entrando
nelle città dell’Umbria si sente l’urto di una pietra dura ed ostile. I centri
abitati, eccetto quelli in piano che non sono molti, sembrano scavati nella
roccia o ne sono fasciati, con inusitata dovizia. Dalla campagna, così piena di
grazia e soffusa di candore, gli uomini si separano con precauzioni terribili,
e quando essa appare, dalle strade scure, dentro le occhiaie profonde degli
archi poderosi, o dagli spiragli tra le case scoscese, sembra lontana ed
irraggiungibile.
Pietre e
tenerezze dell’Umbria
Le pietre
dell’Umbria
Terra verde,
ma pietrosa; coperta di alberi dal piano ai monti, ma di alberi bassi, stentati.
Agricoltura industriosissima, oggi largamente tecnica, ma fertilità limitata.
Gli ulivi, minati dalla carie, hanno il tronco biforcato dalle continue
amputazioni e sono poveri di rami: nani, al confronto di quelli di altre
regioni; la vite pesantemente aggrappata all’acero, a canestro, ha nodosità
nere che sembrano pietrificate.
Sui monti,
il ligustro, l’albero di Giuda, il frassino, l’elce, il ginepro, il
caprifoglio, il corbezzolo, tutta, insomma, la flora appenninica è ridotta di
sviluppo, ingentilita nelle linee, si direbbe umile.
Terra ricca
di acque, ma che non scorrono tutte alla superficie, anzi, per gran parte
scompaiono in buche e inghiottitori, creando una complicata
idrografia sotterranea. Brevi pianure, e subito fermate da monti, da dolci
creste, o da burroni o da acropoli naturali.
La terra
sempre presente, non sfuggente verso l’orizzonte, ma rilevata e ferma come un
volto da guardare. Silenzi pieni di stupore, ma senza canto di uccelli, che
sono piuttosto rari. Tale è la terra dell’Umbria.
Ma tutti
questi limiti, che sembrano contrastare ad ogni suo aspetto, sono la ragione
principale della sua misteriosa bellezza, fatta di misura e di difficoltà. Il
suo fascino nasce da questi ostacoli, da questi pentimenti: l’opposto di questo
rigore è il cieco ed eccessivo rigoglio della vegetazione e della fauna dei
paesi tropicali.
In certe
plaghe, sotto certa luce, ha qualche cosa di innocente e di nuovo, quasi per
una infanzia della vegetazione. Pensando che in geologia l’unità di misura è il
secolo, si fa l’ipotesi che questa sia una terra agraria recente, che qui la
pietra, nel suo disfacimento, provi le sue prime tenerezze materne; che sia
alle prime stagioni, al confronto delle zolle esauste dalle millenarie
fruttificazioni. Perciò i colori dei prati ed i tenui vapori che li accarezzano
avrebbero questa ineffabile freschezza, questa nuova innocenza.
Qualche cosa
di simile si osserva nella gente e nella vita di questa regione, specie in
certi punti di essa, e, più precisamente, tra Perugia, Gubbio e Assisi. Gli
occhi delle persone, sereni e un po’ trasognati, annunciano qualche novità
sociale. Si avverte che certe barriere della convivenza sono cadute: gli
incontri sono più semplici, gli sguardi senza sottintesi; le donne parlano poco
al senso, e sviano l’attenzione con l’aria lontana e l’aspetto un po’ malato:
le parole sono più discrete, i sorrisi più schietti; fiducia e semplicità
illuminano i rapporti tra gli uomini.
Ma entrando
nelle città dell’Umbria si sente l’urto di una pietra dura ed ostile. I centri
abitati, eccetto quelli in piano che non sono molti, sembrano scavati nella
roccia o ne sono fasciati, con inusitata dovizia. Dalla campagna, così piena di
grazia e soffusa di candore, gli uomini si separano con precauzioni terribili, e
quando essa appare, dalle strade scure, dentro le occhiaie profonde degli archi
poderosi, o dagli spiragli tra le case scoscese, sembra lontana ed
irraggiungibile.
Paeselli,
che altrove accoglierebbero l’invito di una così bella natura a porte aperte, allungandovi
incontro davanzali fioriti, terrazzi e ballatoi, qui vi levano contro aspre
muraglie.
Una simile
osservazione, una volta fatta, non abbandona più, visitando l’Umbria, e sempre
più chiaramente appare lo strano contrasto tra la pietra e la vegetazione; tra
una campagna gentile ed adorna, e una pietra fredda e dura che vi si oppone e
quasi la respinge.
Una pietra
sulla quale il tempo ha fatto presa più che altrove. La storia vi sta scritta
sopra con cruda evidenza, perché essa non ha ceduto, non cede, e il ricordo
perciò non si affievolisce. Certi paesi, Gubbio ad esempio, sembrano ammalati
di nostalgia: fermi e fedeli al loro primo amore con la storia: nelle strade
deserte, i pochi passanti vanno rasente i muri, per dar luogo alle ombre che ancora
vi si aggirano, e il selciato e la pietra delle gradinate sono vivi ed intatti.
Il Palazzo dei Consoli è sospeso nel tempo, come è sospeso sui suoi agili archi
che sembrano fatti per preservarlo da ogni corruzione: è lontano ed intangibile
come le altissime rocce che ha alle spalle sulla via di Scheggia, e dalle quali
sembra uscito con una grazia di cosa naturale. I ragazzi non vi giuocano
intorno: la vita che è venuta dopo è passata al largo e non lo ha
toccato.
Allorché si
fa buio, tutta questa pietra dei castelli, delle mura, delle case dell’Umbria
rientra nel fondo del tempo: ritrova una più giusta ambientazione, come se,
ogni sera, dai monti bruni che la chiudono, tornasse su questa terra un’aria di
altri tempi.
I monti, tra
le macchie verdi, scoprono le ossa delle loro rocce; certuni, ricchi di
vegetazione alla base, non riescono a coprirsene le spalle, e pare che ne
soffrano; come Monte Acuto, che si allontana freddoloso, tra monte e monte, nel
suo mantello sbiadito e rattoppato di pellegrino.
Ma non solo
sui monti e nelle alture la pietra è sempre presente; anche sul terreno
lavorato, in pianura o in collina, affiora un pietrisco bianchiccio: lo strato
coltivabile è in genere pochissimo profondo e, se basta a far prosperare le
piante annuali, arresta o mortifica quelle di alto fusto. Tra Spoleto e Norcia
questa sensazione di pietrosità prende il suo maggiore
sviluppo.
Sembra che
un Dio irato abbia stretto il pugno su questo lembo di terra nell’atto di
crearlo e darvi forma. È un cerchio ferreo di monti, alcuni altissimi come la
Rotonda, il Bicco, l’Aspro, altri a picchi scoscesi: ora sono monti e colline
affiancati, ora cuciti l’uno all’altro, ora accoppiati od ammucchiati con vero
capriccio.
L’unica
strada che vi passa, e il Nera che vi scorre, si nascondono nelle pieghe
strettissime tra monte e monte. Il treno elettrico che, partendo da Spoleto,
percorre tutta la contrada, passato il varco di questo cerchio di rocce sembra
non ne possa più uscire.
Arrampicatosi
per le cime, resta per qualche poco come sospeso nel vuoto; gradatamente
ritorno a poca distanza dalla via fatta, e di nuovo innalza, come per tentare
una nuova evasione. e ridiscende, o si rassegna a costeggiare i fianchi di un
monte altissimo che gli sta sopra. In certi punti, i regoli sui quali scorre
con uno sviluppo di serpentina o di spirale, si vengono a trovare sovrapposti,
e un ponte o un passaggio stanno sopra un altro ponte e un altro passaggio come
i gradi di una scala aerea e fantastica.
Aggrappati
ai fianchi dei monti più alti, in bilico sul cocuzzolo di quelli più bassi o
abbandonati in fondo alle pieghe, tra monte e monte, sono disseminati
numerosissimi paesi e villaggi che il treno va a cercare ad uno ad uno, nella
sua corsa. S. Anatolia, Scheggino, Ceselli, San Martino sono i primi che
vediamo sporgendoci sul vuoto pauroso, e sembrano piccoli mucchi di pietra
ruzzolati dall’alto dei tre monti che li sovrastano.
Ma è raro
che questi paeselli sieno in vista tra loro, come quelli nominati, anzi pare
che, a posta, si nascondano gli uni agli altri. Sembra impossibile vi sieno
tanti uomini nascosti in questa solitudine, eppure i paesi si susseguono con
suono subito familiare: Vallo di Nera, Piedipaterno, Triponzo, Tassano, Borgo
Cerreto, Sellano, Visso, Grotti, Cascia… Si guarda con la sospesa meraviglia
che coglie chi ficca l’occhio nel cavo di un tronco e vi scopre un insospettato
popolo di abitatori, o solleva un sasso in primavera e si accorge di aver
forzato la porta di una città sotterranea nella quale ferve il traffico consueto
di una grossa colonia di insetti. Tuttavia la solitudine di questi centri
abitati, in qualche punto, è spaventosa: si pensa che se, in una notte, uno di
questi paesi si mettesse a gridare, forse non potrebbe essere inteso da
nessuno, e la sua voce si aggirerebbe di balza in balza senza poter uscire dal
cerchio dei monti.
Le rocce ci
stanno sempre sul capo; sembra anche a noi di esserci smarriti dentro le pieghe
della terra; siamo posseduti, siamo attaccati alle sue mostruose rotondità che
ci avvolgono come una cosa carnale ma fredda su cui la peluria delle boscaglie
non ha fremiti.
In certi
punti, le rocce nere e rosee, hanno la struttura delle fibre del legno;
scendono dall’alto a striature, a strati verticali, come enormi tronchi fossili
scortecciati. Pare che anche le piante si sieno mutate in pietra, in un
paesaggio irreale.
Gli uomini
hanno scavato pazientemente qualche viottolo su questa terra massiccia e vi si
inerpicano fin dove può giungere la forza delle loro gambe: rintracciano i
tartufi, raccolgono le ghiande, bruciano la legna per farne carbone; le pecore
e i maiali a piccole frotte, ma frequenti, strappano un po’ d’erba ai piedi dei
monti giganteschi come se li accarezzassero; ma si comprende che questa è terra
di nessuno: la natura, qui, non si lascia possedere, respinge ogni velleità
dell’uomo, e non sarà domata che dall’acqua e dall’aria, nei millenni.
Per ora,
resta lungamente estatica nella notte sotto le stelle; beve l’acqua nelle
lunghe giornate di pioggia, ed offre le sue cime vergini al giuoco folleggiante
dei venti.
Caratteri
C’è in
tutti, forse favorita dalla solitudine di questa terra, tra i monti, una
particolare disposizione a risentire la compagnia delle cose naturali e degli
animali. Ciò che una volta si liberò in un canto di amore universale, e
un’altra volta riuscì ad ammansire il feroce lupo.
Ma dovunque
è presente questa concordia. Già notammo come, a mano a mano che si penetrava
nel cuore dell’Umbria, i bovi ingentilivano le loro linee e presentavano una
faccia più quieta e più debole, ora vediamo che c’è diversità anche nel modo di
aggiogarli. E il giogo umbro, al confronto di quello laziale, accenna ad un
trattamento più riguardoso dell’animale, più attento e sollecito. Ha il legno
dolcemente rialzato nella parte centrale della scannellatura, dove il collo
dell’animale poggia per il maggiore sforzo, e quella specie di collare che
serve a tenerlo fermo, non è di ferro o di corda, ma di corda all’estremità e
di legno piatto nel mezzo, di modo che, nella trazione, sono le due tavolette
che poggiano sul collo e non l’offendono come farebbero la corda o la
catena.
Per quanto i
contadini abbiano dei tratti comuni in tutti i paesi, pure, parlando, ad
esempio, della diffidenza del contadino umbro, bisogna subito avvertire che
essa è posta a guardia di un’intima coscienza di bonomia e di innocenza, magari
a protezione della sua indolenza; ad ogni modo è qualche cosa di molto diverso
dalla diffidenza dei meridionali, fatta di realistica conoscenza del cuore
umano, e, in fondo, di disistima dell’uomo.
Andavo a
Gubbio.
Guardavo
avidamente la campagna che qui, più che altrove, mi appariva umile ed
armoniosa, affettuosa quasi. Sembra che gli animali sieno chiamati a far
compagnia all’uomo che vive solitario: non esiste, o non appare, l’allevamento
industriale, l’armento, il gregge, il branco numeroso e rumoroso.
Le pecore, a
piccole frotte, in piccolo numero, si trovano quasi in ogni podere; i piccioni
volano su ogni casa, i tacchini errano su ogni prato, e di maiali neri, di
piccola mole e col pelo lucido e corto, ce ne sono quasi quanti sono i ragazzi
che li guardano in ogni tenuta; mentre le mucche, i bovi, i vitelli sporgono le
teste dalle stalle dove fanno vita ritirata in compagnia delle donne che
custodiscono le case.
Lungo tutta
la via, era un accorrere di bimbi, di ragazzetti, di mocciosetti tenuti in
braccio da ragazze più grandicelle: quasi tutti biondi, tutti scalzi. Venivano
fuori dalle case di campagna, sbucavano dalle siepi, avanzavano correndo dalle
viottole incassate tra le boscaglie; si piantavano in fila sul ciglio della
via, appena sentivano il rombo dell’autobus, alzavano le manine nel saluto, poi
si curvavano a terra come per raccattare qualche cosa.
Guardavo, ma
non riuscivo a dare un senso a quella stranezza ormai costante da quasi a mezzo
il viaggio da Perugia. Ma, fattomi più attento, vidi che il fattorino del servizio,
un omaccione sulla sessantina dalla faccia larga e cordiale, tirava fuori da un
grosso cartoccio delle caramelle e dallo sportello accanto al guidatore, o dal
lato opposto, che egli raggiungeva a fatica, buttava tante caramelle quante, ad
una sua rapida inchiesta, gli pareva ne occorressero per il gruppetto dei
ragazzi che egli si trovava di fronte. Alle volte, allarmato dall’avidità o
dalla maggiore età di qualcuno del gruppo, si sporgeva col capo in fuori e
gridava con paterna sollecitudine: «Una per uno! ». E l’autobus filava incontro
ad altri bimbi, ad altri saluti, ad altre trepide attese e sorrisi di
gratitudine e di contentezza. Ed era strano vedere che l’uomo non appariva né
divertito né compiaciuto, anzi era piuttosto serio e grave, e di tanto in tanto
si asciugava il sudore dal faccione rosso.
I
viaggiatori, tutte persone del luogo che non erano nuove a quella funzione,
vollero presentare a me, che ero l’unico forestiero, il sor Giovanni della
posta di Gubbio, e seppi così che egli ogni domenica comprava una cartocciata
di caramelle e le distribuiva, al modo che avevo veduto, sulla via tra Perugia
e Gubbio, da uomo solo quale era, ed amantissimo dei bambini.
« Quando
morrà » disse uno dei viaggiatori « tutti questi bambini che già gli vogliono
bene, si ricorderanno del sor Giovanni della posta di Gubbio ».
Il piccolo
episodio che ho raccontato non è altro che la bizzarria di un brav’uomo, ma una
bizzarria che, per il suo carattere, difficilmente riusciremmo a collocare in
un’altra regione italiana con uguale naturalezza, con uguale pudore silenzioso,
e l’assenza completa di leziosaggine e di scherzo. Allo stesso modo, certe cose
viste in questi luoghi, anche le più insignificanti, restano lungamente nella
memoria, per una grazia tutta particolare che ricevono dal colore stesso del
paese, per l’ambientazione arcaica e ferma che prendono: si tratti di alcuni
asinelli visti entrare, una domenica, per una porta di Spello, o di due poveri
sposi incontrati in autobus, con un sacchetto bianco sulle ginocchia, seduti
accanto, senza parlarsi, senza curiosità degli altri, e gli occhi lontani e
buoni e l’aspetto umile; sia che capiti di vedere, come io ho visto a Gubbio,
un agnello bianchissimo nella bottega di un fabbro starsene accucciato in un canto
della bottega nera e sonante, quasi a far compagnia al lavoro del suo
padrone.
Né questa
ambientazione si perde se i nostri ricordi vi collocano arditamente la figura
di quel l’uomo che, per queste strade ghiaiose e dure, andò prima a San
Damiano, poi verso il Subasio, e un giorno, mezzo nudo, a Gubbio per chiedervi
un vestito.
Anzi, l’atto
decisivo del mercante di Assisi, che sulla via tra Santa Maria degli Angeli e
Foligno, sceso da cavallo, dette al lebbroso la borsa, fatto non nuovo, ma quel
che fu più importante, gli baciò la mano, sembrerebbe, anche oggi, assistito da
una diffusa disposizione di questa terra, che è terra veramente amorosa; dolce,
cioè, ma energica come dev’essere l’amore che vuol diventar realtà.
Guardandola
da queste alture di Assisi, non so perché, mi tornano alla memoria parole lette
tanto tempo fa: « il mondo è un paradiso, ma gli uomini non lo sanno, e non
vogliono saperlo ».
Si comprende
perché non vogliono saperlo, quando si pensa da che oscuro travaglio nasce la
bellezza di questa terra e la soave dolcezza dei suoi santi.
Né idillica,
né sentimentale, ma frutto della rara armonia in cui si fondono quegli aspetti
che finora ci sono apparsi opposti e contrastanti tra loro: forza e gentilezza,
bontà ed energia.
Se Perugia fu
terribile contro i suoi nemici, San Francesco fu terribile contro se stesso:
così, dietro le soavi figure dei santi umbri, mostrano i loro profili arcigni
le ombre minacciose degli Oddi, dei Baglioni, degli Ansidei, dei Della Corgna,
come tra la levità e gentilezza della vegetazione, umile e nana, la terra umbra
mostra la sua pietra dura e ferrigna.
Sul punto di
allontanarci, ci sembra di udire, per la campagna che si fa buia, il saluto che
erano soliti ripetere per queste vie i primi seguaci del Santo: « Dio vi dia la
pace ». Ma queste parole, così belle ad udirsi nelle prime ombre della sera,
non suonano come un vago augurio, bensì come un appello severo, perché quelli
che le ripetevano avevano vinto se stessi e tornavano, stanchi ma sereni, dal
duro lavoro manuale d’una intera giornata.
Le fatiche
del Nera
Il Nera, che
di tanto in tanto si nasconde, ma che subito ritroviamo, ci assicura che non ci
smarriremo: egli, che sa la via, ci chiama col suo intimo e contento borbottio.
Per lunghi tratti si va proprio insieme e come in compagnia, e non ci
stanchiamo di fissare il suo occhio nero e limpido di montanaro. Di tanto in
tanto si allontana e ci lascia, come il vero padrone di questi luoghi che ha le
sue cose da fare; poi si affretta, saltellando, e lo ritroviamo fresco e
rinfrancato dai lunghi e sereni riposi delle marcite di Norcia. La quale
appare, dopo Serravalle, dove la terra si allarga e distende in un illusorio
respiro, libera dai monti, che però alle sue spalle sono sempre in
agguato.
Intanto essa
si gode l’altipiano che è amenissimo. Le mura che la recingono non hanno
l’aspetto arcigno che abbiamo ritrovato altrove, ma piuttosto campestre e
familiare: le sue porte si aprono subito sui campi ben coltivati; le sue strade
sono liete ed agevoli.
Tutti sanno
che le marcite sono prati perenni di graminacee spontanee, ma
non tutti sapranno che queste di Norcia sono le marcite classiche. Qui, per
opera di San Benedetto, se ne fece la scoperta, applicando il principio che le
acque di certi fiumi hanno temperatura costante, di modo che le erbe che ne
sono sommerse trovano un mezzo più adatto dell’ambiente esterno, e possono
continuare a vegetare ed a crescere anche durante l’inverno. Qui non presentano
quella rete di canali simmetrici che si vede altrove: bastano dei solchi
scavati con l’aratro e rifiniti con la vanga. come invito al limpido Nera di
entrare; bastano dei rozzi sportelli di tavole inchiavardate, perché esso sia
persuaso a sostare. E il Nera entra confidenzialmente nei campi, sparge con
imparziale generosità le sue acque; si distende su tutta la conca tra
Serravalle e Norcia, e dà volentieri una mano al contadino per provvederlo di
foraggio per tutto l’anno. I prati, perennemente di un verde vivo, sembrano
intrisi di tenerezza in questo punto del territorio, e staccano su tutto il
resto, per la loro luce.
Questa si
può dire la prima fatica del Nera, che è tutta dedicata ai poveri contadini che
hanno nelle stalle tanti bovini da mantenere ed ingrassare. E par, quasi, di
leggere nei volti la gratitudine, vedendoli tornare dalle marcite con quelle
loro grandi corbe di giunchi, a mezzo tondo, colme di bella erba tenera, ancora
gocciolante.
Più avanti
il nostro fiume è fermato da altri postulanti, ma la richiesta di aiuto non è
così franca e cordiale: accenna già ad un tranello, ad un’insidia. Gli uomini
gli sbarrano il passo con le pietre di un mulino.
Ma il Nera,
paziente, dà una mano anche qui, anzi, alle volte, dà tutte e due le spalle,
ché le macine sono assai pesanti da trascinare e il lavoro della molitura assai
faticoso. Poi riprende il suo cammino, e riguadagnato il suo alveo muschioso,
sembra tutto dimenticare, anzi pare che più spedito e veloce voglia correre per
allontanarsi dall’ostacolo che lo intralciò, e in questa corsa sembra anche più
allegro.
Le sue acque
tornano serene e limpide. In certi punti, filari di esili pioppi chiudono, da
una sponda e dall’altra, la sua limpidità. come le lunghe ciglia che circondano
i dolci occhi delle ragazze di Perugia.
Questa è
ancora la giovinezza del Nera: è ancora fresco il ricordo delle cose fatte ed è
vicina in promessa delle più liete avventure del suo viaggio: l’incontro col
salubre e freschissimo Campiano, a Ponte di Chiussita, che ha la trafugata
dolcezza di un rapimento amoroso, e il chiassoso ed allegro abbraccio col
Velino che gli salta addosso, balzando di roccia in roccia, tra le rupi di
Papigno.
Poi un
triste presagio offusca le sue acque di smeraldo, qualche cosa come è per noi
(giacché le nostre sorti si somigliano) la fine della buona salute e della
spensieratezza, la soggezione all’età, la mortificazione nell’ingranaggio
sociale. Lo vediamo ancora libero ed agile folleggiare con le piante delle sue
sponde, alle volte piegando le più audaci con carezze rudemente cordiali, ma
non passa molto che il triste presagio si avvera. È verso Triponzo, che
leggiamo la notizia della cattura del Nera! La lapide di pietra chiara,
recente, murata su quella più scura della roccia del monte, ha la perentoria ed
improvvisa eloquenza di un bollettino guerresco:
Tre
fiumi
La virtù
italica costringeva…
Tra questi è
il Nera. Qui, in queste gole profonde, egli cade nell’agguato dell’ingegneria
moderna, che lo ha strappato al suo letto naturale e buttato nel buio carcere
di una galleria di quarantadue chilometri. Ne esce, straniato, in una illusoria
libertà, nel lago di Piediluco, ma subito è mescolato alle acque del Velino,
poco prima, suo confluente. Si vedono ancora le lacerature dei monti, gli
squarci orribili del suolo, i detriti e le macchie dell’immane lavoro. E queste
impronte, lasciate dagli uomini che ora si sono allontanati, pesano sinistramente
sulla vergine e linda natura che sembra rimasta silenziosamente offesa.
E questo
punto segnala la fine del fiume Nera.
Le sue acque
continueranno ad essere, ma il suo volto ed il suo nome non saranno più: sono
spariti per sempre. Da questo punto in poi, nessuno potrà chiamarlo il « Nera
»; i contadini umbri non insegneranno il suo nome ai loro figli, né lo
presenteranno al viandante di altre contrade con quell’aria tutta intima e di
parentela, quale si era formata nei secoli.
Si rivede il
nome del Nera a grandi caratteri l’intonaco bianco delle pareti della stazione
di Montoro, ma già sembra un’iscrizione mortuaria. Ha una vistosità quasi
impudica; non è più un suono vivo, come quando lo coglievamo sulle bocche dei
montanari scendendo dal passo di Valloprare o sulla via di Norcia; non richiama
più il verde smeraldo di un’acqua che aveva quasi un volto.
Ora una
specie di vita di al di là comincia per il fiume morto. La sua culla appare
ormai lontanissima, quasi sfugge nel ricordo. Quei due fori a forma di narici
ciclopiche, per i quali il grembo della terra lo mette alla luce, hanno preso
nel nostro ricordo la velatura irreale delle cose ed aspetti dell’infanzia, che
esistono nella memoria ma senza corpo, senza materia, ed in una dolorosa incertezza
ed estraneità.
Ora i frutti
della fatica del Nera, che continua anonima ed annegata nel flusso di questa
sua seconda vita, sono invisibili e problematici: maturano occultamente negli
stanzoni di una fabbrica industriale, tra il fumo delle ciminiere e l’urlo
delle macchine: si chiamano acciaio, ammoniaca, prodotti azotati ed anche luce
elettrica. Forse altrove, in un’altra contrada che non fosse l’Umbria, non ci
sarebbe capitato di compiangere un fiume?
È certo che,
dopo averlo seguito per quasi tutto il suo corso, a Terni, provammo una grande
pietà per il Nera, come fosse stato una creatura viva.
Tratto da:
Nino
Savarese, Cose d’Italia : con l’Aggiunta di alcune cose di
Francia ; Roma : Tumminelli, 1943
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