dai monti, che però alle sue spalle sono sempre in agguato. 

Intanto essa si gode l’altipiano che è amenissimo. Le mura che la recingono non hanno l’aspetto  arcigno che abbiamo ritrovato altrove, ma piuttosto campestre e familiare: le sue porte si aprono subito sui campi ben coltivati; le sue strade sono liete ed agevoli. 

Tutti sanno che le marcite sono prati perenni di graminacee spontanee, ma non tutti sapranno che queste di Norcia sono le marcite classiche. Qui, per opera di San Benedetto, se ne fece la scoperta, applicando il principio che le acque di certi fiumi hanno temperatura costante, di modo che le erbe che ne sono sommerse trovano un mezzo più adatto dell’ambiente esterno, e possono continuare a vegetare ed a crescere anche durante l’inverno. Qui non presentano quella rete di canali simmetrici che si vede altrove: bastano dei solchi scavati con l’aratro e rifiniti con la vanga. come invito al limpido Nera di entrare; bastano dei rozzi sportelli di tavole inchiavardate, perché esso sia persuaso a sostare. E il Nera entra confidenzialmente nei campi, sparge con imparziale generosità le sue acque; si distende su tutta la conca tra Serravalle e Norcia, e dà volentieri una mano al contadino per provvederlo di foraggio per tutto l’anno. I prati, perennemente di un verde vivo, sembrano intrisi di tenerezza in questo punto del territorio, e staccano su tutto il resto, per la loro luce. 

Questa si può dire la prima fatica del Nera, che è tutta dedicata ai poveri contadini che hanno nelle stalle tanti bovini da mantenere ed ingrassare. E par, quasi, di leggere nei volti la gratitudine, vedendoli tornare dalle marcite con quelle loro grandi corbe di giunchi, a mezzo tondo, colme di bella erba tenera, ancora gocciolante. 

Più avanti il nostro fiume è fermato da altri postulanti, ma la richiesta di aiuto non è così franca e cordiale: accenna già ad un tranello, ad un’insidia. Gli uomini gli sbarrano il passo con le pietre di un mulino. 

Ma il Nera, paziente, dà una mano anche qui, anzi, alle volte, dà tutte e due le spalle, ché le macine sono assai pesanti da trascinare e il lavoro della molitura assai faticoso. Poi riprende il suo cammino, e riguadagnato il suo alveo muschioso, sembra tutto dimenticare, anzi pare che più spedito e veloce voglia correre per allontanarsi dall’ostacolo che lo intralciò, e in questa corsa sembra anche più allegro. 

Le sue acque tornano serene e limpide. In certi punti, filari di esili pioppi chiudono, da una sponda e dall’altra, la sua limpidità. come le lunghe ciglia che circondano i dolci occhi delle ragazze di Perugia. 

Questa è ancora la giovinezza del Nera: è ancora fresco il ricordo delle cose fatte ed è vicina in promessa delle più liete avventure del suo viaggio: l’incontro col salubre e freschissimo Campiano, a Ponte di Chiussita, che ha la trafugata dolcezza di un rapimento amoroso, e il chiassoso ed allegro abbraccio col Velino che gli salta addosso, balzando di roccia in roccia, tra le rupi di Papigno. 

Poi un triste presagio offusca le sue acque di smeraldo, qualche cosa come è per noi (giacché le nostre sorti si somigliano) la fine della buona salute e della spensieratezza, la soggezione all’età, la mortificazione nell’ingranaggio sociale. Lo vediamo ancora libero ed agile folleggiare con le piante delle sue sponde, alle volte piegando le più audaci con carezze rudemente cordiali, ma non passa molto che il triste presagio si avvera. È verso Triponzo, che leggiamo la notizia della cattura del Nera! La lapide di pietra chiara, recente, murata su quella più scura della roccia del monte, ha la perentoria ed improvvisa eloquenza di un bollettino guerresco: 

Tre fiumi 

La virtù italica costringeva… 

Tra questi è il Nera. Qui, in queste gole profonde, egli cade nell’agguato dell’ingegneria moderna, che lo ha strappato al suo letto naturale e buttato nel buio carcere di una galleria di quarantadue chilometri. Ne esce, straniato, in una illusoria libertà, nel lago di Piediluco, ma subito è mescolato alle acque del Velino, poco prima, suo confluente. Si vedono ancora le lacerature dei monti, gli squarci orribili del suolo, i detriti e le macchie dell’immane lavoro. E queste impronte, lasciate dagli uomini che ora si sono allontanati, pesano sinistramente sulla vergine e linda natura che sembra rimasta silenziosamente offesa. 

E questo punto segnala la fine del fiume Nera. 

Le sue acque continueranno ad essere, ma il suo volto ed il suo nome non saranno più: sono spariti per sempre. Da questo punto in poi, nessuno potrà chiamarlo il « Nera »; i contadini umbri non insegneranno il suo nome ai loro figli, né lo presenteranno al viandante di altre contrade con quell’aria tutta intima e di parentela, quale si era formata nei secoli. 

Si rivede il nome del Nera a grandi caratteri l’intonaco bianco delle pareti della stazione di Montoro, ma già sembra un’iscrizione mortuaria. Ha una vistosità quasi impudica; non è più un suono vivo, come quando lo coglievamo sulle bocche dei montanari scendendo dal passo di Valloprare o sulla via di Norcia; non richiama più il verde smeraldo di un’acqua che aveva quasi un volto. 

Ora una specie di vita di al di là comincia per il fiume morto. La sua culla appare ormai lontanissima, quasi sfugge nel ricordo. Quei due fori a forma di narici ciclopiche, per i quali il grembo della terra lo mette alla luce, hanno preso nel nostro ricordo la velatura irreale delle cose ed aspetti dell’infanzia, che esistono nella memoria ma senza corpo, senza materia, ed in una dolorosa incertezza ed estraneità. 

Ora i frutti della fatica del Nera, che continua anonima ed annegata nel flusso di questa sua seconda vita, sono invisibili e problematici: maturano occultamente negli stanzoni di una fabbrica industriale, tra il fumo delle ciminiere e l’urlo delle macchine: si chiamano acciaio, ammoniaca, prodotti azotati ed anche luce elettrica. Forse altrove, in un’altra contrada che non fosse l’Umbria, non ci sarebbe capitato di compiangere un fiume? 

È certo che, dopo averlo seguito per quasi tutto il suo corso, a Terni, provammo una grande pietà per il Nera, come fosse stato una creatura viva.

 

Tratto da:

Nino Savarese, Cose d’Italia : con l’Aggiunta di alcune cose di Francia ; Roma : Tumminelli, 1943

 

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