La discussione sulle soggettività della sinistra è ormai segnata dal correre inesorabile del tempo. Pur sorrette da argomenti seri e passioni mai dome, le riflessioni pubbliche sulla vexata quaestio sono diventate retoriche ripetitive, utili soprattutto per chi si cimenta sull’argomento e per i suoi dubbi interiori. Certamente, trattare il tema della crisi e delle difficoltà di ciò che si muove – per semplificare – sul lato mancino del Partito democratico rischia ogni volta di subire l’attrazione fatale del tatticismo, se non del desiderio – magari mascherato – di trovare una ennesima sigla elettorale.
Tuttavia, è forse utile interrogarci sul
perché la discussione sia tanto stantia e la base di partenza reale così
misera. Verosimilmente, va capovolto l’ordine degli addendi. Prima del
soggetto, andrebbero indagati l’oggetto e il suo contesto di riferimento.
Si tratta, se questo è giusto, di rifare
l’analisi della società, della situazione di classe, per utilizzare un
linguaggio antico e pur sempre attualissimo. Già, in quale età del Capitale
siamo? L’universo delle piattaforme guidato dagli algoritmi e dall’intelligenza
artificiale non è esattamente la prosecuzione con altri mezzi delle ere
precedenti del dominio. La potenza intellettuale della produzione (si rilegga
il famoso frammento sulle macchine dei Grundrisse) ha nettamente
superato la fase dell’espansione quantitativa, per determinare uno
sconfinamento verso una stagione che potremmo definire post-umana. Si tratta di
un corpo a corpo tra esseri viventi ed esseri che copiano e rideterminano le
stesse modalità della vita. In precedenza fu il nostro immaginario ad essere
occupato attraverso ideologie e diffusione mediatica. Ora è l’intero corpo a
venire sussunto e condizionato da migliaia di sensori e di rilevamenti del
nostro essere.
Ciò significa che non esistono più le
persone fisiche con le loro pulsioni e la loro coscienza? No. Significa, però,
che convive con noi il nostro gemello digitale. Non è una novità, si potrebbe
osservare. Già Norbert Wiener, uno dei padri fondatori della cibernetica, mise
in guardia sui pericoli insiti nello sfruttamento massivo delle macchine, per
rendere più efficiente «l’uso umano degli esseri umani». Lo sottolineano
Luciano Floridi, Federico Cabitza (2021). E l’acume di Alan Turing sottolineò
che la macchina si può comportare assomigliando ad un essere umano. Insomma, il
tema esiste ed è enorme. Intendiamo rimuoverlo, come se non condizionasse ogni
narrazione?
Ora siamo, probabilmente, al punto di
catastrofe, né transitorio né eludibile. Ovviamente, un approfondimento di
maggiore organicità si renderebbe necessario, per evitare suggestioni improprie
o approssimative. Ma l’evocazione del problema è indispensabile, per lanciare
un allarme sulla vecchiezza dei riferimenti cui generalmente ricorriamo. Anzi.
Sarebbe doveroso ripartire dall’analisi puntuale delle parole chiave che utilizziamo:
libertà, democrazia, mercato, solidarietà, uguaglianza, stato, pubblico,
privato. Intendiamoci, non si deve riscrivere il vocabolario. Il significato
manifesto dei termini non è in questione. Il punto, invece, è che spesso ci si
trova di fronte a significanti vuoti. Riempire i vuoti è il primo compito di
una ri-costruzione della sinistra. Insomma, è necessario mettere in causa le
fondamenta del discorso consueto, troppo legato a una mera vulgata marxiana.
Marx, in verità, è un autore versatile e non uniforme, assai diverso nella sua
complessità dal racconto banalizzato che è scaturito dai versetti della Terza
internazionale che fu.
Per essere legittimati ad urlare
“sinistra”, dunque, è bene chiarire di cosa stiamo parlando. Sinistra non è un
contenitore, come con stucchevole reiterazione si tende a sostenere. Sinistra è
una cultura, una forma identitaria, un’etica, una passione civile. Se non ci
chiariamo a partire da qui, non si ritroverà la retta via.
Non sarà un caso se, davanti alle
contorsioni moderate del Partito democratico e alla discesa vorticosa
dell’appeal del Mov5Stelle, a sinistra la desertificazione continua senza
tregua. Persino un’intemerata in un brindisi augurale da parte di Massimo
D’Alema sull’eventuale rientro nella casa madre di “Articolo Uno-Mdp” è
sembrata una sferzata. Eppure, per chiunque segua un po’ simili cose fu chiaro
da quando si ruppe il gruppo di “Liberi e Uguali” che la componente sopra
accennata stava preparando l’appuntamento pacificatore dopo il divorzio. Sarà pure
fondata la proposta di D’Alema e Bersani di ripartire da zero, rifacendo
l’edificio: una sorta di neo-partito talvolta dipinto come un Ulivo aggiornato
o una riedizione della famiglia socialdemocratica. Siamo, però, sempre fermi
alla “dittatura” del contenitore. Non dissimile, mutatis mutandis,
è il percorso della sinistra-sinistra. Che senso ha la disseminazione di sigle,
alcune – purtroppo per loro – davvero insignificanti? E, dopo la scelta
coraggiosa di “Sinistra italiana” di rimanere fuori dal perimetro della
maggioranza che sostiene il governo presieduto da Mario Draghi, è comprensibile
che non un passo si sia fatto per una riunificazione almeno con “Rifondazione
comunista”?
Senza rovesciare paradigmi e modelli non
se ne esce. Per avviarsi su una strada meno infelice servono scelte
pacificamente “eversive”. Vi sono contraddizioni enormi, irriducibili se non si
rivolta il tavolo. Lavoro e ambiente, tutela della salute e riguardo alla
privacy, corsa tecnologica e difesa dell’umanesimo sono coppie dialettiche che
non possono trovare alcuna sintesi evolutiva se non si squarciano le
compatibilità di un Capitale forgiato dagli anni dell’egemonia liberista e ora
dominato dalle piattaforme. Far dialogare, connettere le varie parzialità
secondo gli insegnamenti delle pratiche femministe, ingaggiare ricerche sulle
culture che possono farsi politiche è l’ulteriore passaggio. Siamo ai
prolegomeni, ma senza tornare alle caselle iniziali il giro non va avanti.
Negli ultimi anni, eravamo nel giugno
del 2017, vi fu un tentativo interessante, che sarebbe anche oggi il criterio
cui ispirarsi. Si rammenterà l’assemblea tenutasi al teatro Brancaccio di Roma.
Si provò ad intrecciare il livello strettamente politico con le esperienze di
movimento, immaginando un’ibridazione in grado di creare un partito-non
partito, vale a dire un soggetto variabile regolato da uno statuto minimo e da
assetti dirigenti democratici e partecipativi. Ecco, quello spirito fuori dai
cori classici va considerato morto. Sarebbe, invece, il potenziale collante di
luoghi oggi frammentati e non comunicanti.
Un ruolo cruciale di stimolo e di
coordinamento spetta ai centri di cultura politica (il Crs e l’Ars ne sono un
esempio), senza esclusive o custodie conservative dei patrimoni (teorici)
accumulati.
Una doppia proposta. Da un lato, con il
prezioso contributo del “Forum Disuguaglianze e Diversità”, è urgente avviare
una capillare inchiesta sul campo. La società italiana, al netto della
sociologia del Censis, si è profondamente trasformata. L’analisi della trama
che anima città, periferie e territori è persino più difficile della lettura
degli algoritmi. Senza una chiara fotografia del contesto e delle sue faglie
non si riparte e non si trovano i protagonisti potenziali, i “becchini” di un
blocco di forze alternative. Inoltre, è da concepire una Conferenza nazionale
sul significato delle parole, per introdurre nel dibattito – finalmente – un
tentativo di mutare linguaggio e sintassi del cambiamento. Il resto, se mai,
seguirà.
L’articolo è stato
pubblicato il 12 gennaio sul sito del CRS
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