intervista di Patrizia
Cecconi ad Angelo Stefanini, già direttore dell’OMS
per i Territori Palestinesi Occupati
Angelo Stefaninii medico, accademico, fondatore
del Centro di Salute Internazionale e già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi
Occupati, il 20 febbraio ha partecipato a un convegno a Palazzo d’Accursio a
Bologna che aveva per tema il cessate il fuoco a Gaza. La Comunità ebraica e
altre associazioni di italiani di religione ebraica hanno protestato vivamente
perché hanno ritenuto lesiva della libertà di uccidere di Israele la richiesta
di cessare il fuoco.
Il convegno si è comunque svolto e l’intervento del professor Stefanini,
inerente l’ambito sanitario, è risultato pari a un pugno nello stomaco per
chiunque abbia una coscienza e, con essa, una sensibilità umana e il necessario
senso critico per interpretare la realtà nonostante la vergognosa manipolazione
mediatica. La relazione di Stefanini aveva per titolo “Gaza: la guerra agli
ospedali” e, a distanza di un mese, abbiamo deciso di intervistarlo proprio sul
contenuto di quella relazione che, per quanto scioccante, risulta meno grave di
quanto successo in seguito come se, avendo testato la possibilità di agire
impunito, Israele avesse scientemente deciso di non avere più limiti nel
procedere allo sterminio indisturbato di decine di migliaia di civili,
utilizzando anche armi fornite dai paesi che, con disgustosa ipocrisia, mentre
lo riforniscono di strumenti micidiali, lo invitano ad ammazzare “un po’ di
meno”.
Col professor Stefanini ci siamo conosciuti alcuni anni fa proprio nella
Striscia di Gaza dove, con funzioni diverse, seguivamo l’équipe
cardio-chirurgica del dr. Luisi del PCRF che operava i bimbi con seri problemi
cardiaci che non potevano uscire dalla Striscia di Gaza sotto l’assedio
israeliano, ora sotto le bombe o sotto le macerie.
Nel tuo intervento, tra l’altro, scrivi: “Il bombardamento dell’ospedale
arabo di Al-Ahli il 18 ottobre… è stato da alcuni visto come un test per
sondare la risposta internazionale agli inaccettabili attacchi alla sanità di
Gaza”. Il 18 ottobre erano passati appena dieci giorni dall’inizio della guerra
contro la resistenza e i civili palestinesi. Credi davvero che quello sia stato
un test?
Considerato che questo caso è stato seguito, il 31 ottobre, dal
bombardamento dell’unico ospedale oncologico, il Turkish-Palestinian Friendship
Hospital e il 10 novembre dall’ospedale specialistico pediatrico Al Rantisi,
appare chiaro che questi importanti centri di cura non sono stati colpiti a
caso, bensì intenzionalmente come bersaglio simbolico allo scopo di distruggere
i gangli più sensibili di sopravvivenza, i più vulnerabili del sistema. La
violenza nei conflitti armati contro l’assistenza sanitaria è ormai un fenomeno
molto diffuso in tutto il mondo. L’anno 2022 registra il triste record di 1.989
attacchi contro strutture sanitarie, il 45 per cento in più rispetto al 2021, e
il numero totale peggiore da quando la Coalizione per la tutela della salute
nei conflitti ha iniziato il suo macabro conteggio. Nella Striscia di Gaza non
è una novità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nei
conflitti del 2008-2009, 2012 e 2014, sono state gravemente danneggiate o
distrutte più di 200 strutture sanitarie e più di 150 ambulanze, oltre 30 operatori
sanitari uccisi, più di 175 feriti. Il sistema sanitario di Gaza non si è mai
completamente ripreso.
Già, nella Striscia di Gaza non è una novità. Da un sondaggio
approssimativo è venuto fuori che molte persone – non interessate alla
Palestina, ma semplici telespettatori – hanno notato il doppio standard con cui
i media trattano le due guerre al momento più considerate, con un’attenzione
empatica molto forte per l’Ucraina, sia verso il popolo che verso l’esercito;
mentre nei confronti di Gaza, se i cronisti mostrano empatia la mostrano solo
verso gli israeliani e addirittura, mettono in dubbio lo spaventoso ammontare
dei morti e dei feriti palestinesi nonostante le immagini delle distruzioni
parlino da sé.
In termini comparativi, confrontando le due guerre citate, nei due mesi che
vanno dal 7 ottobre al 9 dicembre 2023, gli operatori sanitari palestinesi
uccisi nella Striscia di Gaza sono stati 286, cioè oltre tre volte di più di
quelli ucraini (78) uccisi nell’intero anno 2022. E mi sono fermato al 9 dicembre,
ma sappiamo che la mattanza è continuata, e con maggiore intensità, con
sanguinosi attacchi a tutti gli ospedali.
In questi giorni, quel che sta succedendo allo Shifa Hospital dovrebbe
sollevare lo sdegno e l’ira di tutte le istituzioni internazionali ma queste,
al contrario, o tacciono o tutt’al più pigolano. Peggio ancora fanno vari
governi, tra cui quello italiano, che senza un residuo di pudore, ripetono
l’inaccettabile narrazione israeliana e dichiarano il loro immutabile sostegno
a Israele.
Vedi, io sono un medico e non è mio compito entrare in questioni politiche,
però posso dire che a febbraio l’ultimo ospedale ancora funzionante pienamente
come tale, l’ospedale Nasser, il secondo più grande nella Striscia di Gaza, è
stato messo completamente fuori servizio. Un numero imprecisato di pazienti è
morto per mancanza di elettricità e interruzione dei respiratori e delle
incubatrici. Il portavoce del Ministero della Sanità di Gaza, ha affermato che
l’ospedale è stato trasformato dall’IDF in “una caserma militare”. Nel periodo
compreso tra il 7 ottobre 2023 e l’11 febbraio 2024, sono stati 30 gli ospedali
messi totalmente fuori servizio; quelli minimamente funzionanti ridotti a
“ambulatori di pronto soccorso”; 53 centri sanitari demoliti e 150 danneggiati;
123 ambulanze completamente distrutte; 340 operatori sanitari uccisi e 99
arrestati. Questo solo fino all’11 febbraio e oggi siamo al 22 marzo e la
situazione è ancora peggiore.
Perché questo accanimento contro i servizi sanitari?
Perché gli attacchi ai servizi sanitari non solo colpiscono direttamente il
personale, ma anche l’intera popolazione che dipende da loro per l’assistenza
sanitaria. Sotto una pioggia di bombe, attualmente la Striscia di Gaza ospita
una popolazione di ammalati e o bisognosi di cure composta da: 10.000 malati di
cancro senza accesso ai farmaci, 350.000 con malattie cardiovascolari e diabete
privi di farmaci; oltre 218.000, metà dei quali bambini sotto i cinque anni,
con varie forme di diarrea dovuta prevalentemente alla situazione igienica e
nutrizionale attuale; circa 50.000 donne incinte senza accesso all’assistenza
sanitaria, circa 183 bambini che nascono ogni giorno e oltre 5.000 nati il mese
scorso, tutti bisognosi di cure e nutrizione adeguate; 388.000 casi di malattie
respiratorie acute, 8.000 casi di infezione da epatite virale, 55.000 con
pidocchi e scabbia, 42.000 forme varie di infezioni cutanee. La violenza,
inoltre, distrugge i servizi sanitari proprio nel momento in cui sono più
necessari. Basti pensare alle ferite non medicate che si infettano, ai tagli
cesarei e alle amputazioni senza anestetici o antidolorifici.
Un’informazione onesta dovrebbe fornire questi dati, invece le nostre TV, e
parlo di TV perché è la comunicazione televisiva quella che maggiormente “crea”
la pubblica opinione, evita accuratamente di farlo e qui si torna al doppio
standard di cui anche i meno attenti si sono resi conto. Come si può far
intendere all’opinione pubblica l’entità non solo numerica ma anche volutamente
disumana di questo sterminio?
Il chirurgo della Croce Rossa Internazionale Tom Potokar così messaggiava
il mese scorso dall’European Gaza Hospital di Khan Younis: “Se potessi portare
qui una persona che ha dubbi, e metterla qui, e farle sentire l’odore della
carne in decomposizione, vedere i vermi che strisciano dalle ferite di una
persona che ha la carne necrotica e sentire le urla dei bambini perché non c’è
abbastanza antidolorifici, e vogliono la loro mamma, che non c’è perché è morta
– credo che le persone potrebbero pensarla un po’ diversamente”.
Il Diritto internazionale non dovrebbe impedire questo accanimento contro i
servizi sanitari?
Naturalmente i servizi sanitari sono protetti dal Diritto Internazionale.
Secondo la IV Convenzione di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, la Risoluzione
2286 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2016, l’articolo 8
dello Statuto di Roma (che ha istituito la Corte penale internazionale), le
strutture e il personale sanitario non possono essere attaccati a meno che
vengano utilizzate per commettere un “atto dannoso per il nemico”. In caso di
dubbio, si presume che NON vengano utilizzate a tale scopo. Se pure un ospedale
perdesse il suo status protetto, dice il Diritto internazionale, qualsiasi
operazione militare deve adottare misure per proteggere i pazienti, il
personale e gli altri civili.
Sembra che per Israele viga un diritto di eccezione anche in questo. Lo
aveva già mostrato nelle aggressioni precedenti, in particolare in “margine
protettivo” e in “piombo fuso” ma ora sembra aver raggiunto l’inimmaginabile,
soprattutto per uno Stato che viene considerato democratico.
Secondo il chirurgo britannico-palestinese Dr Ghassan Abu Sitteh, rientrato
dopo 43 giorni di sala operatoria a Gaza, e con l’esperienza professionale
delle guerre precedenti, in termini quantitativi la differenza che esiste tra i
precedenti attacchi israeliani a Gaza e quello in corso è quella esistente tra
semplici inondazioni e uno tsunami. Nel caso attuale, inoltre, è importante
notare che il bersaglio dei bombardamenti non è rappresentato da singoli,
specifici edifici, ma da interi quartieri. La novità decisamente più rilevante
è comunque che il riemergere della accusa israeliana ai tunnel e agli ospedali
che nasconderebbero armi e centri di comando di Hamas ha reso evidente la
decisione di Israele di prendere di mira il settore sanitario, comprese le
ambulanze. Infatti il 3 novembre 2023 viene colpito un convoglio di ambulanze
in partenza dall’ospedale al-Shifa, il più grande ospedale pubblico dell’intera
Palestina occupata, con 15 persone uccise e decine ferite. L’ospedale viene in
seguito circondato e bloccato e al suo interno le forze di occupazione
israeliane prendono di mira le parti più critiche e vulnerabili, come
l’ossigeno delle incubatrici e il sistema di riscaldamento elettrico. Il Dr.
Abu Sitteh chiama questo comportamento “violenza performativa”, una violenza
che “non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza effettivamente il
compimento”, e che lancia un messaggio scioccante su quanto Israele intende
fare. I corpi dei bambini prematuri tenuti in mostra di proposito, privati
della protezione salvavita delle incubatrici, hanno lo stesso significato:
fanno parte del carattere performativo della violenza israeliana.
Questa “violenza performativa” quindi rappresenta una disumanità non
casuale o mezzo militare necessario, ma una crudeltà preordinata e già fine in
sé stessa?
Chi sta sul campo, come il dr. Abu Sitteh, ritiene che sia così. Esaminiamo
ad esempio il tipo di ferite, è un aspetto che merita approfondimento e non
soltanto dal punto di vista medico perché le ferite che gli operatori sanitari
incontrano quotidianamente aiutano a far luce sul genere di violenza che
colpisce la popolazione di Gaza.
Ustioni estese oltre il 50% della superficie corporea con assenza
significativa di altre ferite, che indicano l’uso di bombe incendiarie senza
frammenti o schegge, un tipo di arma ideata per incendiare o distruggere con il
fuoco.
Ustioni da fosforo bianco molto distintive perché caratterizzate da ferite
che sprigionano del fumo bianco. Il fosforo bianco è un combustibile solido che
in presenza di ossigeno prende fuoco spontaneamente; si spegne solo quando è
privato totalmente di ossigeno o se è consumato del tutto. A contatto con pelle
esposta, produce ustioni chimiche dolenti necrotiche, a tutto spessore, dovute
alle due componenti, la chimica e la termica. Poiché il fosforo bianco ha
un’elevata solubilità nei grassi, le ferite si estendono spesso in profondità
nei tessuti sottostanti, con il risultato, quando non di lenta morte, di un
ritardo nella guarigione della ferita. Il fosforo bianco può essere anche
assorbito da tutto il corpo, con effetti sistemici su sangue, reni, fegato e
cuore.
Orribili amputazioni, come da ghigliottina, dovute alle bombe sperimentate
e utilizzate per la prima volta sull’Al-Ahli Hospital, una nuova generazione di
missili R9X Hellfire di produzione statunitense noti anche come “Ninja missile”
munito di lame rotanti che vengono scagliate tutto intorno al momento
dell’esplosione.
Quindi se all’ospedale Al Ahli, sono state usate queste armi, la
controversia sulla responsabilità del bombardamento di quel primo ospedale
dovrebbe essere chiarita e l’ipotesi che sia stato un test prende ancora più
forma.
Il fatto incontestabile è che colpire il settore sanitario con tale
intensità e risonanza emotiva fa supporre l’esistenza di una strategia volta a
smantellare tutte le necessità della vita e, per alcuni, è la dimostrazione
dell’intenzione genocidaria di chi la persegue. Dalla distruzione dei sistemi
fognari, degli impianti di desalinizzazione dell’acqua, degli impianti di
energia solare e dei panifici, al prendere di mira ambulanze ed équipe mediche,
l’uccisione intenzionale di centinaia di medici, paramedici e infermieri,
questi attacchi contribuiscono agli sforzi israeliani volti a infliggere un
disastro di un tale impatto da portare avanti il progetto di pulizia etnica
anche dopo la fine della guerra. Si tratta di una vera e propria guerra
psicologica attraverso le sofferenze dei corpi, è la psy war o, più
comunemente, propaganda, ossia “un’azione praticata con metodi psicologici per
evocare in altre persone una predeterminata reazione psicologica”. La
distruzione di strutture essenziali può avere un impatto devastante sul morale
e lo stato d’animo della popolazione.
Quindi anche il diffondersi di malattie può rappresentare una strategia
voluta?
Per secoli le malattie hanno avuto un importante ruolo nella guerra; le
organizzazioni internazionali stanno cercando di lanciare l’allarme su questa
situazione. L’Unicef ha avvertito: “La mancanza di acqua, cibo, medicine e
protezione è una minaccia più grande delle bombe per la vita di migliaia di
persone a Gaza”. La portavoce dell’OMS ha avvertito che i tassi di diarrea tra
i bambini, già all’inizio di novembre, erano più di cento volte i livelli
normali. Il 16 febbraio, l’UNFPA ha evidenziato che in tutta Gaza sono stati
segnalati 500.000 casi di malattie trasmissibili, tra cui meningite e diarrea
acuta. Sottolineando gli immensi rischi che corrono le donne incinte a Gaza,
l’UNFPA ha avvertito: “Se le bombe non uccidono le donne incinte, se le
malattie, la fame e la disidratazione non le raggiungono, il semplice parto
potrebbe farlo”.
Ci si aspetta una forte crescita del tasso di mortalità?
Si stima che i tassi grezzi di mortalità (cioè il numero di morti ogni
1.000 persone per anno) sono in media più di 60 volte più alti rispetto a
quando è iniziato ogni conflitto. Estrapolando questo dato alla situazione
attuale a Gaza, dove il tasso di mortalità prima del conflitto era di 3,82 per
mille nel 2021 (relativamente basso a causa della sua giovane popolazione), i
tassi di mortalità potrebbero raggiungere 230 per mille nel 2024 se gli
abitanti di Gaza continuano a non avere accesso a servizi igienico-sanitari,
strutture mediche e alloggi permanenti. Insomma, ci troviamo di fronte alla
prospettiva che quasi un quarto dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza – quasi
mezzo milione di esseri umani con un proprio nome, un proprio volto, una
propria storia – muoia entro un anno. Si tratterebbe di un “eccesso in
mortalità” in gran parte dovuto a cause sanitarie prevenibili e al collasso del
sistema sanitario. Secondo la Prof Devi Sridhar dell’Università di Edimburgo,
“Si tratta di una stima approssimativa, ma basata sui dati, che utilizza il
numero spaventosamente reale di morti in conflitti precedenti e comparabili”.
Il deliberato attacco alle infrastrutture sanitarie, la scarsità di forniture
mediche e di carburante e il mancato accesso ai beni di prima necessità (tra
cui acqua, cibo e aiuti vitali) sono tutti mezzi attraverso i quali
l’annientamento dell’intero sistema sanitario di Gaza viene utilizzato come
arma di guerra per amplificare la portata delle perdite umane inflitte ai
civili nella Striscia. Non solo, ma questa guerra dimostra il sostegno della
società israeliana a una “soluzione finale” per la questione palestinese, prima
provocando morte edistruzione, poi sfollando i sopravvissuti, quello che
secondo la Corte Internazionale di Giustizia potrebbeconfigurarsi come
genocidio.
Un genocidio, o un orrendo sterminio di civili attuato con un comportamento
definibile violenza performativa esercitata su un popolo che chiede il suo
diritto all’autoderminazione?
Sì, sono i fatti a dimostrarlo.
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