Migranti in
Italia a 35 euro/giorno e ira della Lega, 100 in Albania e applausi - Remocontro
C’era una volta la destra italiana che si scagliava contro i 35 euro al
giorno per l’accoglienza dei migranti.. Ora, nel bando del Viminale per la
gestione dei centri oltre Adriatico, scoprono i cronisti del ‘Domani’, le
tariffe sono triplicate rispetto a quelle previste in Italia. In Albania i
migranti costano 100 euro al giorno, e da Roma gli stessi contestatori di
allora si applaudono. A Tirana invece si sfregano le mani, con molte buone
ragioni.
Quando
Giorgia Meloni e Matteo Salvini…
La campagna politica anti migranti a denunciare ciò gli clandestini dei centri
di accoglienza ‘rubavano‘ agli italiani. Ora al governo, «manifestazione
di interesse per l’affidamento dei servizi di accoglienza in Albania» che
prevede un costo quasi triplo. Dal 21 marzo seminascosto sul sito del Viminale,
senza comunicati né lanci diagenzia. Infatti se ne è accorto quasi solo il
quotidiano Domani con un articolo di Federica Borlizzi e Marika Ikonomu.
34 milioni
anno, dopo quelli per costruire i centri albanesi
34 milioni
anno previsti, da dividere per i migranti coinvolti e confrontarlo con quello
che si spende in Testo ministeriale: «I corrispettivi riconosciuti
pro-capite/ pro-die, secondo la tipologia di centro ed il relativo numero degli
ospiti presenti, ammontano presuntivamente a complessivi € 33.950.139 annui,
dimensionati per l’accoglienza massima prevista».
Somma e divisione
Dividendo la
spesa complessiva per la capienza a pieno regime e i giorni di un anno si
arriva «presuntivamente» al costo quotidiano per migrante in
trasferta albanese di 90 euro. A cui vanno sommate le spese che, secondo il
ministero dell’Interno non si possono calcolare in anticipo, dei servizi di
trasporto; manutenzione ordinaria e straordinaria; presidi anti- incendio;
assistenza medica. E perfino tutte le utenze: idriche, elettriche, per rifiuti
e wifi.
Viminale,
esecutore sospetto
«Perché il
Viminale considera la gestione dei servizi più cara in Albania dove il costo
della vita è inferiore? L’unica risposta possibile è che vogliono pagare l’ente
gestore in maniera sproporzionata. Comprarselo», attacca Gianfranco Schiavone,
presidente del Consorzio italiano di solidarietà e membro dell’Associazione per
gli studi giuridici sull’immigrazione.
Caos
italiano del sistema migranti
«L’Italia,
che accoglie meno di gran parte dei paesi Ue come mostrano i dati Eurostat, ha
un sistema d’accoglienza nel caos. Migliaia di persone vivono per strada,
mentre in Albania per uno straniero trasferito nei nuovi lager fuori confine
spenderemo come in un hotel a 4 stelle», afferma Filippo Miraglia, dirigente nazionale di
Arci.
Ancora conti
albanesi
Sommando le
diverse voci della legge di ratifica venivano fuori 645 milioni di euro nei
primi cinque anni di validità. Ma se nello stesso periodo all’ente gestore
andassero 34 milioni ogni anno il totale darebbe 815 milioni. Altri conti che
non tornano.
Trasporto
marittimo dei migranti
Dalle acque
internazionali al porto di Shengjin. In assenza di valutazioni governative
serie, e se le 880 persone del centro di trattenimento cambiassero ogni mese
arriveremmo a 10.560. Per tenere lontano dal territorio nazionale l’equivalente
dello 0,01% della popolazione italiana, si spenderebbero così 15mila euro a
migrante.
Ma se, come probabile, le tempistiche ipotizzate dal governo non saranno
rispettate, il rapporto percentuale con la popolazione italiana diminuirà
mentre aumenterà la spesa pro capite. «Un po’ troppo, anche per uno spot
elettorale», denuncia Giansandro Merli sul Manifesto.
Armi made in
Italy in Ucraina-Israele e nel mondo – Remocontro
Presentata al Parlamento la «Relazione sulle operazioni per il controllo
dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento». Ma Roma
vende apparati bellici a Paesi in guerra che la legge vieterebbe e che governo
e Parlamento sembrano ignorare. Esportazioni destinate ad aumentare, con molti
retroscena dietro l’ufficialità di commerci non sempre confessabili.
Il mondo
‘veste armi’ made in Italy
«Le guerre
hanno piegato ogni ritrosia geopolitica, cavillo normativo, titubanza etica»,
scrive Calo Tecce su l’Espresso. «Il mercato è in fermento, le apprezza, le
prenota, le baratta, ne fa incetta». Ucraina, Israele, Ungheria, Azerbaigian,
Arabia Saudita. Ovunque. «Quando le armi della politica tacciono, vale
soltanto la politica delle armi».
Fonti
istituzionali
+24%
l’esportazione di armi italiane, soprattutto grazie alle vendite all’Ucraina,
passate da zero a quasi mezzo miliardo di euro. «Controllo
dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento»,
relazione 2023, inviata dal governo al Parlamento. Un documento che, se fosse
approvata la riforma della legge 185 del 1990 sul commercio delle armi
presentata dal governo, conterrebbe molte meno informazioni. Al momento
riusciamo a sapere del +24% l’esportazione di armi italiane, soprattutto grazie
alle vendite all’Ucraina, passate da zero a quasi mezzo miliardo di euro.
Documenti
riservati
Ma andiamo a
curiosare anche tra altre fonti, meno ufficiali. La compravendita di armamento
in Italia, nel 2023 ha prodotto affari per 7mila 562 miliardi di euro, con un
+25 per cento. Esportazioni autorizzate per 6mila 311 miliardi (+19 per cento).
Le importazioni che non registrano le operazioni italiane in Europa, in gran
parte provengono dagli Stati Uniti: 1.250 miliardi di euro, e -attenzione-, il
618 per cento in più rispetto a tre anni fa.
Ucraina,
nuovo cliente
Il governo
di Kiev è un nuovo cliente per l’industria bellica italiana, ma già il secondo
in assoluto con acquisti per 417 milioni di euro nel 2023, soprattutto in
munizioni di vario tipo e sistemi di difesa. E quest’anno promette il sorpasso
della Francia, nostro primo ‘cliente’ con 465 milioni. Kiev nuovo cliente in
guerra, con le anomalie giuridiche che comporta. O che, a legge in vigore,
dovrebbe comportare.
Il trucco di
‘cedere’ rispetto al ‘vendere’
La
differenza fra «cedere» e «vendere». La «cessione» è
consentita da un decreto del governo Draghi, prorogato da Giorgia Meloni per
‘derogare’ dalla legge 185 del 1990 che vieta le «esportazioni e il
transito di materiale di armamento verso Paesi in stato di conflitto». Da
allora sono seguiti otto provvedimenti ministeriali a firma bipartisant Guerini
e Crosetto. Utile ricordare che le commesse al governo di Kiev non rientrano
negli aiuti gratuiti.
La legge
beffata
Trucco «cessione
non onerosa» prendendo dalle riserve delle forze armate (che prima o
poi dovrai reintegrare). Invece per le vendite ci vorrebbe una nuova legge, che
oggi non esiste. Eppure le vendite a Kiev hanno raggiunto 417 milioni di euro
nel 2023. Ma per il governo il problema non esiste. «Ci sono gli
accordi con gli alleati europei e atlantici che determinano la nostra politica
estera». Un po’ come la struttura clandestina di Gladio secretata anche al
parlamento.
Italia
polverificio d’Europa
Italia,
polveriera tedesca. Rheinmetall è una multinazionale tedesca che controlla l’ex
azienda italiana Rwm, la fabbrica di bombe. Amministrazione a Ghedi, Brescia,
stabilimenti a Domusnovas in Sardegna. Prodotto principe, il più richiesto, i
proiettili di artiglieria da 155 millimetri, e seconde, bombe pesanti per
l’aviazione. Il fatturato italiano di Rheinmetall è inarrestabile. 287 milioni
di euro lo scorso anno, mentre Rwm è schizzata da 46 a 613 milioni.
Israele
«Dal 7
ottobre 2023 abbiamo bloccato i contratti per la vendita di armi a Israele», sostiene il ministro Esteri
Tajani. Ma non sono state bloccate le esportazioni autorizzate prima del 7
ottobre. Nessuna limitazione di fatto. Con Tel Aviv che ha ottenuto
esportazioni per 9,9 milioni di euro in linea con i 9,3 del 2022.
Ora decide direttamente la presidenza del consiglio. Con dei colpi di
fantasia da applauso. Merita la citazione, le armi all’Azerbaijan (che ci dà
gas e petrolio), ma che è Paese in guerra. «Non erano mezzi da
combattimento di terra e di aria, ma dei sottomarini», risponde una fonte del
governo. Geniale presa in giro.
Uno sguardo di sintesi sulle relazioni Italia/UE-Cina - Alberto
Bradanini
Per comprendere oltre alla forma anche la sostanza delle relazioni Cina-Italia/Europa è cruciale acquisire consapevolezza dei pilastri della soggettività statuale dei due protagonisti, tenendo in conto che le caratteristiche istituzionali, politiche e ideologiche delle due nazioni, risultato di una distinta traiettoria storica, modellano anche le relazioni bilaterali e la rispettiva agibilità internazionale.
La Cina, innanzitutto: la Repubblica Popolare è un paese sovrano,
espressione di una potenza economica e politica in crescita accelerata e
palpabile in ogni angolo del pianeta. Al centro delle sue istituzioni è
collocato il Partito Comunista, che garantisce stabilità e indipendenza alle
scelte di politica interna e internazionale della Repubblica Popolare. Il pieno
esercizio della sovranità, essenza costitutiva di ogni statualità degna
di questo nome, ha rappresentato la prassi strategica che ha consentito alla
Cina di riscattare il secolo dell’umiliazione nazionale (1839-1949),
generando un benessere inedito per una popolazione che nella storia aveva
conosciuto solo povertà ed emarginazione, divenendo in poco più di quarant’anni
una potenza economica mondiale.
La gerarchia dei paesi che contano per Pechino vede al primo posto gli
Stati Uniti – per i quali la Cina, a seconda dei casi, costituisce un partner,
un concorrente o un insidioso rivale strategico –
seguiti a distanza dalla Russia (per ragioni
economiche/energetiche e di comune interesse a contenere l’egemonismo
americano), dal Giappone (con cui vige una pace fredda, economia
bollente, politica gelida), dai paesi produttori di petrolio e materie prime, e
via via tutti gli altri.
Al centro di un mondo sempre più plurale – i cui principali gruppi di
riferimento sono i Brics+[1], la Sco[2], la Rcep[3] e
altre aggregazioni regionali esterne all’Occidente a guida Usa – si situa la
Repubblica Popolare. L’Europa, non è una novità, riluce per la sua irrilevanza:
vassallo politico/militare/economico/energetico etc. dell’alleato atlantico.
Non sorprende dunque se il Vecchio Continente, un tempo protagonista della
scena internazionale, è oggi percepito anche da Pechino nella sua reale dimensione
e apprezzato esclusivamente come interlocutore economico-commerciale (sebbene
anche qui a sovranità limitata), nulla di più.
Le relazioni Italia-Cina
L’Italia ha riconosciuto la Repubblica Popolare di Cina il 6 novembre 1970.
Da allora i rapporti politici bilaterali sono stati condotti all’insegna di un
saggio realismo e sono dunque privi di fattori critici. Roma non ha mai ceduto
alla tentazione di interferire sui temi sensibili per Pechino – Taiwan, Tibet,
la questione uigura, i diritti umani, Hong Kong – considerandoli affari interni
cinesi. L’Italia, va tuttavia aggiunto, fa parte di un sistema di alleanze
centrato sugli Stati Uniti, i quali vedono nella Cina l’insidia maggiore alla
loro egemonia. Se un giorno le tensioni tra le due superpotenze dovessero
superare la soglia critica, i rispettivi alleati sarebbero
tenuti ad allinearsi senza troppi distinguo. È questo un profilo solitamente
sottaciuto che i dirigenti cinesi evitano di evocare negli incontri bilaterali,
che tuttavia va tenuto a mente.
Nella valutazione cinese l’Italia è un paese di medie dimensioni,
in declino strutturale, alle prese con seri problemi esogeni ed endogeni, con
autonomia politica[4] e peso
internazionale minimi[5]. Il Paese deve
fronteggiare un duplice livello di subordinazione: sul piano politico-militare
l’obbedienza all’egemone atlantico, su quello economico-monetario-finanziario
la subordinazione alle oligarchie nordeuropee (al cui centro si colloca
il direttorio franco-tedesco). Il combinato disposto di tale
binomio genera quel pilota automatico al quale l’Italia ha
consegnato la sovranità politica e monetaria, e con essa la chiave del proprio
futuro economico e sociale.
Il giudizio severo della dirigenza cinese sull’Italia, seppure spesso
taciuto, si estende alla classe dirigente: un paese guidato da un ceto politico
modesto e un’amministrazione obsoleta, alle prese con corruzione diffusa,
criminalità organizzata e un’immigrazione incontrollata, che insieme si
riflettono su crescita, qualità dei servizi, investimenti, politiche industriali,
ricerca-accademia, tutela del lavoro e via dicendo, e dunque anche sulle
relazioni con Pechino.
A quanto sopra deve aggiungersi l’oggettiva difficoltà a fronteggiare una
globalizzazione, agguerrita e ingovernata, senza adeguati strumenti
per bilanciare la de-industrializzazione, il calo di produttività e la scarsa
capacità d’innovazione. Sono lontani i tempi (maggio 1991) quando la Penisola
veniva certificata quarta potenza economica al mondo, dopo
aver superato Francia e Regno Unito, e che anche Pechino considerava un
interlocutore economico di forte rilevanza. È triste constatare come
un’infantile autoesaltazione e un indecifrabile spirito di subordinazione
impediscano alla classe dirigente italiana di riflettere sul senso strategico
di quanto sopra e su una possibile uscita da tale cupo scenario.
Alcuni dati
Nel 2022, i flussi commerciali bilaterali hanno superato gli 80 miliardi di
euro (Eurostat[6]).
Le esportazioni cinesi verso l’Italia si sono attestate intorno ai 58-62
miliardi, quelle italiane in Cina sui 17-19 miliardi[7] (l’approssimazione
dei dati è dovuta ai flussi che transitano per Hong Kong e Rotterdam, inspiegabilmente
nemmeno monitorati dal sistema e dunque conteggiati sui flussi
bilaterali Olanda-Hong Kong-Cina). L’export italiano verso Cina è costituito
per i 4/5 da beni strumentali, mentre le note tre effe (fashion, food, forniture)
non superano il 15% del valore, a conferma che l’industria meccanica
rappresenta tuttora il settore di punta delle nostre esportazioni.
Il disavanzo italiano[8] subisce
un’impennata a partire dal 2001 con l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione
Mondiale del Commercio (OMC), passando dai 4 miliardi di euro agli attuali
41/43 (la curva del deficit UE ha un percorso analogo, da 30 miliardi nel 2000
a 395,7 nel 2022, su un totale di 856,7 miliardi).
L’accesso cinese all’OMC era stato propiziato nella seconda metà degli anni
’90 dalle grandi imprese statunitensi/occidentali, che hanno accumulato da
allora ingenti profitti, producendo in Cina a costi bassi (delocalizzando per
di più le produzioni più inquinanti) e riesportando nei ricchi mercati
americani ed europei.
Il mercato italiano, sebbene tuttora interessante, presenta tuttavia
caratteristiche di fungibilità per Pechino, a sua volta consapevole delle
competenze europee (e non del governo di Roma) su temi importanti quali lo
status di economia di mercato, le procedure antidumping, gli accordi e i
contenziosi commerciali e altro ancora. Solo quando l’Italia fa sentire la sua
voce nelle istanze UE (talvolta accade), lo sguardo di Pechino si fa più
attento alle rivendicazioni di Roma.
Quanto agli investimenti italiani in Cina, il loro stock (i numeri sono
avvolti nell’opacità e le proiezioni dunque orientative) dovrebbe aggirarsi
intorno ai 16/18 mld di euro. Quasi tutti green-field, nell’arco di
alcuni decenni essi hanno generato in Cina centinaia di migliaia di posti di
lavoro. Il loro flusso è oggi in forte calo, anche se qualche impresa ha ancora
convenienza a spostare laggiù la produzione. Nel complesso, il fenomeno è in
via di esaurimento, a causa dell’aumento dei costi (lavoro e servizi), della
competitività locale, di un’imposizione fiscale non più incentivante come un
tempo, di una maggiore attenzione cinese alla protezione ambientale e dell’appeal di
paesi alternativi, oltre che per le difficoltà delle nostre imprese a reperire
capitali.
Per quanto concerne gli investimenti cinesi in Italia, secondo Forbes[9],
nel 2019 essi si aggiravano intorno ai 15,3 mld di euro. Da allora, il loro
ammontare dovrebbe aver raggiunto i 18/20 miliardi, concentrandosi su merger
and acquisition di società esistenti, tecnologia e sbocchi di mercato,
senza creare nuovi posti di lavoro, seppur con qualche eccezione (Huawei a
Segrate, il centro design per auto a Torino e altri minori)[10]. Cresciuti lentamente
negli anni, e dopo l’impennata del quadriennio 2013-2017, anche questi flussi
vanno ora esaurendosi. Quanto agli investimenti in borsa e nei titoli del
debito pubblico italiano (di ammontare non conosciuto), questi sono volatili
per definizione e non generano nuovo lavoro, trovando motivazione nell’esigenza
di allocazione diversificata dei capitali: al settembre 2023 riserve valutarie
di Pechino[11] ammontavano a
3.120 miliardi di dollari, equivalenti a circa il doppio del Pil italiano.
Sulla vexata questio delle infrastrutture logistiche
marittime, ha sempre fatto difetto la chiarezza d’intenti da parte italiana.
Non si è mai giunti all’identificazione di un porto-hub per accogliere
le merci in entrata destinate all’Italia e all’Europa, sebbene le
portacontainer cinesi transitino davanti alle nostre coste per proseguire verso
Gibilterra e il Nord Europa. È vero che la Cina ha legami di lunga data con i
porti nordeuropei, dove confluiscono ingenti flussi di import-export che
generano elevate economie di scala. Ciononostante, a date condizioni, Italia e
Cina trarrebbero entrambe ingenti benefici nel servire l’Europea
centro-meridionale e orientale attraverso i porti italiani più vicini ai
mercati di destinazione[12]. Pechino ha invece
preferito, ad esempio, il porto di Atene-Pireo (investendovi oltre 800 milioni
di euro). I governi italiani succedutisi nell’ultimo quarto di secolo
dovrebbero chiedersi la ragione di tale preferenza.
In generale, il giudizio dell’Italia sui capitali stranieri in entrata è
affetto da pensamenti a giorni alterni: talora essi sono visti come una forte
spinta alla crescita, altre volte considerati una minaccia al sistema
produttivo. È evidente che gli investimenti esteri siano diversamente accolti a
seconda che provengano da Occidente-Usa o dalla Cina. L’Italia aderisce però
dogmaticamente agli ordini di demonizzazione della Cina, volti
a scoraggiare legami e cointeressenze con il gigante asiatico, di cui il nostro
sistema industriale avrebbe invece enorme bisogno.
Va altresì ricordato che in quarant’anni di interazione il know how e
la tecnologia italiana, insieme ai trasferimenti della Cooperazione italiana
allo Sviluppo (2,3 miliardi di euro), hanno assicurato un contributo tangibile
al sistema economico cinese[13]. Un quadro d’insieme,
questo, che insieme all’elevato disavanzo rende ancor più giustificata la
rivendicazione di un forte, seppur graduale, riequilibrio.
Per meglio acquisire dati e aggiornamenti di tali dinamiche, occorre
aggiungere, sarebbe indispensabile che il Sistema Italia disponesse di
un’efficiente organizzazione di conoscenza dell’universo Cina che incorporasse
istituzioni, mondo della ricerca e accademia. Informazioni, analisi e contatti
su un paese imprescindibile per i destini del mondo costituiscono anche il
presupposto di qualsiasi attività di tutela e promozione degli interessi del
Paese. In Italia non mancano persone di qualità che si occupano di Cina. È
tuttavia assente un’entità di massa critica, in grado di accumulare conoscenza
e promuovere collegamenti strutturati con il mondo cinese. Altre nazioni, non
solo quelle di consolidata tradizione sinologica, affrontano il gigante
asiatico con ben altri strumenti.
La Via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri)
Sul tema Bri la letteratura è sterminata. Lanciata da Xi Jinping nel 2013,
essa aveva inizialmente due obiettivi: a) favorire la connettività tra Cina e
paesi limitrofi; b) accorciare le distanze Cina-Europa, via terra e mare,
attraverso l’infrastrutturazione dei territori/paesi intermedi. La Bri ha poi
maturato obiettivi più ampi, tematici e geografici, puntando finanche, nel
tempo lungo, a modificare alcuni aspetti dell’ordine economico internazionale.
Il progetto cinese è fondato su investimenti, commercio, crediti, procedure
e uniformità di standard, mirando ad attirare in particolare, ma non solo, i
paesi emergenti che oggi guardano soprattutto al Beijing consensus,
la via cinese di uscita dal sottosviluppo, piuttosto che al Washington
Consensus, la via neoliberista/americana, alla quale molte nazioni hanno
sacrificato la sovranità politico/economica, senza raccogliere apprezzabili
risultati.
I progetti Bri non vengono finanziati a dono dal sistema bancario (cinese e
internazionale, tra cui la AIIB[14] e la Banca dei
Brics). Un nodo da sciogliere resta dunque la sostenibilità economica di tali
progetti, che devono generare risorse sufficienti a ripagare il debito.
Gli Stati Uniti hanno manifestato la loro contrarietà alla Bri sin dal suo
sorgere, sebbene tale progettualità meritasse il plauso dell’intero pianeta, e
in primis il sostegno delle Nazioni Unite: favorire l’uscita dei paesi poveri
dall’arretratezza rafforza infatti, è quanto mai evidente, le prospettive di
pace e stabilità nel mondo.
In tale contesto, il 23 marzo 2019, Italia e Cina sottoscrivono un accordo
denominato “Memorandum d’Intesa sulla collaborazione nell’ambito della “via
della seta economica” e della via della seta marittima nel 21° secolo”[15], che sulla carta
avrebbe dovuto porre le basi per una stretta collaborazione economica
bilaterale. L’Italia, unico Paese G7 ad aver aderito a tale lungimirante
strategia, avrebbe dovuto puntare non tanto alla riduzione del deficit
commerciale (pure importante), quanto a creare le condizioni per una
collaborazione industriale e di lungo respiro con la Cina, partendo
dall’infrastrutturazione dei paesi intermedi tra Estremo Oriente ed Europa
Occidentale (è questo, del resto, il senso della Belt and Road
Initiative). Un obiettivo questo mai divenuto realtà, per inerzia,
inadeguatezza e distacco da parte italiana. Del resto, alla luce delle critiche
che la firma di tale Accordo aveva generato da parte di Stati Uniti e partner
europei, l’MoU è stato vissuto dall’Italia come una colpa, invece che come una
straordinaria opportunità per costruire una relazione privilegiata con
l’universo Cina.
Non solo. Sebbene priva di reale sovranità, come già rilevato, l’Italia
avrebbe potuto tuttavia utilizzare i pur esistenti spazi d’autonomia –
trattando di temi economici/commerciali, privi di implicazioni politiche o
militari, l’accordo non metteva certo in discussione lo schieramento strategico
dell’Italia – per aprire una storica pagina d’innovazione geopolitica, a
beneficio del nostro paese e dell’intero continente.
L’orizzonte sarebbe stato quello euroasiatico, ricco di opportunità, con
l’intento di affiancarlo a quello euro-atlantico, non in chiave alternativa (e
nemmeno complementare), ma supplementare, lasciando spazio a chiunque, compresi
gli Usa, semmai avessero dismesso le vesti della sola nazione
indispensabile al mondo (e del malato eccezionalismo
di cui sono schiavi), tornando ad essere una nazione normale. Ciò
avrebbe favorito pacificazione, sviluppo e collaborazione tra tutti i
paesi/territori dell’Eurasia.
Un sogno, ne siamo convinti, poiché, come noto, la scelta dell’alleato
atlantico è stata un’altra, cosicché il contesto geopolitico ha indotto
l’attuale esecutivo, su pressioni Usa, a notificare al governo cinese, il 6
dicembre scorso, l’uscita definita dall’MoU.
Sorprende che l’accanimento Usa contro legittimi e innocui interessi
italiani – il Pil dell’Italia è tuttora inferiore dell’1,7% rispetto al 2007,
anno precedente la crisi Usa dei sub-prime, e sono trascorsi 16
anni da allora! – sia vissuto con inspiegabile disinvoltura da governo,
accademia, comunità industriale e media, quando invece l’argomento
dell’interesse nazionale sarebbe stato presumibilmente compreso e rispettato
persino dagli Stati Uniti.
Una saggia soluzione alternativa cui Roma avrebbe potuto ricorrere sarebbe
stato un aggiornamento/modifica dell’MoU, con l’inserimento di clausole
vincolanti per la parte cinese su: a) lo squilibrio commerciale, attenuando
semmai il crudo realismo di coloro che reputano che l’Italia del declino
industriale non ha molto da offrire al sistema Cina; b) collaborazione
infrastrutturale sulla Via della Seta, ignorando le intimidazioni dei
cosiddetti paesi amici, ma mobilitando gli ambienti industriali e
finanziari, oggi decisamente assonnati.
In un’ottica ideale, tenuto conto dei flussi, degli
investimenti e della sofisticata tecnologia di cui oggi la Cina dispone, la
cooperazione bilaterale dovrebbe svilupparsi sulle nuove tecnologie,
l’automazione, l’ambiente, l’aerospazio, la sanità, l’agricoltura sostenibile,
la mobilità, l’interconnessione, l’urbanizzazione innovativa e le smart
cities, le nuove energie, la robotica, la ricerca applicata e altri settori
di punta. La strada resta in salita, ma le prospettive decisamente attraenti.
Andrebbe da ultimo utilizzata con convinzione l’architettura istituzionale
già esistente, tra cui il Comitato Governativo Cina-Italia,
incaricato di coordinare soggetti pubblici e privati, il Business Forum,
favorendo d’interazione diretta tra uomini d’affari dei due paesi e il Forum
Culturale, prezioso strumento di collaborazione tra superpotenze
della Cultura quali sono Italia e Cina, attivando le industrie
creative, la scienza, il turismo, la produzione enogastronomica, gli scambi
accademici e studenteschi.
L’uscita dall’MoU, secondo quanto è dato sapere, sarà ora compensata dalla
riattivazione del cosiddetto partenariato strategico bilaterale (firmato
nel lontano 2004, che a dispetto del nome ha avuto ben poco di strategico),
anch’esso privo di impegni per le parti, ma formalmente più
rassicurante, perché esterno al contesto Bri che tanto irrita l’alleato atlantico.
In definitiva, tale cancellazione non fa bene alle relazioni Italia-Cina,
anche se Pechino non adotterà misure di ritorsione, ma conferma lo spirito di subordinazione
del governo più sovranista che l’Italia abbia mai avuto.
Resta la plateale contraddizione di una nazione amica (gli
Stati Uniti) che ostacola brutalmente gli interessi di un paese con un’economia
media e sofferente (come già riportato, circa 80 mld di euro di interscambio),
mentre il commercio Cina-Usa ha raggiunto nel 2022 i 690 miliardi di dollari
(record storico), quello Cina-UE gli 856,7 miliardi di euro[16], quello Cina-Germania
i 350/380 mld, quello Cina-Giappone i 400 mld di dollari[17] e in proporzione
Corea del Sud, Australia e via dicendo.
Cina – Unione Europea
La Repubblica Popolare, oggi geo-politicamente appagata, militarmente protetta, geo-economicamente compiaciuta
della sua interazione esterna e geo-culturalmente fiduciosa
sul suo avvenire, si confronta con un’Europa in crisi identitaria, politica,
economica e valoriale.
A partire da fine secolo – dopo aver aggiornato la nozione di Grande
Potenza, alla luce dei cambiamenti intercorsi nel pianeta – la Cina ha
cessato di annoverare i paesi europei in tale categoria, così come l’Unione Europea
(UE) in quanto tale, che Pechino considera una costola muta dell’impero
americano.
Fino alla caduta del Muro di Berlino la minaccia dell’Unione
Sovietica aveva consentito all’Europa di passare sotto silenzio la sua
sottomissione alla superpotenza atlantica con l’argomento auto-assolutorio
della difesa della libertà. Con la fine del Patto di Varsavia il Vecchio
Continente avrebbe potuto recuperare sovranità e dignità politica, se le sue
classi dirigenti fossero state all’altezza dei tempi.
A ottant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, invece, gli Usa
mantengono ancora il continente europeo sotto stretta sorveglianza,
sterilizzando ogni ipotesi di un’Europa sovrana, semmai ve ne fossero le
condizioni endogene, a loro volta – va detto – inesistenti. Non è
un caso che l’UE sia priva di un governo, di un vero Parlamento e di una Banca
Centrale che risponda a istituzioni democratiche. L’intangibile progetto
di Federazione Europea – che lampeggia tuttora come un fuoco
fatuo davanti agli occhi di masse sprovvedute, senza che alcun documento
politico, dalla conferenza di Messina in avanti, l’abbia mai evocata – è solo
il parto di uno scrittore di fantascienza, filiazione della mitologica
invenzione di un popolo europeo. Gli stati non si costruiscono a
tavolino. Essi sono il frutto di sedimentazioni storiche, linguaggio, costumi,
sangue versato, guerre vinte o perse, caratteristiche economiche e sociali, e
altro ancora, tutti fattori ineludibili dell’essenza di una nazione.
Se anche ipotetici governi nei paesi-guida (Germania e Francia), folgorati
sulla via di Damasco, proponessero di oltrepassare la linea d’ombra –
indicando un percorso davvero europeista (la Federazione
Europea implica il trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli in
ritardo) – è facile profezia che essi verrebbero spazzati via a furor di
popolo.
In linea teorica, la Cina sarebbe entusiasta dell’esistenza di un soggetto
che alla forza economica (di cui l’Europa è ancora dotata)
potesse affiancare un’effettiva agibilità politica, irrobustendo
quella dimensione multipolare delle relazioni internazionali che risponde ai
suoi interessi. Si tratta però di un’ipotesi d’accademia, poiché quella entità
non esiste in natura, non è prevista dai Trattati istitutivi ed è impedita
dalle oligarchie dominanti (interne ed esterne alla UE) che ne verrebbero
danneggiate.
Il declassamento del ruolo dell’UE da parte cinese è una novità
relativamente recente. Esso prende avvio con il mandato di Jiang
Zemin negli ultimi anni del secolo scorso, consolidandosi con Hu Jintao
(2002-12), il quale, nella prospettiva di un mondo plurale, inizia a prestare
maggior attenzione ai paesi emergenti e alle dinamiche multilaterali,
trascurando una UE auto-riflessa e politicamente asservita a interessi altrui.
In quegli anni, il Partito così sintetizza lo scenario internazionale: “le
grandi potenze sono la chiave; i paesi limitrofi la priorità;
quelli in via di sviluppo la base; le istituzioni multilaterali
il palcoscenico”. Se fino ad allora l’Europa era considerata una
delle chiavi, seppure in posizione ancillare rispetto
agli Usa, essa viene ora declassata. Oggi, la sua irrilevanza è percepita
ovunque: in Ucraina, Palestina, Iran, Siria, Yemen, Afghanistan, Corea del Nord
e via dicendo la voce dell’Europa non è che un mormorio.
L’Unione resta però per la Cina un interlocutore importante per
commercio, capitali, know how, tecnologia. Pechino è anche
consapevole delle competenze dell’UE su accordi commerciali, procedure antidumping,
status di economia di mercato e altro, e agisce con accortezza tra Bruxelles e
le capitali in funzione dei suoi interessi.
Commercio e investimenti Cina-Unione Europea
Nel 2022, la Cina si è confermata un partner economico primario per
l’Europa, attestandosi al secondo posto, con un interscambio di 856,7 miliardi
di euro[18], poco meno di quello
tra UE e Stati Uniti, al primo posto con 867,7 mld di euro[19]. Nel 2019, l’export
UE verso la Cina rappresentava il 2,4 per cento del totale, quello verso
gli Usa il 5,7 per cento. Da allora questi dati non sono cambiati di
molto.
Il commercio UE-Cina resta poi al di sotto del suo enorme potenziale. Il
mercato cinese assorbe un flusso ridotto di esportazioni europee. Nel 2022 l’UE
ha esportato in Cina (1,42 miliardi di individui) appena il 23% in più rispetto
a quanto esportato in Svizzera (che conta meno di 9 milioni di
abitanti). Le importazioni dalla Cina hanno fatto registrare una crescita
sostenuta (+30% in un anno, secondo Eurostat, 2022), ma le esportazioni verso
la Cina sono aumentate solo di un misero 3%.
Nel 2022, nel commercio Cina-UE (su un totale di 856,7 mld di euro il
deficit UE è stato di 395,7 miliardi), la Germania è il solo paese, se si
esclude l’irrilevanteIrlanda (surplus di 776 milioni di euro), che registra un
rapporto bilanciato con Pechino (236 mld di euro sulla carta e 24 mld di
deficit, ma non meno di 350 mld e un sostanziale equilibrio se si includono i
flussi che transitano per Hong Kong e Rotterdam). Non è un caso che la Germania
imponga all’intera Unione Europea una China policy accomodante,
in linea con i suoi interessi.
Quanto agli investimenti, quelli cinesi in Europa restano contenuti, solo
il 5% del totale in entrata (200 mld circa), rispetto ai 1.800 mld
degli Stati Uniti (anno 2020).
Negli ultimi anni, poi, è emersa una diversa percezione del mercato cinese
da parte delle aziende europee[20], le quali un tempo
adottavano le decisioni d’investimento escludendo il rischio politico, che oggi
invece incombe sulla catena di approvvigionamento.
In assenza di un’autonoma strategia UE e prive di sostegno politico, cresce
l’inquietudine di tali imprese che valutano sempre più la possibilità di
dislocare gradualmente i loro investimenti su altri mercati.
Alla fine del 2022, lo stock cumulato (nei 20 anni precedenti)
d’investimenti europei in Cina ammontava a 160-170 miliardi di euro: si tratta
del medesimo ammontare che le imprese UE investono negli Stati Uniti ogni 12
mesi!
Gli investimenti esteri verso la Cina sono cresciuti per anni alla luce di
un contesto stabile e privilegiato. Oggi, sebbene sulla carta il paese rimanga
una grande opportunità, sono emersi nuovi interrogativi, la sfida tecnologica,
l’enfasi sui temi della sicurezza, la priorità Usa sul contenimento e
via dicendo, che hanno modificato lo scenario. La maggior parte delle imprese
presenti in Cina mantiene le posizioni, ma non intende pianificare altri
investimenti, mentre un numero crescente di esse valuta altri mercati, dove i
costi sono minori e il rischio politico assente[21].
Le ripercussioni di tutto ciò si fanno sentire anche sugli investimenti
cinesi in Europa, area verso la quale un tempo la Cina nutriva preferenza
rispetto agli Stati Uniti, assai precoci in tema di politicizzazione. Ora,
però, a partire dal 2019[22], anche la Commissione
Europea ha introdotto meccanismi di monitoraggio che autorizzano i paesi membri
ad ostacolare gli investimenti stranieri in entrata (e dunque anche cinesi) che
beneficiano di aiuti di stato o che costituiscano un pericolo per la sicurezza
nazionale.
L’Accordo Cina-UE sulla protezione degli investimenti
Nel dicembre del 2020, dopo un annoso negoziato, Cina e Commissione UE
hanno siglato in linea di principio il cosiddetto Accordo
sulla Protezione degli Investimenti[23], con l’impegno per
una pronta ratifica nei mesi successivi.
Negli auspici europei, l’Accordo avrebbe dovuto aprire la strada a una
forte crescita dei flussi commerciali, al loro graduale riequilibrio e a
un’ulteriore integrazione dei sistemi produttivi. Va rilevato che il testo, di
forte impronta liberista come del resto l’insieme dell’impalcatura UE, tutela
soprattutto gli interessi delle economie nordeuropee. Se ad esso farà seguito
in futuro, secondo alcune indiscrezioni, un testo ancor più assertivo in tema
di libero commercio, con la rimozione delle residue barriere a
tutela dei settori industriali esposti, i danni per il sistema produttivo
europeo nei comparti ancora parzialmente tutelati (per l’Italia acciaio, quel
che rimane del tessile, l’elettronica e altre nicchie produttive) saranno ancor
più profondi.
Il testo concordato, tuttavia, non ha avuto l’evoluzione attesa. Dal marzo
2021 una serie di impedimenti ostacola l’iter di ratifica e la sua entrata in
vigore è al momento in forte discussione.
All’atto della firma (dicembre 2020), gli Stati Uniti (al presidente
uscente D. Trump aveva fatto eco il subentrante J. Biden) criticano
veementemente l’accordo, con il pretesto che esso non affronta adeguatamente la
problematica del lavoro forzato in Cina. Nel marzo successivo, l’UE sanziona
quattro funzionari cinesi presuntamente coinvolti nella gestione di
campi di lavoro nella provincia cinese dello Xinjiang. Quale misura di
ritorsione, Pechino impone restrizioni a quattro entità e dieci funzionari UE,
di cui cinque membri del Parlamento europeo, spingendo Bruxelles, nel maggio
2021, a sospendere sine die la procedura
di ratifica.
Il conflitto in Ucraina che prende avvio il 24 febbraio 2022 porta altre
nubi nel cielo delle relazioni Bruxelles-Pechino e della possibile
finalizzazione dell’accordo, alla luce della indisponibilità cinese ad aderire
alle sollecitazioni occidentali (Ue e Usa) di intervenire sul governo di Mosca.
A tale quadro si somma la decisione di Pechino di sanzionare la Lituania per
aver consentito l’apertura di ufficio diplomatico taiwanese a Vilnius. Il 24
marzo 2021, il commissario europeo al commercio, V. Dombrovskis, dichiara
quindi: “il processo di ratifica non può essere separato dall’evoluzione
dell’insieme delle relazioni UE-Cina”, occultando tuttavia le forti pressioni
Usa. Con l’uscita di scena in quell’anno della cancelliera Angela Merkel,
principale sostenitrice dell’accordo e della tutela delle buone relazioni
Germania-Cina, il menzionato accordo è giunto a un punto morto. La sua
possibile ratifica dipenderà pertanto dall’evoluzione del contesto geopolitico,
in particolare delle relazioni Cina-Usa, le quali al momento non incoraggiano
alcun ottimismo in termini di distensione e riconciliazione.
[1] Brasile, Russia,
India, Cina e Sud Africa, più (dal 1 gennaio 2024) Arabia Saudita, Argentina,
Emirati Arati Uniti, Egitto, Etiopia, Iran (altri 16 paesi hano chiesto di
aderire, Alberia, Bangladesh, Bahrein, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Honduras,
Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Nigeria, Palestina, Senegal, Thailandia,
Venezuela, Vietnam
[2] Shanghai
Cooperation Organization
[3] Regional
Cooperation Economic Partnership
[4]https://contropiano.org/news/politica-news/2020/01/08/in-italia-ci-sono-decine-di-bombe-atomiche-pochi-lo-sanno-e-chi-sa-tace-0122697;https://www.tpi.it/esteri/bombe-nucleari-usa-italia-dati-documenti-20190717372685/; https://www.voltairenet.org/article164892.html;
https://cnduk.org/resources/united-st ates-nuclear-weapons-europe/
[5] L’Italia è a
tutti gli affetti pratici un protettorato Usa, le cui truppe la occupano da
oltre 78 anni, impedendole di eleborare un’autonoma azione politica, se non in
linea con gli interessi degli Stati Uniti
[6]https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics#Trade_with_China_by_EU_Member_State
[7] Anche qui
l’approsimazione dei dati è dovuta alle merci che transitano nei porti di
Rotterdam e Hong Kong, i cui flussi vengono conteggiati, rispettivamente, nel
commercio Cina-Olanda e Italia-Hong Kong. Nell’interscambio Ue-Cina, l’Italia
occupa la quarta posizione come paese esportatore (dopo Germania, Regno Unito e
Francia) e importatore (dopo Olanda, Germania e Regno Unito). La posizione
apicale dell’Olanda nell’import di prodotti cinesi è dovuta ai container che
giungono a Rotterdam e poi redistribuiti su tutto il continente. Solo in Italia
arriverebbero dal porto olandese oltre due milioni di container ogni anno.
[8] L’export
italiano in Cina è rappresentato per i 4/5 da beni strumentali, mentre le note
tre effe (fashion, food, forniture) non coprono più del 15%
del totale, a dimostrazione che l’industria meccanica (o quel che ne resta)
rappresenta tuttora il perno dell’export italiano, godendo dell’apprezzamento
cinese per qualità e competitività internazionali.
[9] https://forbes.it/2019/03/09/via-della-seta-quanto-investe-davvero-la-cina-in-italia/
[10] Tali
investimenti sono concentrati per lo più in Lombardia, Lazio, Piemonte, Veneto,
Trentino-Alto Adige, riguardano i settori high tech,
manifatturiero ed energetico e sono riconducibili alle seguenti tipologie:
– partecipazioni in aziende quotate (intorno al 2%): Eni, Enel,
Prysmian, Fca, Telecom, Generali, Saipem, Intesa San Paolo, Unicredit, Monte
dei Paschi di Siena, Mediobanca, e Atlantia/Autostrade (quest’ultima al 5%).
– acquisti di titoli del debito pubblico italiano, il cui ammontare è
stimato intorno ai 20 mld di euro, investimenti di natura speculativa e precari
per definizione;
– investimenti volti ad acquisire tecnologia: Pirelli, Cifa,
Ferretti, Parmeestelisa, Krizia, Benelli, Salov, LFoundry, 35% di Reti
Snam/Terna di CDP (da parte di State Grid of China), Shanghai Electric 40% di
Ansaldo Energia e altri minori;
– investimenti greenfield: pochissimi, in pratica Huawei a
Segrate e il centro design per auto a Torino;
– alcune squadre di calcio (Inter e Milan…).
[11] https://tradingeconomics.com/china/foreign-exchange-reserves
[12] Oggi, dunque, i
porti di Genova e Trieste potranno attirare qualche limitato investimento
cinese, ma nel Mediterraneo l’hub di riferimento la Cina l’ha da
tempo acquisito, investendo 800 milioni di euro nel porto di Atene-Pireo. Quel
treno l’Italia l’ha perso per sempre, non essendo riuscita (nei primi anni
2000, con i governi Berlusconi, Prodi e altri) a costruire una proposta viabile
per gestire le merci cinesi in arrivo nel Mare Nostrum.
[13] Il 5 agosto 2011
(Governo Renzi-Guidi), il 35 per cento di CDP Reti, società che controlla le
reti di trasmissione nazionale, viene venduto da Cassa Depositi e Prestiti a
State Grid Europe ltd, società con base a Londra, controllata della State Grid
Investment Development LLC, con base a Hong Kong, posseduta a sua volta dalla
statale State Grid Corporation. Non si tratta di partecipazione finanziaria, ma
di diritto di proprietà su un asset di valenza strategica. Oggi,
State Grid dispone anche della facoltà di vendere le sue quote a concorrenti
diretti, con uno sbilanciato diritto di prelazione di CDP da esercitare entro
sessanta giorni alle condizioni e prezzo del possibile acquirente.
[14] Asian
Infrastructural Investment Bank
[15]https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Memorandum_Italia-Cina_IT.pdf
[16]https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics
[17] https://www.mofa.go.jp/region/asia-paci/china/data.html
[18]Il commercio
https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics
L’interscambio UE-Cina ha superato nel 2022 856,7 mld di euro, con un disavanzo
europeo di circa 395,7 mld. Nel commercio con Pechino, quasi tutti i paesi
soffrono disavanzi in proporzione. La Germania (per la quale la Cina è il primo
partner commerciale in assoluto) soffre sulla carta un deficit di 23 mld circa,
con un interscambio sempre sulla carta di 237 mld. Tuttavia, se si considerano
i flussi che transitano per Rotterdam e HK il comemrcio bilaterale raggiunge i
320/350 e il disavanzo tende ad azzerarsi.
[19] Il commercio
Stati Uniti-UE è stato nel 2022 di 867,7 mld di euro, con import di 358,4 e
export per 509,3 mld, e dunque con un avanzo di 150,9.
https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=USA-EU_-_international_trade_in_goods_statistics
[20] https://www.friendsofeurope.org/insights/eu-china-trade-and-investment-unbalanced-and-well-below-potential/
[21] https://www.friendsofeurope.org/insights/eu-china-trade-and-investment-unbalanced-and-well-below-potential/
[22] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_19_2088
[23] Il testo punta a
facilitare il rispetto dell’accordo di Parigi e la ratifica cinese delle
convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sul lavoro forzato,
attraverso un meccanismo di monitoraggio. Rafforza l’apertura dei mercati
e un’economia aperta tra Cina e UE. Proibisce
trasferimenti forzati di tecnologia a società cinesi, interferenze statali
sulle licenze tecnologiche. Rafforza la protezione delle informazioni
sensibili, la tutela della proprietà intellettuale e dei segreti commerciali.
Migliora la trasparenza sui sussidi alle imprese, grazie all’estensione delle
discipline dell’Omc per i beni industriali e i servizi. È prevista l’apertura
al mercato di una lista di nuovi prodotti, l’eliminazione di restrizioni
quantitative, di limiti di capitale o altri requisiti nelle imprese miste. Nel
settore automotive, la Cina rimuove gradualmente i requisiti sulle imprese
miste e garantirà l’accesso al mercato ai veicoli non inquinanti. Quanto alla
finanza, Pechino s’impegna a liberalizzare alcuni settori e aprirli a
investitori UE. Vengono rimosse le restrizioni alle imprese miste e nelle
attività bancarie, nella negoziazione di titoli, assicurazioni, riassicurazioni
e gestioni patrimoniali. Nel comparto salute, verranno elimintte le restrizioni
agli investimenti negli ospedali privati di diverse città, tra cui Shanghai,
Pechino, Tianjian, Guangzhou e Shenzhen. Nella ricerca e sviluppo (risorse
biologiche), Pechino accetta di cancellare gradualmente le attuali restrizioni.
Gli investitori UE potranno investire nei servizi cloud fino al 50%, mentre i
servizi informatici verranno gradualmente aperti al mercato, ma senza precisi
impegni di tempo, inclusa una clausola di “neutralità tecnologica”, secondo la
quale i limiti di capitale non verranno applicati alla finanza, logistica e
medicina, se offerti online. Nel trasporto marittimo, la Cina consentirà alle imprese
UE di investire senza restrizioni nella movimentazione merci, depositi,
stazionamenti di container e agenzie marittime, aprendo il mercato al trasporto
multimodale, compreso il territorio nazionale del trasporto marittimo. Pechino
eliminerà i requisiti restrittivi sui servizi immobiliari, di noleggio e
leasing, riparazione e manutenzione per trasporti, pubblicità, ricerche di
mercato, consulenza gestionale e servizi di traduzione, servizi ambientali,
fognature, abbattimento acustico, smaltimento dei rifiuti solidi, pulizia dei
gas di scarico, protezione dell’ambiente, servizi igienico-sanitari. Sul tema
dei sussidi pubblici, viene istituito un meccanismo di consultazione, senza
pregiudicare la possibilità di misure autonome di distorsione. Le imprese pubbliche
cinesi s’impegnano a operare sulla base di regole commerciali e
a rispettare la trasparenza.
Nessun commento:
Posta un commento