sabato 30 marzo 2024

L'Italia fra l'affaire albanese e la guerra senza fine, vendendo armi, come sempre



Migranti in Italia a 35 euro/giorno e ira della Lega, 100 in Albania e applausi - Remocontro

C’era una volta la destra italiana che si scagliava contro i 35 euro al giorno per l’accoglienza dei migranti.. Ora, nel bando del Viminale per la gestione dei centri oltre Adriatico, scoprono i cronisti del ‘Domani’, le tariffe sono triplicate rispetto a quelle previste in Italia. In Albania i migranti costano 100 euro al giorno, e da Roma gli stessi contestatori di allora si applaudono. A Tirana invece si sfregano le mani, con molte buone ragioni.

 

Quando Giorgia Meloni e Matteo Salvini…

La campagna politica anti migranti a denunciare ciò gli clandestini dei centri di accoglienza ‘rubavano‘ agli italiani. Ora al governo, «manifestazione di interesse per l’affidamento dei servizi di accoglienza in Albania» che prevede un costo quasi triplo. Dal 21 marzo seminascosto sul sito del Viminale, senza comunicati né lanci diagenzia. Infatti se ne è accorto quasi solo il quotidiano Domani con un articolo di Federica Borlizzi e Marika Ikonomu.

34 milioni anno, dopo quelli per costruire i centri albanesi

34 milioni anno previsti, da dividere per i migranti coinvolti e confrontarlo con quello che si spende in Testo ministeriale: «I corrispettivi riconosciuti pro-capite/ pro-die, secondo la tipologia di centro ed il relativo numero degli ospiti presenti, ammontano presuntivamente a complessivi € 33.950.139 annui, dimensionati per l’accoglienza massima prevista».

Somma e divisione

Dividendo la spesa complessiva per la capienza a pieno regime e i giorni di un anno si arriva «presuntivamente» al costo quotidiano per migrante in trasferta albanese di 90 euro. A cui vanno sommate le spese che, secondo il ministero dell’Interno non si possono calcolare in anticipo, dei servizi di trasporto; manutenzione ordinaria e straordinaria; presidi anti- incendio; assistenza medica. E perfino tutte le utenze: idriche, elettriche, per rifiuti e wifi.

Viminale, esecutore sospetto

«Perché il Viminale considera la gestione dei servizi più cara in Albania dove il costo della vita è inferiore? L’unica risposta possibile è che vogliono pagare l’ente gestore in maniera sproporzionata. Comprarselo», attacca Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà e membro dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

Caos italiano del sistema migranti

«L’Italia, che accoglie meno di gran parte dei paesi Ue come mostrano i dati Eurostat, ha un sistema d’accoglienza nel caos. Migliaia di persone vivono per strada, mentre in Albania per uno straniero trasferito nei nuovi lager fuori confine spenderemo come in un hotel a 4 stelle», afferma Filippo Miraglia, dirigente nazionale di Arci.

Ancora conti albanesi

Sommando le diverse voci della legge di ratifica venivano fuori 645 milioni di euro nei primi cinque anni di validità. Ma se nello stesso periodo all’ente gestore andassero 34 milioni ogni anno il totale darebbe 815 milioni. Altri conti che non tornano.

Trasporto marittimo dei migranti

Dalle acque internazionali al porto di Shengjin. In assenza di valutazioni governative serie, e se le 880 persone del centro di trattenimento cambiassero ogni mese arriveremmo a 10.560. Per tenere lontano dal territorio nazionale l’equivalente dello 0,01% della popolazione italiana, si spenderebbero così 15mila euro a migrante.

Ma se, come probabile, le tempistiche ipotizzate dal governo non saranno rispettate, il rapporto percentuale con la popolazione italiana diminuirà mentre aumenterà la spesa pro capite. «Un po’ troppo, anche per uno spot elettorale», denuncia Giansandro Merli sul Manifesto.

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Armi made in Italy in Ucraina-Israele e nel mondoRemocontro

 

Presentata al Parlamento la «Relazione sulle operazioni per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento». Ma Roma vende apparati bellici a Paesi in guerra che la legge vieterebbe e che governo e Parlamento sembrano ignorare. Esportazioni destinate ad aumentare, con molti retroscena dietro l’ufficialità di commerci non sempre confessabili.

 

Il mondo ‘veste armi’ made in Italy

«Le guerre hanno piegato ogni ritrosia geopolitica, cavillo normativo, titubanza etica», scrive Calo Tecce su l’Espresso. «Il mercato è in fermento, le apprezza, le prenota, le baratta, ne fa incetta». Ucraina, Israele, Ungheria, Azerbaigian, Arabia Saudita. Ovunque. «Quando le armi della politica tacciono, vale soltanto la politica delle armi».

Fonti istituzionali

+24% l’esportazione di armi italiane, soprattutto grazie alle vendite all’Ucraina, passate da zero a quasi mezzo miliardo di euro. «Controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento», relazione 2023, inviata dal governo al Parlamento. Un documento che, se fosse approvata la riforma della legge 185 del 1990 sul commercio delle armi presentata dal governo, conterrebbe molte meno informazioni. Al momento riusciamo a sapere del +24% l’esportazione di armi italiane, soprattutto grazie alle vendite all’Ucraina, passate da zero a quasi mezzo miliardo di euro.

Documenti riservati

Ma andiamo a curiosare anche tra altre fonti, meno ufficiali. La compravendita di armamento in Italia, nel 2023 ha prodotto affari per 7mila 562 miliardi di euro, con un +25 per cento. Esportazioni autorizzate per 6mila 311 miliardi (+19 per cento). Le importazioni che non registrano le operazioni italiane in Europa, in gran parte provengono dagli Stati Uniti: 1.250 miliardi di euro, e -attenzione-, il 618 per cento in più rispetto a tre anni fa.

Ucraina, nuovo cliente

Il governo di Kiev è un nuovo cliente per l’industria bellica italiana, ma già il secondo in assoluto con acquisti per 417 milioni di euro nel 2023, soprattutto in munizioni di vario tipo e sistemi di difesa. E quest’anno promette il sorpasso della Francia, nostro primo ‘cliente’ con 465 milioni. Kiev nuovo cliente in guerra, con le anomalie giuridiche che comporta. O che, a legge in vigore, dovrebbe comportare.

Il trucco di ‘cedere’ rispetto al ‘vendere’

La differenza fra «cedere» e «vendere». La «cessione» è consentita da un decreto del governo Draghi, prorogato da Giorgia Meloni per ‘derogare’ dalla legge 185 del 1990 che vieta le «esportazioni e il transito di materiale di armamento verso Paesi in stato di conflitto». Da allora sono seguiti otto provvedimenti ministeriali a firma bipartisant Guerini e Crosetto. Utile ricordare che le commesse al governo di Kiev non rientrano negli aiuti gratuiti.

La legge beffata

Trucco «cessione non onerosa» prendendo dalle riserve delle forze armate (che prima o poi dovrai reintegrare). Invece per le vendite ci vorrebbe una nuova legge, che oggi non esiste. Eppure le vendite a Kiev hanno raggiunto 417 milioni di euro nel 2023. Ma per il governo il problema non esiste. «Ci sono gli accordi con gli alleati europei e atlantici che determinano la nostra politica estera». Un po’ come la struttura clandestina di Gladio secretata anche al parlamento.

Italia polverificio d’Europa

Italia, polveriera tedesca. Rheinmetall è una multinazionale tedesca che controlla l’ex azienda italiana Rwm, la fabbrica di bombe. Amministrazione a Ghedi, Brescia, stabilimenti a Domusnovas in Sardegna. Prodotto principe, il più richiesto, i proiettili di artiglieria da 155 millimetri, e seconde, bombe pesanti per l’aviazione. Il fatturato italiano di Rheinmetall è inarrestabile. 287 milioni di euro lo scorso anno, mentre Rwm è schizzata da 46 a 613 milioni.

Israele

«Dal 7 ottobre 2023 abbiamo bloccato i contratti per la vendita di armi a Israele», sostiene il ministro Esteri Tajani. Ma non sono state bloccate le esportazioni autorizzate prima del 7 ottobre. Nessuna limitazione di fatto. Con Tel Aviv che ha ottenuto esportazioni per 9,9 milioni di euro in linea con i 9,3 del 2022.

Ora decide direttamente la presidenza del consiglio. Con dei colpi di fantasia da applauso. Merita la citazione, le armi all’Azerbaijan (che ci dà gas e petrolio), ma che è Paese in guerra. «Non erano mezzi da combattimento di terra e di aria, ma dei sottomarini», risponde una fonte del governo. Geniale presa in giro.

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Uno sguardo di sintesi sulle relazioni Italia/UE-Cina - Alberto Bradanini

Per comprendere oltre alla forma anche la sostanza delle relazioni Cina-Italia/Europa è cruciale acquisire consapevolezza dei pilastri della soggettività statuale dei due protagonisti, tenendo in conto che le caratteristiche istituzionali, politiche e ideologiche delle due nazioni, risultato di una distinta traiettoria storica, modellano anche le relazioni bilaterali e la rispettiva agibilità internazionale.

La Cina, innanzitutto: la Repubblica Popolare è un paese sovrano, espressione di una potenza economica e politica in crescita accelerata e palpabile in ogni angolo del pianeta. Al centro delle sue istituzioni è collocato il Partito Comunista, che garantisce stabilità e indipendenza alle scelte di politica interna e internazionale della Repubblica Popolare. Il pieno esercizio della sovranità, essenza costitutiva di ogni statualità degna di questo nome, ha rappresentato la prassi strategica che ha consentito alla Cina di riscattare il secolo dell’umiliazione nazionale (1839-1949), generando un benessere inedito per una popolazione che nella storia aveva conosciuto solo povertà ed emarginazione, divenendo in poco più di quarant’anni una potenza economica mondiale.

La gerarchia dei paesi che contano per Pechino vede al primo posto gli Stati Uniti – per i quali la Cina, a seconda dei casi, costituisce un partner, un concorrente o un insidioso rivale strategico – seguiti a distanza dalla Russia (per ragioni economiche/energetiche e di comune interesse a contenere l’egemonismo americano), dal Giappone (con cui vige una pace fredda, economia bollente, politica gelida), dai paesi produttori di petrolio e materie prime, e via via tutti gli altri.

Al centro di un mondo sempre più plurale – i cui principali gruppi di riferimento sono i Brics+[1], la Sco[2], la Rcep[3] e altre aggregazioni regionali esterne all’Occidente a guida Usa – si situa la Repubblica Popolare. L’Europa, non è una novità, riluce per la sua irrilevanza: vassallo politico/militare/economico/energetico etc. dell’alleato atlantico. Non sorprende dunque se il Vecchio Continente, un tempo protagonista della scena internazionale, è oggi percepito anche da Pechino nella sua reale dimensione e apprezzato esclusivamente come interlocutore economico-commerciale (sebbene anche qui a sovranità limitata), nulla di più.

Le relazioni Italia-Cina

L’Italia ha riconosciuto la Repubblica Popolare di Cina il 6 novembre 1970. Da allora i rapporti politici bilaterali sono stati condotti all’insegna di un saggio realismo e sono dunque privi di fattori critici. Roma non ha mai ceduto alla tentazione di interferire sui temi sensibili per Pechino – Taiwan, Tibet, la questione uigura, i diritti umani, Hong Kong – considerandoli affari interni cinesi. L’Italia, va tuttavia aggiunto, fa parte di un sistema di alleanze centrato sugli Stati Uniti, i quali vedono nella Cina l’insidia maggiore alla loro egemonia. Se un giorno le tensioni tra le due superpotenze dovessero superare la soglia critica, i rispettivi alleati sarebbero tenuti ad allinearsi senza troppi distinguo. È questo un profilo solitamente sottaciuto che i dirigenti cinesi evitano di evocare negli incontri bilaterali, che tuttavia va tenuto a mente.

Nella valutazione cinese l’Italia è un paese di medie dimensioni, in declino strutturale, alle prese con seri problemi esogeni ed endogeni, con autonomia politica[4] e peso internazionale minimi[5]. Il Paese deve fronteggiare un duplice livello di subordinazione: sul piano politico-militare l’obbedienza all’egemone atlantico, su quello economico-monetario-finanziario la subordinazione alle oligarchie nordeuropee (al cui centro si colloca il direttorio franco-tedesco). Il combinato disposto di tale binomio genera quel pilota automatico al quale l’Italia ha consegnato la sovranità politica e monetaria, e con essa la chiave del proprio futuro economico e sociale.

Il giudizio severo della dirigenza cinese sull’Italia, seppure spesso taciuto, si estende alla classe dirigente: un paese guidato da un ceto politico modesto e un’amministrazione obsoleta, alle prese con corruzione diffusa, criminalità organizzata e un’immigrazione incontrollata, che insieme si riflettono su crescita, qualità dei servizi, investimenti, politiche industriali, ricerca-accademia, tutela del lavoro e via dicendo, e dunque anche sulle relazioni con Pechino.

A quanto sopra deve aggiungersi l’oggettiva difficoltà a fronteggiare una globalizzazione, agguerrita e ingovernata, senza adeguati strumenti per bilanciare la de-industrializzazione, il calo di produttività e la scarsa capacità d’innovazione. Sono lontani i tempi (maggio 1991) quando la Penisola veniva certificata quarta potenza economica al mondo, dopo aver superato Francia e Regno Unito, e che anche Pechino considerava un interlocutore economico di forte rilevanza. È triste constatare come un’infantile autoesaltazione e un indecifrabile spirito di subordinazione impediscano alla classe dirigente italiana di riflettere sul senso strategico di quanto sopra e su una possibile uscita da tale cupo scenario.

Alcuni dati

Nel 2022, i flussi commerciali bilaterali hanno superato gli 80 miliardi di euro (Eurostat[6]). Le esportazioni cinesi verso l’Italia si sono attestate intorno ai 58-62 miliardi, quelle italiane in Cina sui 17-19 miliardi[7] (l’approssimazione dei dati è dovuta ai flussi che transitano per Hong Kong e Rotterdam, inspiegabilmente nemmeno monitorati dal sistema e dunque conteggiati sui flussi bilaterali Olanda-Hong Kong-Cina). L’export italiano verso Cina è costituito per i 4/5 da beni strumentali, mentre le note tre effe (fashionfoodforniture) non superano il 15% del valore, a conferma che l’industria meccanica rappresenta tuttora il settore di punta delle nostre esportazioni.

Il disavanzo italiano[8] subisce un’impennata a partire dal 2001 con l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), passando dai 4 miliardi di euro agli attuali 41/43 (la curva del deficit UE ha un percorso analogo, da 30 miliardi nel 2000 a 395,7 nel 2022, su un totale di 856,7 miliardi).

L’accesso cinese all’OMC era stato propiziato nella seconda metà degli anni ’90 dalle grandi imprese statunitensi/occidentali, che hanno accumulato da allora ingenti profitti, producendo in Cina a costi bassi (delocalizzando per di più le produzioni più inquinanti) e riesportando nei ricchi mercati americani ed europei.

Il mercato italiano, sebbene tuttora interessante, presenta tuttavia caratteristiche di fungibilità per Pechino, a sua volta consapevole delle competenze europee (e non del governo di Roma) su temi importanti quali lo status di economia di mercato, le procedure antidumping, gli accordi e i contenziosi commerciali e altro ancora. Solo quando l’Italia fa sentire la sua voce nelle istanze UE (talvolta accade), lo sguardo di Pechino si fa più attento alle rivendicazioni di Roma.

Quanto agli investimenti italiani in Cina, il loro stock (i numeri sono avvolti nell’opacità e le proiezioni dunque orientative) dovrebbe aggirarsi intorno ai 16/18 mld di euro. Quasi tutti green-field, nell’arco di alcuni decenni essi hanno generato in Cina centinaia di migliaia di posti di lavoro. Il loro flusso è oggi in forte calo, anche se qualche impresa ha ancora convenienza a spostare laggiù la produzione. Nel complesso, il fenomeno è in via di esaurimento, a causa dell’aumento dei costi (lavoro e servizi), della competitività locale, di un’imposizione fiscale non più incentivante come un tempo, di una maggiore attenzione cinese alla protezione ambientale e dell’appeal di paesi alternativi, oltre che per le difficoltà delle nostre imprese a reperire capitali.

Per quanto concerne gli investimenti cinesi in Italia, secondo Forbes[9], nel 2019 essi si aggiravano intorno ai 15,3 mld di euro. Da allora, il loro ammontare dovrebbe aver raggiunto i 18/20 miliardi, concentrandosi su merger and acquisition di società esistenti, tecnologia e sbocchi di mercato, senza creare nuovi posti di lavoro, seppur con qualche eccezione (Huawei a Segrate, il centro design per auto a Torino e altri minori)[10]. Cresciuti lentamente negli anni, e dopo l’impennata del quadriennio 2013-2017, anche questi flussi vanno ora esaurendosi. Quanto agli investimenti in borsa e nei titoli del debito pubblico italiano (di ammontare non conosciuto), questi sono volatili per definizione e non generano nuovo lavoro, trovando motivazione nell’esigenza di allocazione diversificata dei capitali: al settembre 2023 riserve valutarie di Pechino[11] ammontavano a 3.120 miliardi di dollari, equivalenti a circa il doppio del Pil italiano.

Sulla vexata questio delle infrastrutture logistiche marittime, ha sempre fatto difetto la chiarezza d’intenti da parte italiana. Non si è mai giunti all’identificazione di un porto-hub per accogliere le merci in entrata destinate all’Italia e all’Europa, sebbene le portacontainer cinesi transitino davanti alle nostre coste per proseguire verso Gibilterra e il Nord Europa. È vero che la Cina ha legami di lunga data con i porti nordeuropei, dove confluiscono ingenti flussi di import-export che generano elevate economie di scala. Ciononostante, a date condizioni, Italia e Cina trarrebbero entrambe ingenti benefici nel servire l’Europea centro-meridionale e orientale attraverso i porti italiani più vicini ai mercati di destinazione[12]. Pechino ha invece preferito, ad esempio, il porto di Atene-Pireo (investendovi oltre 800 milioni di euro). I governi italiani succedutisi nell’ultimo quarto di secolo dovrebbero chiedersi la ragione di tale preferenza.

In generale, il giudizio dell’Italia sui capitali stranieri in entrata è affetto da pensamenti a giorni alterni: talora essi sono visti come una forte spinta alla crescita, altre volte considerati una minaccia al sistema produttivo. È evidente che gli investimenti esteri siano diversamente accolti a seconda che provengano da Occidente-Usa o dalla Cina. L’Italia aderisce però dogmaticamente agli ordini di demonizzazione della Cina, volti a scoraggiare legami e cointeressenze con il gigante asiatico, di cui il nostro sistema industriale avrebbe invece enorme bisogno.

Va altresì ricordato che in quarant’anni di interazione il know how e la tecnologia italiana, insieme ai trasferimenti della Cooperazione italiana allo Sviluppo (2,3 miliardi di euro), hanno assicurato un contributo tangibile al sistema economico cinese[13]. Un quadro d’insieme, questo, che insieme all’elevato disavanzo rende ancor più giustificata la rivendicazione di un forte, seppur graduale, riequilibrio.

Per meglio acquisire dati e aggiornamenti di tali dinamiche, occorre aggiungere, sarebbe indispensabile che il Sistema Italia disponesse di un’efficiente organizzazione di conoscenza dell’universo Cina che incorporasse istituzioni, mondo della ricerca e accademia. Informazioni, analisi e contatti su un paese imprescindibile per i destini del mondo costituiscono anche il presupposto di qualsiasi attività di tutela e promozione degli interessi del Paese. In Italia non mancano persone di qualità che si occupano di Cina. È tuttavia assente un’entità di massa critica, in grado di accumulare conoscenza e promuovere collegamenti strutturati con il mondo cinese. Altre nazioni, non solo quelle di consolidata tradizione sinologica, affrontano il gigante asiatico con ben altri strumenti.

La Via della Seta (Belt and Road Initiative, Bri)

Sul tema Bri la letteratura è sterminata. Lanciata da Xi Jinping nel 2013, essa aveva inizialmente due obiettivi: a) favorire la connettività tra Cina e paesi limitrofi; b) accorciare le distanze Cina-Europa, via terra e mare, attraverso l’infrastrutturazione dei territori/paesi intermedi. La Bri ha poi maturato obiettivi più ampi, tematici e geografici, puntando finanche, nel tempo lungo, a modificare alcuni aspetti dell’ordine economico internazionale.

Il progetto cinese è fondato su investimenti, commercio, crediti, procedure e uniformità di standard, mirando ad attirare in particolare, ma non solo, i paesi emergenti che oggi guardano soprattutto al Beijing consensus, la via cinese di uscita dal sottosviluppo, piuttosto che al Washington Consensus, la via neoliberista/americana, alla quale molte nazioni hanno sacrificato la sovranità politico/economica, senza raccogliere apprezzabili risultati.

I progetti Bri non vengono finanziati a dono dal sistema bancario (cinese e internazionale, tra cui la AIIB[14] e la Banca dei Brics). Un nodo da sciogliere resta dunque la sostenibilità economica di tali progetti, che devono generare risorse sufficienti a ripagare il debito.

Gli Stati Uniti hanno manifestato la loro contrarietà alla Bri sin dal suo sorgere, sebbene tale progettualità meritasse il plauso dell’intero pianeta, e in primis il sostegno delle Nazioni Unite: favorire l’uscita dei paesi poveri dall’arretratezza rafforza infatti, è quanto mai evidente, le prospettive di pace e stabilità nel mondo.

In tale contesto, il 23 marzo 2019, Italia e Cina sottoscrivono un accordo denominato “Memorandum d’Intesa sulla collaborazione nell’ambito della “via della seta economica” e della via della seta marittima nel 21° secolo[15], che sulla carta avrebbe dovuto porre le basi per una stretta collaborazione economica bilaterale. L’Italia, unico Paese G7 ad aver aderito a tale lungimirante strategia, avrebbe dovuto puntare non tanto alla riduzione del deficit commerciale (pure importante), quanto a creare le condizioni per una collaborazione industriale e di lungo respiro con la Cina, partendo dall’infrastrutturazione dei paesi intermedi tra Estremo Oriente ed Europa Occidentale (è questo, del resto, il senso della Belt and Road Initiative). Un obiettivo questo mai divenuto realtà, per inerzia, inadeguatezza e distacco da parte italiana. Del resto, alla luce delle critiche che la firma di tale Accordo aveva generato da parte di Stati Uniti e partner europei, l’MoU è stato vissuto dall’Italia come una colpa, invece che come una straordinaria opportunità per costruire una relazione privilegiata con l’universo Cina.

Non solo. Sebbene priva di reale sovranità, come già rilevato, l’Italia avrebbe potuto tuttavia utilizzare i pur esistenti spazi d’autonomia – trattando di temi economici/commerciali, privi di implicazioni politiche o militari, l’accordo non metteva certo in discussione lo schieramento strategico dell’Italia – per aprire una storica pagina d’innovazione geopolitica, a beneficio del nostro paese e dell’intero continente.

L’orizzonte sarebbe stato quello euroasiatico, ricco di opportunità, con l’intento di affiancarlo a quello euro-atlantico, non in chiave alternativa (e nemmeno complementare), ma supplementare, lasciando spazio a chiunque, compresi gli Usa, semmai avessero dismesso le vesti della sola nazione indispensabile al mondo (e del malato eccezionalismo di cui sono schiavi), tornando ad essere una nazione normale. Ciò avrebbe favorito pacificazione, sviluppo e collaborazione tra tutti i paesi/territori dell’Eurasia.

Un sogno, ne siamo convinti, poiché, come noto, la scelta dell’alleato atlantico è stata un’altra, cosicché il contesto geopolitico ha indotto l’attuale esecutivo, su pressioni Usa, a notificare al governo cinese, il 6 dicembre scorso, l’uscita definita dall’MoU.

Sorprende che l’accanimento Usa contro legittimi e innocui interessi italiani – il Pil dell’Italia è tuttora inferiore dell’1,7% rispetto al 2007, anno precedente la crisi Usa dei sub-prime, e sono trascorsi 16 anni da allora! – sia vissuto con inspiegabile disinvoltura da governo, accademia, comunità industriale e media, quando invece l’argomento dell’interesse nazionale sarebbe stato presumibilmente compreso e rispettato persino dagli Stati Uniti.

Una saggia soluzione alternativa cui Roma avrebbe potuto ricorrere sarebbe stato un aggiornamento/modifica dell’MoU, con l’inserimento di clausole vincolanti per la parte cinese su: a) lo squilibrio commerciale, attenuando semmai il crudo realismo di coloro che reputano che l’Italia del declino industriale non ha molto da offrire al sistema Cina; b) collaborazione infrastrutturale sulla Via della Seta, ignorando le intimidazioni dei cosiddetti paesi amici, ma mobilitando gli ambienti industriali e finanziari, oggi decisamente assonnati.

In un’ottica ideale, tenuto conto dei flussi, degli investimenti e della sofisticata tecnologia di cui oggi la Cina dispone, la cooperazione bilaterale dovrebbe svilupparsi sulle nuove tecnologie, l’automazione, l’ambiente, l’aerospazio, la sanità, l’agricoltura sostenibile, la mobilità, l’interconnessione, l’urbanizzazione innovativa e le smart cities, le nuove energie, la robotica, la ricerca applicata e altri settori di punta. La strada resta in salita, ma le prospettive decisamente attraenti.

Andrebbe da ultimo utilizzata con convinzione l’architettura istituzionale già esistente, tra cui il Comitato Governativo Cina-Italia, incaricato di coordinare soggetti pubblici e privati, il Business Forum, favorendo d’interazione diretta tra uomini d’affari dei due paesi e il Forum Culturale, prezioso strumento di collaborazione tra superpotenze della Cultura quali sono Italia e Cina, attivando le industrie creative, la scienza, il turismo, la produzione enogastronomica, gli scambi accademici e studenteschi.

L’uscita dall’MoU, secondo quanto è dato sapere, sarà ora compensata dalla riattivazione del cosiddetto partenariato strategico bilaterale (firmato nel lontano 2004, che a dispetto del nome ha avuto ben poco di strategico), anch’esso privo di impegni per le parti, ma formalmente più rassicurante, perché esterno al contesto Bri che tanto irrita l’alleato atlantico.

In definitiva, tale cancellazione non fa bene alle relazioni Italia-Cina, anche se Pechino non adotterà misure di ritorsione, ma conferma lo spirito di subordinazione del governo più sovranista che l’Italia abbia mai avuto.

Resta la plateale contraddizione di una nazione amica (gli Stati Uniti) che ostacola brutalmente gli interessi di un paese con un’economia media e sofferente (come già riportato, circa 80 mld di euro di interscambio), mentre il commercio Cina-Usa ha raggiunto nel 2022 i 690 miliardi di dollari (record storico), quello Cina-UE gli 856,7 miliardi di euro[16], quello Cina-Germania i 350/380 mld, quello Cina-Giappone i 400 mld di dollari[17] e in proporzione Corea del Sud, Australia e via dicendo.

Cina – Unione Europea

La Repubblica Popolare, oggi geo-politicamente appagata, militarmente protetta, geo-economicamente compiaciuta della sua interazione esterna e geo-culturalmente fiduciosa sul suo avvenire, si confronta con un’Europa in crisi identitaria, politica, economica e valoriale.

A partire da fine secolo – dopo aver aggiornato la nozione di Grande Potenza, alla luce dei cambiamenti intercorsi nel pianeta – la Cina ha cessato di annoverare i paesi europei in tale categoria, così come l’Unione Europea (UE) in quanto tale, che Pechino considera una costola muta dell’impero americano.

Fino alla caduta del Muro di Berlino la minaccia dell’Unione Sovietica aveva consentito all’Europa di passare sotto silenzio la sua sottomissione alla superpotenza atlantica con l’argomento auto-assolutorio della difesa della libertà. Con la fine del Patto di Varsavia il Vecchio Continente avrebbe potuto recuperare sovranità e dignità politica, se le sue classi dirigenti fossero state all’altezza dei tempi.

A ottant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, invece, gli Usa mantengono ancora il continente europeo sotto stretta sorveglianza, sterilizzando ogni ipotesi di un’Europa sovrana, semmai ve ne fossero le condizioni endogene, a loro volta – va detto – inesistenti. Non è un caso che l’UE sia priva di un governo, di un vero Parlamento e di una Banca Centrale che risponda a istituzioni democratiche. L’intangibile progetto di Federazione Europea – che lampeggia tuttora come un fuoco fatuo davanti agli occhi di masse sprovvedute, senza che alcun documento politico, dalla conferenza di Messina in avanti, l’abbia mai evocata – è solo il parto di uno scrittore di fantascienza, filiazione della mitologica invenzione di un popolo europeo. Gli stati non si costruiscono a tavolino. Essi sono il frutto di sedimentazioni storiche, linguaggio, costumi, sangue versato, guerre vinte o perse, caratteristiche economiche e sociali, e altro ancora, tutti fattori ineludibili dell’essenza di una nazione.

Se anche ipotetici governi nei paesi-guida (Germania e Francia), folgorati sulla via di Damasco, proponessero di oltrepassare la linea d’ombra – indicando un percorso davvero europeista (la Federazione Europea implica il trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli in ritardo) – è facile profezia che essi verrebbero spazzati via a furor di popolo.

In linea teorica, la Cina sarebbe entusiasta dell’esistenza di un soggetto che alla forza economica (di cui l’Europa è ancora dotata) potesse affiancare un’effettiva agibilità politica, irrobustendo quella dimensione multipolare delle relazioni internazionali che risponde ai suoi interessi. Si tratta però di un’ipotesi d’accademia, poiché quella entità non esiste in natura, non è prevista dai Trattati istitutivi ed è impedita dalle oligarchie dominanti (interne ed esterne alla UE) che ne verrebbero danneggiate.

Il declassamento del ruolo dell’UE da parte cinese è una novità relativamente recente. Esso prende avvio con il mandato di Jiang Zemin negli ultimi anni del secolo scorso, consolidandosi con Hu Jintao (2002-12), il quale, nella prospettiva di un mondo plurale, inizia a prestare maggior attenzione ai paesi emergenti e alle dinamiche multilaterali, trascurando una UE auto-riflessa e politicamente asservita a interessi altrui. In quegli anni, il Partito così sintetizza lo scenario internazionale: “le grandi potenze sono la chiave; i paesi limitrofi la priorità; quelli in via di sviluppo la base; le istituzioni multilaterali il palcoscenico”. Se fino ad allora l’Europa era considerata una delle chiavi, seppure in posizione ancillare rispetto agli Usa, essa viene ora declassata. Oggi, la sua irrilevanza è percepita ovunque: in Ucraina, Palestina, Iran, Siria, Yemen, Afghanistan, Corea del Nord e via dicendo la voce dell’Europa non è che un mormorio.

L’Unione resta però per la Cina un interlocutore importante per commercio, capitali, know how, tecnologia. Pechino è anche consapevole delle competenze dell’UE su accordi commerciali, procedure antidumping, status di economia di mercato e altro, e agisce con accortezza tra Bruxelles e le capitali in funzione dei suoi interessi.

Commercio e investimenti Cina-Unione Europea

Nel 2022, la Cina si è confermata un partner economico primario per l’Europa, attestandosi al secondo posto, con un interscambio di 856,7 miliardi di euro[18], poco meno di quello tra UE e Stati Uniti, al primo posto con 867,7 mld di euro[19]. Nel 2019, l’export UE verso la Cina rappresentava il 2,4 per cento del totale, quello verso gli Usa il 5,7 per cento. Da allora questi dati non sono cambiati di molto.

Il commercio UE-Cina resta poi al di sotto del suo enorme potenziale. Il mercato cinese assorbe un flusso ridotto di esportazioni europee. Nel 2022 l’UE ha esportato in Cina (1,42 miliardi di individui) appena il 23% in più rispetto a quanto esportato in Svizzera (che conta meno di 9 milioni di abitanti). Le importazioni dalla Cina hanno fatto registrare una crescita sostenuta (+30% in un anno, secondo Eurostat, 2022), ma le esportazioni verso la Cina sono aumentate solo di un misero 3%.

Nel 2022, nel commercio Cina-UE (su un totale di 856,7 mld di euro il deficit UE è stato di 395,7 miliardi), la Germania è il solo paese, se si esclude l’irrilevanteIrlanda (surplus di 776 milioni di euro), che registra un rapporto bilanciato con Pechino (236 mld di euro sulla carta e 24 mld di deficit, ma non meno di 350 mld e un sostanziale equilibrio se si includono i flussi che transitano per Hong Kong e Rotterdam). Non è un caso che la Germania imponga all’intera Unione Europea una China policy accomodante, in linea con i suoi interessi.

Quanto agli investimenti, quelli cinesi in Europa restano contenuti, solo il 5% del totale in entrata (200 mld circa), rispetto ai 1.800 mld degli Stati Uniti (anno 2020). 

Negli ultimi anni, poi, è emersa una diversa percezione del mercato cinese da parte delle aziende europee[20], le quali un tempo adottavano le decisioni d’investimento escludendo il rischio politico, che oggi invece incombe sulla catena di approvvigionamento. 

In assenza di un’autonoma strategia UE e prive di sostegno politico, cresce l’inquietudine di tali imprese che valutano sempre più la possibilità di dislocare gradualmente i loro investimenti su altri mercati.

Alla fine del 2022, lo stock cumulato (nei 20 anni precedenti) d’investimenti europei in Cina ammontava a 160-170 miliardi di euro: si tratta del medesimo ammontare che le imprese UE investono negli Stati Uniti ogni 12 mesi!

Gli investimenti esteri verso la Cina sono cresciuti per anni alla luce di un contesto stabile e privilegiato. Oggi, sebbene sulla carta il paese rimanga una grande opportunità, sono emersi nuovi interrogativi, la sfida tecnologica, l’enfasi sui temi della sicurezza, la priorità Usa sul contenimento e via dicendo, che hanno modificato lo scenario. La maggior parte delle imprese presenti in Cina mantiene le posizioni, ma non intende pianificare altri investimenti, mentre un numero crescente di esse valuta altri mercati, dove i costi sono minori e il rischio politico assente[21].

Le ripercussioni di tutto ciò si fanno sentire anche sugli investimenti cinesi in Europa, area verso la quale un tempo la Cina nutriva preferenza rispetto agli Stati Uniti, assai precoci in tema di politicizzazione. Ora, però, a partire dal 2019[22], anche la Commissione Europea ha introdotto meccanismi di monitoraggio che autorizzano i paesi membri ad ostacolare gli investimenti stranieri in entrata (e dunque anche cinesi) che beneficiano di aiuti di stato o che costituiscano un pericolo per la sicurezza nazionale.

L’Accordo Cina-UE sulla protezione degli investimenti

Nel dicembre del 2020, dopo un annoso negoziato, Cina e Commissione UE hanno siglato in linea di principio il cosiddetto Accordo sulla Protezione degli Investimenti[23], con l’impegno per una pronta ratifica nei mesi successivi.

Negli auspici europei, l’Accordo avrebbe dovuto aprire la strada a una forte crescita dei flussi commerciali, al loro graduale riequilibrio e a un’ulteriore integrazione dei sistemi produttivi. Va rilevato che il testo, di forte impronta liberista come del resto l’insieme dell’impalcatura UE, tutela soprattutto gli interessi delle economie nordeuropee. Se ad esso farà seguito in futuro, secondo alcune indiscrezioni, un testo ancor più assertivo in tema di libero commercio, con la rimozione delle residue barriere a tutela dei settori industriali esposti, i danni per il sistema produttivo europeo nei comparti ancora parzialmente tutelati (per l’Italia acciaio, quel che rimane del tessile, l’elettronica e altre nicchie produttive) saranno ancor più profondi.

Il testo concordato, tuttavia, non ha avuto l’evoluzione attesa. Dal marzo 2021 una serie di impedimenti ostacola l’iter di ratifica e la sua entrata in vigore è al momento in forte discussione.

All’atto della firma (dicembre 2020), gli Stati Uniti (al presidente uscente D. Trump aveva fatto eco il subentrante J. Biden) criticano veementemente l’accordo, con il pretesto che esso non affronta adeguatamente la problematica del lavoro forzato in Cina. Nel marzo successivo, l’UE sanziona quattro funzionari cinesi presuntamente coinvolti nella gestione di campi di lavoro nella provincia cinese dello Xinjiang. Quale misura di ritorsione, Pechino impone restrizioni a quattro entità e dieci funzionari UE, di cui cinque membri del Parlamento europeo, spingendo Bruxelles, nel maggio 2021, a sospendere sine die la procedura di ratifica.

Il conflitto in Ucraina che prende avvio il 24 febbraio 2022 porta altre nubi nel cielo delle relazioni Bruxelles-Pechino e della possibile finalizzazione dell’accordo, alla luce della indisponibilità cinese ad aderire alle sollecitazioni occidentali (Ue e Usa) di intervenire sul governo di Mosca. A tale quadro si somma la decisione di Pechino di sanzionare la Lituania per aver consentito l’apertura di ufficio diplomatico taiwanese a Vilnius. Il 24 marzo 2021, il commissario europeo al commercio, V. Dombrovskis, dichiara quindi: “il processo di ratifica non può essere separato dall’evoluzione dell’insieme delle relazioni UE-Cina”, occultando tuttavia le forti pressioni Usa. Con l’uscita di scena in quell’anno della cancelliera Angela Merkel, principale sostenitrice dell’accordo e della tutela delle buone relazioni Germania-Cina, il menzionato accordo è giunto a un punto morto. La sua possibile ratifica dipenderà pertanto dall’evoluzione del contesto geopolitico, in particolare delle relazioni Cina-Usa, le quali al momento non incoraggiano alcun ottimismo in termini di distensione e riconciliazione.


[1] Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, più (dal 1 gennaio 2024) Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arati Uniti, Egitto, Etiopia, Iran (altri 16 paesi hano chiesto di aderire, Alberia, Bangladesh, Bahrein, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Honduras, Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Nigeria, Palestina, Senegal, Thailandia, Venezuela, Vietnam

[2] Shanghai Cooperation Organization  

[3] Regional Cooperation Economic Partnership

[4]https://contropiano.org/news/politica-news/2020/01/08/in-italia-ci-sono-decine-di-bombe-atomiche-pochi-lo-sanno-e-chi-sa-tace-0122697;https://www.tpi.it/esteri/bombe-nucleari-usa-italia-dati-documenti-20190717372685/https://www.voltairenet.org/article164892.html; https://cnduk.org/resources/united-st ates-nuclear-weapons-europe/

[5] L’Italia è a tutti gli affetti pratici un protettorato Usa, le cui truppe la occupano da oltre 78 anni, impedendole di eleborare un’autonoma azione politica, se non in linea con gli interessi degli Stati Uniti

[6]https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics#Trade_with_China_by_EU_Member_State

[7] Anche qui l’approsimazione dei dati è dovuta alle merci che transitano nei porti di Rotterdam e Hong Kong, i cui flussi vengono conteggiati, rispettivamente, nel commercio Cina-Olanda e Italia-Hong Kong. Nell’interscambio Ue-Cina, l’Italia occupa la quarta posizione come paese esportatore (dopo Germania, Regno Unito e Francia) e importatore (dopo Olanda, Germania e Regno Unito). La posizione apicale dell’Olanda nell’import di prodotti cinesi è dovuta ai container che giungono a Rotterdam e poi redistribuiti su tutto il continente. Solo in Italia arriverebbero dal porto olandese oltre due milioni di container ogni anno.

[8] L’export italiano in Cina è rappresentato per i 4/5 da beni strumentali, mentre le note tre effe (fashion, food, forniture) non coprono più del 15% del totale, a dimostrazione che l’industria meccanica (o quel che ne resta) rappresenta tuttora il perno dell’export italiano, godendo dell’apprezzamento cinese per qualità e competitività internazionali.

[9] https://forbes.it/2019/03/09/via-della-seta-quanto-investe-davvero-la-cina-in-italia/

[10] Tali investimenti sono concentrati per lo più in Lombardia, Lazio, Piemonte, Veneto, Trentino-Alto Adige, riguardano i settori high tech, manifatturiero ed energetico e sono riconducibili alle seguenti tipologie:

 – partecipazioni in aziende quotate (intorno al 2%): Eni, Enel, Prysmian, Fca, Telecom, Generali, Saipem, Intesa San Paolo, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, Mediobanca, e Atlantia/Autostrade (quest’ultima al 5%).

 – acquisti di titoli del debito pubblico italiano, il cui ammontare è stimato intorno ai 20 mld di euro, investimenti di natura speculativa e precari per definizione;

 – investimenti volti ad acquisire tecnologia: Pirelli, Cifa, Ferretti, Parmeestelisa, Krizia, Benelli, Salov, LFoundry, 35% di Reti Snam/Terna di CDP (da parte di State Grid of China), Shanghai Electric 40% di Ansaldo Energia e altri minori;

 – investimenti greenfield: pochissimi, in pratica Huawei a Segrate e il centro design per auto a Torino;

 – alcune squadre di calcio (Inter e Milan…).

[11] https://tradingeconomics.com/china/foreign-exchange-reserves

[12] Oggi, dunque, i porti di Genova e Trieste potranno attirare qualche limitato investimento cinese, ma nel Mediterraneo l’hub di riferimento la Cina l’ha da tempo acquisito, investendo 800 milioni di euro nel porto di Atene-Pireo. Quel treno l’Italia l’ha perso per sempre, non essendo riuscita (nei primi anni 2000, con i governi Berlusconi, Prodi e altri) a costruire una proposta viabile per gestire le merci cinesi in arrivo nel Mare Nostrum.

[13] Il 5 agosto 2011 (Governo Renzi-Guidi), il 35 per cento di CDP Reti, società che controlla le reti di trasmissione nazionale, viene venduto da Cassa Depositi e Prestiti a State Grid Europe ltd, società con base a Londra, controllata della State Grid Investment Development LLC, con base a Hong Kong, posseduta a sua volta dalla statale State Grid Corporation. Non si tratta di partecipazione finanziaria, ma di diritto di proprietà su un asset di valenza strategica. Oggi, State Grid dispone anche della facoltà di vendere le sue quote a concorrenti diretti, con uno sbilanciato diritto di prelazione di CDP da esercitare entro sessanta giorni alle condizioni e prezzo del possibile acquirente.

[14] Asian Infrastructural Investment Bank

[15]https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Memorandum_Italia-Cina_IT.pdf

[16]https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics

[17] https://www.mofa.go.jp/region/asia-paci/china/data.html

[18]Il commercio https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=China-EU_-_international_trade_in_goods_statistics L’interscambio UE-Cina ha superato nel 2022 856,7 mld di euro, con un disavanzo europeo di circa 395,7 mld. Nel commercio con Pechino, quasi tutti i paesi soffrono disavanzi in proporzione. La Germania (per la quale la Cina è il primo partner commerciale in assoluto) soffre sulla carta un deficit di 23 mld circa, con un interscambio sempre sulla carta di 237 mld. Tuttavia, se si considerano i flussi che transitano per Rotterdam e HK il comemrcio bilaterale raggiunge i 320/350 e il disavanzo tende ad azzerarsi.

[19] Il commercio Stati Uniti-UE è stato nel 2022 di 867,7 mld di euro, con import di 358,4 e export per 509,3 mld, e dunque con un avanzo di 150,9. https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=USA-EU_-_international_trade_in_goods_statistics

[20] https://www.friendsofeurope.org/insights/eu-china-trade-and-investment-unbalanced-and-well-below-potential/

[21] https://www.friendsofeurope.org/insights/eu-china-trade-and-investment-unbalanced-and-well-below-potential/

[22] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_19_2088

[23] Il testo punta a facilitare il rispetto dell’accordo di Parigi e la ratifica cinese delle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sul lavoro forzato, attraverso un meccanismo di monitoraggio. Rafforza l’apertura dei mercati e un’economia aperta tra Cina e UE. Proibisce trasferimenti forzati di tecnologia a società cinesi, interferenze statali sulle licenze tecnologiche. Rafforza la protezione delle informazioni sensibili, la tutela della proprietà intellettuale e dei segreti commerciali. Migliora la trasparenza sui sussidi alle imprese, grazie all’estensione delle discipline dell’Omc per i beni industriali e i servizi. È prevista l’apertura al mercato di una lista di nuovi prodotti, l’eliminazione di restrizioni quantitative, di limiti di capitale o altri requisiti nelle imprese miste. Nel settore automotive, la Cina rimuove gradualmente i requisiti sulle imprese miste e garantirà l’accesso al mercato ai veicoli non inquinanti. Quanto alla finanza, Pechino s’impegna a liberalizzare alcuni settori e aprirli a investitori UE. Vengono rimosse le restrizioni alle imprese miste e nelle attività bancarie, nella negoziazione di titoli, assicurazioni, riassicurazioni e gestioni patrimoniali. Nel comparto salute, verranno elimintte le restrizioni agli investimenti negli ospedali privati di diverse città, tra cui Shanghai, Pechino, Tianjian, Guangzhou e Shenzhen. Nella ricerca e sviluppo (risorse biologiche), Pechino accetta di cancellare gradualmente le attuali restrizioni. Gli investitori UE potranno investire nei servizi cloud fino al 50%, mentre i servizi informatici verranno gradualmente aperti al mercato, ma senza precisi impegni di tempo, inclusa una clausola di “neutralità tecnologica”, secondo la quale i limiti di capitale non verranno applicati alla finanza, logistica e medicina, se offerti online. Nel trasporto marittimo, la Cina consentirà alle imprese UE di investire senza restrizioni nella movimentazione merci, depositi, stazionamenti di container e agenzie marittime, aprendo il mercato al trasporto multimodale, compreso il territorio nazionale del trasporto marittimo. Pechino eliminerà i requisiti restrittivi sui servizi immobiliari, di noleggio e leasing, riparazione e manutenzione per trasporti, pubblicità, ricerche di mercato, consulenza gestionale e servizi di traduzione, servizi ambientali, fognature, abbattimento acustico, smaltimento dei rifiuti solidi, pulizia dei gas di scarico, protezione dell’ambiente, servizi igienico-sanitari. Sul tema dei sussidi pubblici, viene istituito un meccanismo di consultazione, senza pregiudicare la possibilità di misure autonome di distorsione. Le imprese pubbliche cinesi s’impegnano a operare sulla base di regole commerciali e a rispettare la trasparenza.

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