domenica 30 settembre 2018

Quando i libri diventano strumento di resistenza durante i conflitti - Elena Paparelli




 “Mi sono sempre immaginato il paradiso come una specie di biblioteca”, Jorge Luis Borges.

D’accordo con Borges: la casa dei libri è senza dubbio un rifugio ameno e insieme una galassia sempre in espansione, per chi, ovviamente, è avvezzo alla lettura e dalla lettura trae nutrimento.
In Italia, mentre le biblioteche pubbliche continuano ad essere per lo più disertate, i lettori calano ancora: dall’ultimo rapporto Istat si rileva come siano solo 23 milioni gli italiani che dichiarano di aver letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista; e solo il 14,1% degli italiani si ritiene un “lettore forte”, avendo letto almeno 12 libri in un anno.
Sulla base di questi dati, si fa fatica a pensare alla lettura come un vero e proprio “strumento di resistenza” in situazioni limite, dove si lotta per la propria sopravvivenza fisica, giorno dopo giorno.
Eppure, storie di resistenza che hanno per protagonisti i libri ce ne sono, e hanno molto da insegnarci.
Succede per esempio che nella Striscia di Gaza – lingua di terra lunga 45 km e larga meno di 10 km, con circa un milione e 800 mila abitanti e una disoccupazione giovanile che supera il 60% – un gruppo di ragazze abbia deciso, con l’aiuto dell’Unicef, di creare una biblioteca nella città di Deir al Balah.
Deir al Balah letteralmente significa “Monastero delle Palme”perché la zona era caratterizzata da migliaia di queste piante, di cui oggi restano poche tracce.
Il campo profughi di questa città ospita circa 25mila rifugiati.
L’iniziativa della biblioteca è partita da alcune ragazze della scuola Sokaina, intenzionate a far sì che all’interno del loro plesso scolastico ci fosse una biblioteca nel senso vero del termine, che consentisse a chi lo volesse di allargare i confini della propria immaginazione tramite la lettura.
Così, con un finanziamento iniziale di 300 dollari, le ragazze hanno iniziato la loro avventura.
I primi 30 libri comprati al mercato con il budget iniziale, un po’ di arte di arrangiarsi (scatole di legno usate per gli scaffali e pneumatici vecchi per costruire sedili) e l’aiuto di altre ONG, ecco che la biblioteca prende forma, con in dotazione più di 500 libri.
La possibilità di lettura in una zona come Gaza, tagliata fuori dal mondo, è un’occasione di speranza per chi sente di non avere alcuno sbocco.
Così ha pensato anche il giovane palestinese Mossa Toha, che ha sentito anche lui la spinta a creare una biblioteca a Gaza, dopo essersi laureato in letteratura inglese all’Università islamica di Gaza.
Per lui si sono rivelati determinanti i social: “Mandateci libri in lingua inglese, nuovi o usati, romanzi o saggi”, il suo appello su Facebook, dove ha aperto la pagina “Library & Bookshop for Gaza”.
L’idea della biblioteca è nata da una vera e propria urgenza: “Qui si trovano pochi libri in inglese – ha detto il giovane Mossa – e arrivano molto dopo la loro pubblicazione a causa del blocco.”
Insieme al suo amico Shafi Salem, Mossa Toha ha raccolto moltissimi libri, ed è ricorso anche ad una campagna di crowdfunding per riuscire a sostenere la biblioteca, e farla funzionale con personale di servizio.
La Edward Said Public Library-Gaza (così è stata battezzata) ha ricevuto volumi da tanti Paesi, tra cui Canada, Giappone, Stati Uniti, Italia, e ha ricevuto il plauso anche di un intellettuale come Noam Chomsky, che alla biblioteca ha donato diversi volumi.
“È stato sorprendente, e stimolante, vedere come le persone sopravvissute nella prigione di Gaza, soggette a continui e feroci attacchi e vivendo in condizioni di brutale privazione, continuino a mantenere la loro dignità e il loro impegno per una vita migliore – ha detto Chomsky –  L’iniziativa di Mosab di creare una biblioteca e un centro culturale a Gaza è un esempio eccezionale di questi notevoli sforzi. Quello che sta cercando di ottenere contribuirebbe in modo significativo ad arricchire la vita degli abitanti di Gaza e offrire loro opportunità per un futuro migliore. Merita un forte sostegno da parte di tutti coloro che sono interessati alla giustizia e ai diritti umani fondamentali”.
Attualmente, nella Striscia di Gaza ci sono alcune librerie, ma sono per lo più fornite di libri in arabo, e meno di cinque biblioteche, sprovviste di libri in lingua inglese.
La storia di Mossa racconta di come dalle macerie nasca la voglia di ricominciare: dopo che gli israeliani bombardarono la sua università, e alla vista di centinaia di libri bruciati, Mossa prese il coraggio per la sua iniziativa: “Non avevano distrutto l’intero ateneo ma una parte di esso, quella con la biblioteca. Tra le macerie vedemmo dozzine di libri bruciati, anneriti. Tutta la sezione in lingua inglese era andata perduta. Amiamo leggere testi in inglese e potevamo farlo solo lì, all’università. Israele oltre a lanciarci contro le bombe ci negava il diritto a leggere e istruirci”.
Dalla Siria arriva invece la storia di un gruppo di 40 volontari siriani che a Daraya, vicino all’aeroporto militare di Mezze, assediata per quasi tre anni dall’esercito regolare, ha creato una biblioteca sotterranea che custodisce 15mila volumi sottratti alle macerie.
Un seminterrato di 200 mq in un sobborgo a sud di Damasco è diventato il “rifugio” di una cultura da preservare dalla devastazione prodotta dalla guerra: Abu Malek, insieme ad alcuni amici studenti universitari, ha l’idea di trovare un posto dove ordinare i volumi dispersi segnando accuratamente i luoghi dove sono stati rinvenuti, per restituirli ai proprietari, a guerra finita.
La cosa che fa riflettere è che tra i lettori della biblioteca ci sono anche dei combattenti che nella lettura hanno trovato un aiuto in più per fronteggiare la continua minaccia di morte.
Abu Malek, un volontario del progetto, racconta: “Dopo l’inizio dell’assedio  non potevo più né leggere né studiare. Con i ragazzi che come me hanno dovuto interrompere gli studi e quelli da poco laureati abbiamo avuto l’idea di recuperare i libri che erano sotto le macerie delle case distrutte. Per ogni libro annotavamo in quale casa era stato ritrovato, così da poter identificare il proprietario. Una volta finita la guerra, se verranno a reclamarli, potremo restituirli ai proprietari. Abbiamo recuperato anche libri che non sono stati bruciati nelle biblioteche e nelle librerie della città. È stato un modo per salvare il nostro patrimonio culturale”.
E salvare il proprio patrimonio culturale significa anche prendersi cura di se stessi. “Lavorare nella nostra biblioteca mi ha davvero aiutato a trovare un nuovo obiettivo di vita – afferma un altro volontario, Hazem – Prima trascorrevo i giorni tra l’annoiato e lo spaventato, in attesa del prossimo raid aereo. Ora consiglio i libri alle persone che vengono in biblioteca e parliamo di ciò che abbiamo letto.
Anche in Iraq, dopo la distruzione dell’Isis, studenti e ricercatori di Mosul cercano di ricostruire la loro biblioteca. La storia è apparsa su Terrasanta, dove si racconta della biblioteca dell’Università di Mosul che ospita più di 30mila studenti, e che custodiva quasi un milione di volumi, mappe storiche, periodici, pubblicazioni d’epoca ottomana e antichi manoscritti arabi.
Ora, un movimento di volontari si è preso l’impegno di “rimettere in funzione la macchina accademica, per poter riprendere il prima possibile esami e lezioni, che durante l’occupazione dell’Isis sono andati avanti a fatica fuori dalla città”.
Alcuni di questi, guidati da un blogger, ha rovistato fra le rovine di una biblioteca, riuscendo a recuperare 2mila libri, compresi alcuni rari manoscritti. A questo è seguito anche il lancio di una campagna per ricevere volumi come donazione. Da Baghdad, dall’Europa, dagli Stati Uniti e anche dall’Italia sono arrivati centinaia di volumi, nonostante la difficoltà delle spedizioni.
C’è stato persino uno studente di legge che dalla Florida ha raccolto circa 6mila volumi.
Il libro recuperato diventa così anche strumento di socializzazione attraverso lo scambio, il dono, l’incontro di idee, proprio lì dove non te lo aspetti. Uno strumento di resistenza, fuori e dentro di sé.

Alternanza scuola-lavoro e cultura d’impresa - Fernanda Mazzoli




Il problema non è che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti e quelli del Tecnico si ritrovino a fare fotocopie. L’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come Buona Scuola, è il dispositivo centrale di un’operazione propagandistica: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola. Agli studenti e alle loro famiglie si fornisce da un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti per la vita. Intanto, la scuola pubblica, divenuta fornitrice di mano d’opera a costo zero, è sottoposta ad una vera invasione di campo da ditte, terzo settore, banche, assicurazioni, studi professionistici, che propongono agli studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. Sfatiamo un luogo comune: non esiste una buona alternanza, perché non è emendabile un dispositivo strategico di adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative. E’ necessario chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, dispositivo che compromette gravemente la dignità e lo spessore culturale del percorso educativo, la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.
Nell’ambito del processo di aziendalizzazione che, da almeno due decenni, investe il sistema della pubblica istruzione  l’alternanza scuola-lavoro, resa obbligatoria per tutti gli istituti Superiori dalla legge 107, meglio nota come buona scuola, rappresenta uno snodo cruciale, sia per le sue implicazioni -pratiche e teoriche- sia per il suo carattere strategico.
L’alternanza è esemplare di come la quantità possa trasformarsi in qualità, fino a caratterizzare una nuova impostazione scolastica. La riforma renziana, infatti, non ha inventato gli stages in azienda, già da tempo praticati in totale autonomia da molti istituti tecnici e professionali , ma ne ha sancito l’ obbligatorietà , li ha estesi ad ogni tipo di scuola di secondo grado ed ha aumentato massicciamente il numero di ore (200 per il triennio dei Licei, 400 per quello dei Tecnici).
Già il nome attribuito al progetto è significativo: istituendo una relazione dicotomica tra i due ambiti, si nega  che lo studio sia un lavoro che, come tale, necessita di un tirocinio psico-fisico, oltre che intellettuale e si esprime una concezione piuttosto primitiva, per la quale il lavoro è solo quello manuale o, comunque, quello espletato in azienda. Dietro tanta approssimazione e semplificazione si cela, in realtà, una profonda svalorizzazione dei contenuti culturali ed etici che dovrebbero trovare nella scuola il loro terreno privilegiato.
L’alternanza è paradigmatica di una scuola progettata per il mercato: da un lato tende a spostare il baricentro della formazione dalla scuola- ritenuta obsoleta, perché nel nostro Paese è ancora legata alla trasmissione e rielaborazione di un patrimonio culturale- all’impresa , dall’altro svolge un ruolo di adattamento sociale non trascurabile, considerate le dinamiche lavorative del nuovo millennio.
Il suo presupposto si basa su una colossale mistificazione che una martellante campagna mediatica ha cercato di trasformare in evidenza: la disoccupazione giovanile nascerebbe da un disallineamento tra le competenze dei diplomati e le richieste del mondo del lavoro. Spariti d’incanto decenni di ristrutturazione selvaggia  dei processi produttivi e dell’organizzazione del lavoro su scala internazionale, taciuta vergognosamente la complicità di una classe politica attenta solo a recepire le richieste dei mercati ed incapace di progettare politiche economiche di ampio respiro,  la responsabilità delle difficoltà occupazionali delle giovani generazioni viene attribuita ad una presunta inadeguatezza della scuola, chiamata, quindi, a colmare questo ritardo attraverso la didattica delle competenze e la collaborazione con le imprese.  Dovendo dare, naturalmente, a questo  assioma una parvenza di scientifica oggettività, il testo della “buona scuola“ porta a sostegno  i dati emersi da un’ inchiesta McKynsey 2014, secondo cui il 40% della disoccupazione giovanile avrebbe carattere non congiunturale, ma strutturale e nascerebbe dallo scarto” tra la domanda di competenze che il mondo esterno chiede allla scuola di sviluppare e ciò che la nostra scuola effettivamente offre”. (http://labuonascuola.gov.it/documenti,p.106) Tutta la costruzione regge, insomma, su una  sola fonte e sul metodo della decontestualizzazione dei dati rilevati, assunti come significativi in sé ed inappellabili  e non ricondotti ad uno scenario economico ed occupazionale di ben diversa complessità e rispondente ad una ben precisa ratio.
Riduzionismo informativo e demagogia si mescolano per mettere a segno due obiettivi: assolvere le classi dirigenti dalle gravissime responsabilità nel campo delle politiche del lavoro e sociali e, contemporaneamente, attaccare la scuola pubblica e portarne avanti la progressiva destrutturazione.
L’alternanza diventa il dispositivo centrale di un’operazione demagogica  e propagandistica indirizzata agli studenti e alle loro famiglie, ai quali si fornisce da un lato l’illusione che qualche settimana in azienda faciliterà, poi, l’inserimento lavorativo, dall’altro la percezione che le materie oggetto di studio sono lontane dalla realtà e non sono realmente importanti  per la vita. Non solo: si dà corpo ad una concezione della scuola come luogo di formazione  della futura manodopera che contrasta radicalmente con il portato di una lunga ed elaborata tradizione pedagogica per la quale la scuola è , innanzitutto, luogo di formazione della personalità umana,  della coscienza civile, dell’ educazione della ragione e dei sentimenti, attraverso la trasmissione ( che è anche rielaborazione) delle conoscenze.
Operazione demagogica, perché gli ideatori della buona scuola sono i primi a sbandierare con compiacimento la rapidità dei mutamenti dell’assetto produttivo  e lavorativo della  cosiddetta “società della  conoscenza” e, quindi, sono perfettamente consapevoli dell’inutilità pratica dell’alternanza ai fini dello sviluppo di competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro e che , nel giro di poco tempo, rischiano di divenire obsolete.     La finalità perseguita è un’altra :  l’elaborazione di uno strumento efficace per aprire la scuola pubblica ad una vera invasione di campo da parte di enti esterni: ditte, terzo settore, banche, assicurazioni, studi professionistici, compagnie navali che propongono agli studenti “pacchetti formativi”, talora persino a pagamento. La scuola è stata trasformata  in un mercato appetibile  che fornisce mano d’opera a costo zero e consente l’attivazione di convenzioni di tipo privatistico.
L’alternanza  diventa, pertanto, il fulcro del  processo di aziendalizzazione che sta snaturando in profondità la scuola, così come ogni ambito della vita pubblica, a partire dalla politica.  Ben lontano dall’essere un parto naturale dei riformatori nostrani,  trova il  suo humus nelle “raccomandazioni” espresse in sede europea sul finire del secolo precedente. In particolare, il  Libro bianco del 1995 del Commissario europeo con delega alla formazione e cultura  Edith Cresson invita a stabilire nuovi ponti tra  scuola e impresa, cui si conferiscono le credenziali di luogo formativo con correlate agevolazioni fiscali .  Non solo: questo documento prospetta la possibilità di sostituire in futuro il titolo di studio, troppo rigido, con  “una tessera personale delle competenze” sulla quale verrebbero registrate di volta in volta le acquisizioni del titolare, in modo da consentire al datore di lavoro  una rapida valutazione delle qualifiche dell’aspirante lavoratore in ogni momento della sua vita.  (www.mydf.it/DOC_IRASE/librobianco_Cresson.pdf, pp.10,11) La certificazione delle competenze sarebbe demandata in buona parte alle imprese; in questo contesto la scuola sembra avviarsi a divenire un’agenzia formativa tra le altre, conformemente al nuovo scenario dell’apprendimento permanente funzionale alla mobilità dei lavoratori in base alle esigenze dell’economia.  Non è possibile, salvo fraintenderne funzione e fini, estrapolare l’alternanza  dal quadro più vasto delle politiche del lavoro programmate dai centri economico-politici decisionali sul breve-medio termine : il suo perfetto equivalente in ambito lavorativo è il jobs act,  al quale essa prepara disinvoltamente i giovani, sin dall’età scolare.  Non solo: fornisce alibi a mobilità, flessibilità , sottoccupazione, facilità di licenziamento, mettendo a disposizione delle imprese lavoratori non pagati da usarsi in sostituzione di quelli ancora abituati a percepire un salario, per quanto irrisorio. Ciò, naturalmente, è reso possibile da un quadro occupazionale  caratterizzato ormai  da contratti a tempo determinato o “atipici”.
Che, poi, la scuola sia chiamata ad attuare queste stesse politiche, così estranee al suo ambito d’intervento e alle sue finalità,  prelude ad un capovolgimento radicale della sua  struttura e del suo ruolo, di cui stiamo  vedendo solo le prime avvisaglie. L’alternanza, insomma,  funziona  da  efficace cavallo di Troia di una destrutturazione del sistema dell’istruzione, già delineata nelle sue linee essenziali attorno agli anni ’90 del Novecento,  a cominciare dalla presenza di esperti esterni che garantiscono flessibilità quanto a reclutamento e  fedeltà ideologica ai valori dell’impresa e del mercato, rispetto ai quali si sottolinea il persistere di una certa tiepidezza da parte dei docenti italiani. ( La rimostranza viene espressa nei quaderni dell’Associazione TreeLLLe, think tank di ambito confindustriale  che si propone di studiare le proposte per migliorare la qualità dell’ education e alla quale si sono largamente ispirati gli autori della buona scuola; cfr., in particolare, http//wwwtreellle.org/files/III/quaderno-8,p.21.)
L’alternanza  come primo passo verso una  progressiva esternalizzazione della docenza, con significativo cambiamento del profilo giuridico ( libero da vincoli contrattuali ritenuti troppo rigidi) e professionale ( da insegnanti alle prese con un sapere disciplinare a formatori chiamati ad addestrare a specifiche competenze richieste dal mondo esterno) va di pari passo con la sua funzione di dispositivo ideologico rivolto ai ragazzi per indirizzarli alla “ cultura d’impresa” e all’autoimprenditorialità.
Se, infatti, con Harry Braverman , riteniamo che nella scuola non ha capitale importanza solo ciò che si impara, ma anche ciò a cui ci si abitua (cfr. Lavoro e capitale monopolistico .La degradazione del lavoro nel xx secolo,Einaudi, Torino,1978,p.287), non è di poco conto considerare che l’alternanza scuola-lavoro abitua gli studenti a lavorare gratuitamente dietro il presunto apprendimento di qualche abilità utile dopo il diploma. Se a ciò si aggiunge l’insistenza sulla necessità di una formazione permanente per rimanere sempre aggiornati rispetto alle esigenze del mercato del lavoro, si profila uno scenario  futuro molto allettante per i profitti delle imprese, estremamente preoccupante per quanto riguarda la dignità del lavoro, già ampiamente devastato dalla deregolamentazione introdotta dalle “riforme” neoliberiste.  L’alternanza proietta direttamente l’adolescente  nella condizione lavorativa già predisposta per la gran maggioranza dei diplomati di lavoratore flessibile, sottopagato, docile, disposto ad accettare come normali demansionamenti, mobilità e precariato , incline a sentirsi personalmente responsabile in caso di disoccupazione o sottoccupazione, poiché privo di adeguate competenze o di soddisfacenti capacità imprenditoriali.
E’ doveroso sfatare un luogo comune che , criticando l’applicazione concreta dell’alternanza quale si è registrata in questi tre anni, non ne mette per nulla in discussione la sostanza che, peraltro, gli sfugge.  Non esiste una buona alternanza , perché non è emendabile un  dispositivo strategico di adattamento sociale e di stravolgimento delle finalità educative , rimosse a vantaggio di un economicismo che svilisce la scuola a luogo di formazione e addirittura di diretto collocamento di forza lavoro in possesso di qualche abilità settoriale di tipo tecnico. Il problema di fondo non consiste nello scarto tra la mancata corrispondenza fra le attività svolte dagli studenti durante lo stage in azienda  e il loro piano di studio. Che gli studenti del Classico vadano a fare i gommisti  e quelli del Tecnico  si ritrovino a fare fotocopie in qualche ufficio, rappresenta solo un lato marginale e folkloristico del problema. E  il problema è l’ingresso massiccio dell’impresa e della logica del mercato nella scuola, sia come concreta invadenza in termini di tempi, di spazi e di contenuti, sia come modello organizzativo, nonché culturale.  Avrebbe dovuto sollevare l’indignazione del mondo intellettuale la perdita  di un numero consistente di ore di lezione, di tempo sottratto alla trasmissione e rielaborazione delle conoscenze, alla riflessione critica, all’approfondimento disciplinare, tempo prezioso per la crescita umana e culturale che, per la maggior parte dei ragazzi, qualunque sia l’indirizzo frequentato, solo la scuola può offrire. L’alternanza comporta, inevitabilmente, un impoverimento dei contenuti , una compressione dei programmi e, in questo senso, è perfettamente organica alla “didattica delle competenze” .  Che tale levata di scudi non ci sia stata, salvo qualche lodevole eccezione, rappresenta un’ulteriore riprova di un declino culturale complessivo, di un’ attenzione alle sirene mercantilistiche che autorizza previsioni poco rosee  relativamente alla tenuta  di un pensiero critico e della stessa democrazia.
L’alternanza, in quanto meccanismo predisposto per un connubio contronatura scuola-impresa che sottrae specificità  culturale ed educativa alla prima, nonché spazi istituzionali, costringendola sul terreno  socialmente  vincente della seconda, ipoteca gravemente il futuro della pubblica istruzione . Essa non ha nulla a che vedere con il riconoscimento della dimensione del lavoro e dell’esperienza pratica nella vita dei ragazzi, come viene suggerito da chi cerca di correggerne le storture più evidenti, con il fine di legittimarne la presenza, seppur in forme riviste.  Le scuole, già da tempo, possono organizzare progetti estivi con gli enti locali per l’inserimento lavorativo, peraltro pagato,  dei ragazzi che desiderino dedicare una parte delle loro vacanze allo  svolgimento di un’ attività professionale. L’ alternanza non promuove il lavoro che, anzi,  svilisce  in una nuova forma di apprendistato non riconosciuto socialmente ed economicamente, ma l’ideologia aziendalistica e , non a caso, si avvale dell’ educazione “all’autoimprenditorialità” consigliata  già  dalla scuola materna ,mentre ,nella concretezza della prassi scolastica, disputa il terreno ai saperi disciplinari,  avvertiti come estranei alla ragione calcolante e strumentale.
E’ necessario chiedere alle forze politiche una moratoria nell’applicazione dell’alternanza, sulla scia di un appello, forte di migliaia di adesioni, lanciato nel dicembre 2017 da alcuni docenti . ( cfr. Appello per la scuola pubblica. Un documento sulla scuola e sull’Istruzione: da leggere, pensare e sottoscrivere)   L’obbligatorietà, il consistente monte-ore, la presenza di  consulenti esterni , il suo essere requisito vincolante per l’ammissione alla Maturità   compromettono gravemente  la dignità e lo spessore culturale del  percorso educativo , la libertà di insegnamento, la necessaria indipendenza della scuola dalle pressioni del mercato.

venerdì 28 settembre 2018

La capitale mondiale dei droni - Antonio Mazzeo



Oltre cinquecentocinquanta attacchi con missili a guida laser e Gps; centinaia di omicidi extragiudiziali di presunti “combattenti Isis”; top secret il numero delle “vittime collaterali”, donne, bambini, anziani rei di essersi trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Questo il bilancio ufficiale delle operazioni in Libia condotte dal 2011 dalle forze armate Usa con l’utilizzo dei droni killer, i famigerati MQ-9 “Reaper” (letteralmente macchina falciatrice), buona parte dei quali decollati dalla base aerea siciliana di Sigonella (Siracusa), ormai nota in ambito militare come la “capitale mondiale dei droni”.
In quella che è da decenni l’installazione chiave per gli interventi del Pentagono e della Nato in Africa, Medio oriente, est Europa e sud-est asiatico, dal 25 marzo 2011 è operativo il 324th Expeditionary Reconnaissance Squadron dell’US Air Force, reparto d’élite che ha per motto il Veni, Vidi, Vici che Giulio Cesare pronunciò dopo aver sconfitto nel 47 a.C. l’esercito di Farnace II del Ponto a Zela, nella Turchia orientale e per sistema d’armamento i droni da ricognizione e sorveglianza Predator e quelli d’attacco Reaper. Un mese dopo lo schieramento del 324th Squadron, la prima azione “falciatrice” a Misurata, seguita da un sanguinoso raid a Tripoli. Secondo quanto dichiarato al periodico investigativo The Intercept dal colonnello Gary Peppers, già comandante del reparto statunitense operante in Sicilia, in quella tragica primavera del 2011 gli attacchi con droni in Libia furono ben 241. D’allora, l’uso di Sigonella come piattaforma di lancio dei droni d’intelligence ed esecuzione extragiudiziale non ha conosciuto interruzioni: le operazioni si sono estese a tutta l’Africa sub-sahariana e alla Somalia, mentre solo per restare in ambito libico, la base siciliana non ha avuto rivali nell’escalation dei bombardamenti Usa contro i “terroristi”. Quando nel 2016 l’Amministrazione Obama lanciò un’offensiva contro le milizie filo-Isis presenti nella città di Sirte (operazione Odyssey Lighting), in meno di cinque mesi furono effettuati 495 raid, il 60 per cento dei quali con i Reaper di Sigonella. Una ventina quelli già autorizzati da Donald Trump in Libia: gli ultimi, in ordine, il 6 e 13 giugno 2018, quando i droni manifestarono la loro potenza di fuoco contro presunti leader pro al Qaida, colpendo però anche ignari e innocenti passanti.
Non ha scandalizzato nessuno il recente reportage di Repubblica e The Intercept (Secret war) sulla guerra segreta in Libia condotta da Washington da una base in territorio italiano. Anche Amnesty International ha pubblicato un documentato rapporto sul network internazionale che consente le esecrate e criminali operazioni di sterminio del Pentagono con l‘utilizzo dei droni, riservando proprio a Sigonella uno dei ruoli chiave. Ad oggi nessun  governo ha ritenuto doveroso informare il Parlamento e l’opinione pubblica sugli accordi sottoscritti per consentire l’uso del territorio e dello spazio aereo nazionale da parte dei velivoli senza pilota statunitensi. Secondo il Centro Studi Internazionali (CeSI) di Roma, il Ministero della Difesa ha concesso, con mere “comunicazioni” del 15 settembre 2012 e del 17 gennaio 2013, un’autorizzazione “temporanea” allo schieramento dei droni d’intelligence e armati nella base di Sigonella, concessione poi estesa nel numero dei velivoli e nelle funzioni alla vigilia dell’attacco a Sirte del 2016. “Concedendo le autorizzazioni, le autorità italiane hanno fissato precisi limiti e vincoli alle missioni di queste specifiche piattaforme”, aggiunge il CeSI. “Ogni operazione che abbia origine dal territorio italiano dovrà essere condotta come stabilito dagli accordi bilaterali in vigore e nei termini approvati. Nello specifico, si possono autorizzare le sortite di volo volte all’evacuazione di personale civile, e più in generale non combattente, da zone di guerra e operazioni di recupero di ostaggi e quelle di supporto al governo del Mali secondo quanto previsto nella Risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.
Il bollettino di guerra stilato dalle testate giornalistiche e da Amnesty International attingendo alle fonti del Pentagono, ha però documentato un quadro assai differente. In base alle norme sulla trasparenza degli atti amministrativi, l’European Center for Constitutional and Human  Rights (ECCHR) di Berlino, in collaborazione con la cattedra di Diritto penale internazionale dell’Università di Milano, ha chiesto poter visionare il testo degli accordi sull’uso di Sigonella come base dei droni Usa, ma dopo l’ennesimo rifiuto del Governo, ha dovuto presentare un ricorso in sede di giustizia amministrativa. Mentre si attende un pronunciamento definitivo dei giudici, le forze armate Usa continuano ad eseguire impunemente dalla Sicilia le sentenze di condanna a morte contro gli indiziati di “terrorismo internazionale”.
Dal 2008, l’US Air Force schiera a Sigonella pure quattro-cinque aerei senza pilota Global Hawk, utilizzati per le operazioni d’intelligence in Africa e Medio oriente, nei Balcani e più recentemente anche in Crimea e Ucraina. Lo scalo siciliano è stato inoltre prescelto dalla Marina Usa come base operativa avanzata del sistema MQ-4C Triton, anch’esso con velivoli senza pilota d’intelligence e telerilevamento. Le infrastrutture necessarie saranno completate entro quest’estate (costo 40.641.000 dollari), mentre i nuovi droni dovrebbero operare dalla Sicilia a partire del giugno 2019. Come se ciò non bastasse, Sigonella sarà presto impegnata pure nelle attività di comando, controllo, gestione, telecomunicazioni via satellite e manutenzione di tutti i droni da guerra schierati dagli Stati Uniti a livello planetario, grazie al sistema Uas Saticom Relay Pads and Facility in via di installazione. “Sigonella garantirà la metà delle trasmissioni del Sistema dei velivoli senza pilota e opererà in appoggio al sito di Ramstein (Germania)”, spiega il Pentagono. Secondo quanto riportato da The Intercept, l’Uas Satcom Relay di Ramstein è il vero “cuore hi-teach della guerra Usa dei droni”. “Ramstein fa viaggiare sia il segnale satellitare che dice al drone cosa fare, sia quello che trasporta le immagini che il drone vede”, spiega il periodico. “Grazie al sistema Uas Satcom il segnale riesce a viaggiare senza ritardi in modo da permettere ai piloti di manovrare un velivolo a migliaia di chilometri con la necessaria tempestività”. L’Uas Satcom Relay di Sigonella opererà come stazione “gemella” dell’infrastruttura ospitata in Germania, assicurando la trasmissione dei dati alla base aerea di Creech (Nevada), la principale centrale di US Air Force per le operazioni dei velivoli senza pilota.
Anche la Nato ha scelto la stazione aerea siciliana come centro di comando e logistico del nuovo sistema di “sorveglianza terrestre” AGS (Alliance Ground Surveillance): esso si articolerà in stazioni di terra fisse, mobili e trasportabili per la pianificazione e il supporto operativo alle missioni e da una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto RQ-4 Global Hawk, dotati di sofisticati sensori termici per il monitoraggio di oggetti fissi ed in movimento. I droni potranno volare da Sigonella con un raggio d’azione di 16.000 chilometri, sino a 18.000 metri di altezza e a una velocità di 575 km/h, in qualsiasi condizione atmosferica. A fine maggio, la Nato ha firmato un contratto per il valore di 60 milioni di euro con il colosso delle costruzioni Astaldi S.p.A. di Roma per la progettazione e l’esecuzione dei lavori di ampliamento dell’area per le operazioni dei velivoli AGS. Nello specifico, a Sigonella saranno realizzati quattordici edifici per il “rimessaggio-attrezzaggio degli aeromobili” e uffici-comando per circa 800 addetti dell’Alleanza Atlantica. “Da Sigonella inizierà un viatico per proiettare la stabilità proprio sul confine meridionale della Nato, in collaborazione con lo Strategic Direction South Hub, basato presso il comando militare dell’Alleanza Atlantica di Napoli e che dal 2017 ha la finalità di aumentare la capacità di identificare e monitorare le molteplici minacce dal confine sud della Nato, con un centro di coordinamento per le operazioni di anti terrorismo, raccolta e analisi dati ed informazioni sulle principali aree di crisi del Vicino oriente e dell’Africa settentrionale”, spiega l’analista Alessandra Giada Dibenedetto del Ce.S.I. di Roma. Secondo il quartier generale della Nato, il primo Global Hawk AGS dovrebbe raggiungere in volo Sigonella dagli Stati Uniti nel corso del 2019.
Anche l’Aeronautica militare italiana concorre attivamente al processo di trasformazione di Sigonella nella base strategica delle nuove dottrine di guerra  “automatizzata” del XXI secolo. Il 10 luglio 2017 è stato costituito nel settore sotto controllo italiano, il 61° Gruppo Volo Ami, dotato di droni MQ-1C Predator, “allo scopo di consolidare e rafforzare il dispositivo di sicurezza nazionale per l’attività di sorveglianza nell’area del Mediterraneo, davanti alle coste del Nord Africa”. Il rischiaramento a Sigonella dei velivoli senza pilota alle dipendenze del 32° Stormo di Amendola (Foggia), è stato ufficialmente avviato nell’ambito della missione anti-terrorismo e anti-migrazioni Mare Sicuro, ma nei report dell’Aeronautica si parla altresì di “protezione delle linee di comunicazione, dei natanti commerciali e delle piattaforme off-shore nazionali, ecc.”. Attualmente i Predator italiani sono disarmati, ma è imminente la riconversione di alcuni di essi o l’acquisizione di droni-killer, così anche Roma potrà mietere, anzi falciare, vite umane in Libia e nell’Africa sub-sahariana.

giovedì 27 settembre 2018

Arrivano i “Baby PISA”: OCSE sperimenta test per i bambini da 4 a 5 anni - Rossella Latempa




Non avete mai sentito parlare di test Baby PISA? Beh, siete in buona compagnia, vista la quasi assoluta segretezza con cui l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE) ha costruito la sua ultima impresa educativa. Suscitando sconcerto per l’opacità e la mancanza di trasparenza:“Orrore: arrivano i test PISA ai bambini di 5 anni” scrive  Diane Ravitch, “I test Baby Pisa sono dietro l’angolo, come mai nessuno ne parla?” continuano negli USA.  Il Telegraph di recente ha paragonato i bambini di 5 anni delle scuole inglesi a cavie da laboratorio (Guinea pigs). La sperimentazione sulle “competenze emergenti” dei bambini dai 4.5 ai 5.5 anni è stata ribattezzata immediatamente Baby PISA. Attualmente, i paesi coinvolti sono tre: Stati Uniti, Inghilterra ed Estonia. Anche se altre nazioni si sono rifiutate di partecipare, i Baby PISA potrebbero comunque seguire le orme dei loro fratelli maggiori, i test PISA sui 15enni, che, partendo da poche nazioni, sono ormai arrivati a coprire 80 paesi. E l’Italia? Pur non aderendo alla prima fase dello studio OCSE, qualche discussione sul tema  valutazione a 4-5 anni deve esser stata avviata dalle parti dell’INVALSI. La responsabile area infanzia , che presiede il Gruppo di lavoro sullo sviluppo-dati della “rete infanzia” dell’OCSE, è stata anche responsabile di INVALSI VIPS, “un progetto pilota per la Valutazione Iniziale della Prontezza Scolastica e all’apprendimento” (CNEL,2014). Nonostante i diversi e documentati riscontri dell’esistenza di tale progetto, l’INVALSI ha affermato in una recente nota stampa che “non ha avviato alcuna sperimentazione”. Una smentita che conferma l’utilità di tenere gli occhi bene aperti anche sulle attività a cui viene data poca o nessuna visibilità nel sito ufficiale  dell’Istituto.

Avete mai sentito parlare di test Baby PISA? si domanda il professor Helge Wasmuth del New York’s Mercy College, dalle pagine di un blogamericano dedicato all’educazione nella prima infanzia. Nel caso in cui voi non ne sappiate nulla, continua, non preoccupatevi. Siete in buona compagnia, vista la quasi assoluta segretezza con cui l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (OCSE), ha costruito la sua ultima impresa educativa. Non si tratta di ipotesi fantasiose o di scenari futuribili, ma di attualità.
Orrore: arrivano i test PISA ai bambini di 5 anni” scrive in un recente post del suo blog Diane Ravitch, responsabile dell’Office of Educational Research and Improvement nel U.S. Department of Education, all’epoca di George Bush. “I test Baby Pisa sono dietro l’angolo, come mai nessuno ne parla?”, continuano negli USA alcuni analisti delle politiche educative.  Anche in Europa il Telegraph di recente ha paragonato i bambini di 5 anni delle scuole inglesi che prossimamente aderiranno al progetto alle cavie da laboratorio (Guinea pigs) impiegati nelle sperimentazioni animali.
I test standardizzati dell’OCSE, l’Organizzazione dello Sviluppo e della Cooperazione Economica, sono arrivati al capolinea: i bambini di 5 anni.  Si tratta dello “Studio Internazionale sull’apprendimento precoce e il benessere” nella prima infanzia (IELS, International Early Learning and Child Well-being Study)[*], una delle azioni strategiche previste dal recente rapporto Starting Strong 2017[1], ennesimo resoconto che l’OCSE ha dedicato al suo ultimo “bottino”: l’infanzia. Il progetto, avviato nel 2018-2019 nella quasi totale segretezza[2] e ribattezzato Baby PISA[3], prevede la “misurazione delle competenze emergenti” (emerging literacies) di bambini dai 4.5 ai 5.5 anni mediante “test con tablet” (tablet-based test) da svolgersi in “circa 15 minuti” (approximately 15 minutes).  Oltre ai quesiti computer basedper i piccolissimi, sono previste anche “misure indirette” (indirect assessment) delle loro competenze attraverso questionari a genitori e insegnanti o osservazioni aggiuntive fornite dai “funzionari coinvolti nel progetto”[4](study administrators). I campi di indagine (domains), sebbene provvisori, cercano un “equilibrio tra competenze cognitive e socio-emozionali” (cognitive, social and emotional skills), “emergenti e predittive di risultati positivi per la vita”[5] (early skills that are predictive of positive life outcomes).
Questo, in estrema sintesi, il progetto di misurazione delle competenze dei bambini promossa quasi “a porte chiuse”, con un pericoloso “deficit di democrazia”[6] segnalato ampiamente alla comunità scientifica internazionale da diversi studiosi[7], tra i quali Peter Moss e Mathias Urban, due ricercatori del Regno Unito, che ne hanno denunciato mancanza di discussione, pubblicizzazione e partecipazione.
Le finalità del Baby PISA potrebbero essere racchiuse in questo passaggio:
aiutare I paesi a migliorare le performance dei loro sistemi educative e garantire migliori risultati e rapporto costi/benefici (value for money) per i cittadini. Comparare i dati mostrerà quali paesi tra i partecipanti sono in grado di ottenere migliori risultati (performing best), in quali aree e per quali gruppi di studenti.”[8]
L’assunzione, geniale quanto sconcertante nella sua semplicità, è la seguente:
nel tempo [i test Baby PISA] potranno fornire informazioni sui collegamenti tra i risultati ottenuti a 5 anni e quelli a 15 anni [età dei test OCSE PISA “classici”]. In questo modo, i paesi partecipanti potranno avere un’indicazione più specifica dell’evoluzione delle competenze e abilità dei loro giovani[9].
Un’illusione razionalista che pretende di stabilire correlazioni al solo scopo di legittimare scelte politiche in linea con lo spirito dei tempi e i suoi due giganteschi simulacri: l’ossessione quantitativa della misura della performance e la continua delegittimazione del giudizio delle comunità professionali e delle specificità dei contesti, sostituiti dall’ apparente neutralità della comparazione numerica.
Una precisa idea di società, tutta contenuta nell’immagine di un’infanzia “taglia unica”, da costruire con “attrezzi” universali, disegnati per risolvere in un colpo solo problemi complessi oltre che estremamente dipendenti dal contesto storico-culturale.  L’impiego di termini come life-outcomes o value for money, sebbene si continui incessantemente a battere su apprendimento e benessere, sottolinea che proprio questi ultimi non possono essere considerati un fine in sé. L’obiettivo, da perseguire quasi in una logica di causalità, è il miglioramento dei risultati da adulti, membri effettivi in quanto forza-lavoro della società del futuro.
Attualmente i paesi coinvolti nel progetto di misura delle competenze di bambini di 5 anni sono tre: Stati Uniti, Inghilterra ed Estonia[10]. Alcuni stati hanno mostrato posizioni fortemente critiche, rifiutando di partecipare alla prima fase della sperimentazione (Germania, Canada, Francia, Norvegia, Danimarca, Nuova Zelanda, Giappone)[11] a causa dell’elevata resistenza incontrata nelle comunità locali. Non è tuttavia da escludersi che i test Baby PISA possano subire la stessa sorte dei loro fratelli maggiori, i test PISA sui 15enni, cominciati con un ristretto numero di partecipanti nell’anno 2000, per poi arrivare a coprire 80 paesi nel 2018. Per questo è necessario tenere vivo il dibattito e vigilare attentamente sulle traiettorie che le politiche educative nazionali prenderanno, considerata l’opacità e la mancanza di trasparenza dell’Organizzazione.
L’Italia finora, per quanto a nostra conoscenza[12], non ha aderito alla prima fase dello studio.
Sappiamo che è l’Istituto INVALSI a gestire la partecipazione dei nostri studenti quindicenni ai test OCSE – PISA internazionali.
Sappiamo inoltre che la responsabile area infanzia INVALSI attualmente presiede il Gruppo di lavoro sullo sviluppo-dati (Working group on data developement) della rete ECEC (Early Childhood Education and Care) dell’OCSE, oltre ad essere stata responsabile di un progetto INVALSI per la Valutazione Iniziale della Prontezza Scolastica e all’apprendimento [13] dei bambini di alcune scuole d’infanzia italiane (progetto INVALSI VIPS). Nonostante diversi riscontri[14] dell’esistenza di tale progetto (non trascurabile un rapporto del CNEL del 2014[15]curato dagli stessi responsabili INVALSI[16], che lo definisce “progetto pilota”) l’Istituto di Valutazione ha pubblicamente affermato in una nota stampa che “non ha avviato alcuna sperimentazione” né ha in programma test standardizzati su bambini di 4-5 anni.
Una smentita che sicuramente conferma l’utilità di tenere gli occhi bene aperti anche sulle attività a cui viene data poca o nessuna visibilità nel sito ufficiale dell’Istituto.
[*] nota aggiunta per completezza e grazie alla segnalazione di un lettore il 12/09/18 > questo il link ufficiale in cui è descritto il progetto http://www.oecd.org/education/school/international-early-learning-and-child-well-being-study.htm
[1] Rapporto “Starting Strong 2017: Key OECD Indicators on Early Childhood Education and Care “ http://www.charlotte-buehler-institut.at/wp-content/uploads/2017/10/Starting-Strong-2017.pdf pag. 40.
[2] M. Urban in “We need meaningful, systematic evaluation, not a Preschool PISA” in Global Education Review, Mercy College, New York, 2017 https://www.academia.edu/35674680/We_Need_Meaningful_Systemic_Evaluation_Not_a_Preschool_PISA .
[3]  P. Moss in “Early Years PISA testing”, Early Years Educator 2016 https://www.researchgate.net/publication/308781178_Early_years_PISA_testing .
[4] Tutti i virgolettati fin qui sono tratti dal documento del prof. Urban citato in nota 2, traduzione di chi scrive.
[5] OCSE Call for tenders: International Early Learning Study, 2016, pag. 18, traduzione di chi scrive http://www.oecd.org/callsfortenders/CfT%20100001420%20International%20Early%20Learning%20Study.pdf
[7]  P. Moss et al. in “The OECD’s International Early Learning Study: Opening for debate and contestation”, 2016
[8] OCSE Call for tenders, cit. pag. 103, traduzione di chi scrive
[9] OCSE, Call for Tenders, cit. pag 103, traduzione di chi scrive.
[10] Comunicazione personale tramite email di chi scrive con il referente internazionale OCSE del progetto.
[11] Comunicazione personale tramite email  di chi scrive con il Prof. M. Urban, citato precedentemente.
[12] Comunicazione personale tramite email di chi scrive con il referente internazionale OCSE del progetto. Si rileva inoltre la presenza, tra gli autori del contributo critico citato in nota 7, della prof.ssa Susanna Mantovani, dell’Università di Milano Bicocca.
[13] Così è riportato nel suo curriculum pubblico http://www.invalsi.it/operazionetrasparenza/cv/po/CV_Cristina_Stringher_2016.pdf. Si rimanda inoltre all’ articolo seguente:  C. Stringher, “Assessment of Learning to Learn in Early Childhood: An Italian Framework”, Italian Journal of Sociology of Education, 8(1)2016.
[15] Rapporto CNEL sulla qualità della Pubblica Amministrazione, 2014, pag 275 e 276, in note a piè di pagina nr. 60,65 http://www.condicio.it/allegati/159/Relazione_CNEL_2014.pdf
[16] Rapporto CNEL 2014 cit., pag. 5.