Nonostante la censura, molti analisti e soggetti politici stanno da tempo prendendo posizione contro gli attuali conflitti, che potrebbero sfociare nell’“ultima guerra mondiale”. Purtroppo, essi non si pongono spesso il problema del perché questo sistema economico e sociale inevitabilmente genera guerre e conflitti, finendo col sostenere un astratto e inefficace pacifismo.
Nel panorama
politico e mediatico internazionale appaiono, ormai da tempo insieme ai
propagandisti di regime, molti soggetti che prendono posizione contro la guerra
in Ucraina, contro il genocidio di Gaza, contro lo smisurato incremento delle
spese per le armi, sempre più sofisticate. Pur apprezzando, con qualche
distinguo, questa posizione politica, vorremmo qualcosa di più. In particolare
urge comprendere perché, sempre più, le questioni internazionali si risolvano
con la violenza, demonizzando nella forma più semplicistica e grottesca gli
avversari, e adoperandosi per persuadere le masse, ormai inerti e quasi
rassegnate, alla necessità della guerra, magari non più diretta dagli Stati
Uniti ma portata avanti da un “finalmente autonomo” esercito europeo. A questo
scopo l’Ue dovrà dotarsi di forze di intervento rapide, dei migliori armamenti
disponibili sui mercati, di strumenti informatici e tecnologici avanzatissimi,
ricorrere all’intelligenza artificiale e ai sistemi tecnologici guidati a
distanza. E probabilmente la guerra diventerà ancora più spietata.
Questi
aspetti sono documentati dagli ultimi dati, forniti dal Sipri (Stockholm
International Peace Research Institute), i quali attestano una riduzione della
spesa sociale nei paesi Ue e, allo stesso tempo, il potenziamento della ricerca
a fini di guerra e della spesa militare nel suo complesso.
Citiamo
testualmente un passaggio tratto dall’ultimo rapporto
Sipri:
“Gli Stati
europei hanno quasi raddoppiato le loro importazioni di armi principali (+94%)
tra il 2014-18 e il 2019-23. Nel 2019-2023, volumi maggiori di armi sono
affluiti verso l’Asia, l’Oceania e il Medio Oriente, dove si trovano nove dei dieci
maggiori importatori di armi. Gli Stati Uniti hanno aumentato le esportazioni
di armi del 17% tra il 2014-2018 e il 2019-23, mentre le esportazioni di armi
della Russia si sono dimezzate a causa della guerra e delle sanzioni… Il 55%
delle importazioni di armi da parte degli stati europei che sono state fornite
dagli Stati Uniti nel 2019-2023 ha rappresentato un aumento sostanziale
rispetto al 35% nel 2014-2018. I successivi maggiori fornitori della regione
sono stati Germania e Francia, che rappresentavano rispettivamente il 6,4% e il
4,6% delle importazioni. Tuttavia, globalmente il volume del trasferimento di
armi è leggermente diminuito.”
Un altro
elemento importantissimo presente nell’attuale scenario internazionale è
rappresentato dai fenomeni recessivi che si palesano con forza nei paesi
europei. L’Ue si è trovata nelle condizioni di dover riscrivere il Pnrr (Piano
nazionale ripresa e resilienza) nell’autunno 2023 a causa delle ripercussioni
negative della guerra in Ucraina sulla sua economia. Infatti, l’acuirsi della
conflittualità internazionale, dopo il difficile periodo pandemico, ha generato
tensioni nel mercato delle materie prime e problemi nelle catene di
approvvigionamento. E certamente, secondo molti economisti, anche a causa delle
masochistiche sanzioni alla Russia delle quali invece hanno beneficiato gli
Stati Uniti.
La
riscrittura del Pnrr è stata la conseguenza dell’aumento dei costi, dei ritardi
causati dai problemi sopra menzionati, che hanno rallentato la realizzazione
dei progetti o addirittura l’irraggiungibilità degli obiettivi. Pertanto, la
guerra in Ucraina ha inferto un duro colpo all’economia del vecchio continente,
costringendola a rivedere i piani nazionali secondo una nuova direttiva
comunitaria rivolta a favorire l’approvvigionamento energetico, la
robotizzazione, la digitalizzazione, l’economia Green; finalità che, secondo
alcuni, l’Ue stenterebbe a perseguire.
Il
rallentamento o la stagnazione dell’economia europea erano già visibili da
tempo; in un suo documento la Banca europea indica esplicitamente di
possibilità di recessione nel 2024, da parte sua la Commissione europea ha
tagliato le previsioni crescita del Pil e molti specialisti parlano di
recessione tecnica del vecchio continente e in particolare della Germania. Emblematici,
per esempio, sono i risultati semestrali dell’industria chimica e farmaceutica
tedesca con un calo produttivo del 10,5% rispetto all’anno precedente e il 77%,
delle capacità produttive non completamente utilizzate. A ciò si aggiunge la
crisi demografica causata dalla vorticosa riduzione della natalità e dal
conseguente aumento della popolazione anziana non più in grado di lavorare (da
notare come la crisi demografica abbia spinto negli anni anche a innalzare
l’età pensionabile nei vari paesi Ue per ridurre la spesa pubblica).
Tornando
alla guerra in Ucraina, più che analizzarla come conseguenza dell’espansionismo
russo (le cause reali sono ben diverse da quelle apparenti come scriveva uno
storico della Grecia classica oltre 2000 anni fa), urge ricordare che essa è il
prodotto dell’espansione della Nato a oriente e dell’antico progetto
statunitense, da un lato, di impedire la saldatura tra l’economia russa e
quella europea (soprattutto tedesca), che sarebbe stata vantaggiosa per
entrambe, dall’altro di disintegrare la Russia per appropriarsi delle sue
straordinarie risorse. Molti analisti hanno considerato un vero e proprio
suicidio la scelta delle élite europee di far propri gli obiettivi
dell’aggressivo paese nordamericano, ma ci chiediamo se le analisi possano
ridursi a questa mera constatazione o piuttosto cercare argomentazioni più
convincenti.
Per
rispondere a questa difficile domanda non è sufficiente il solo ricorso alla
geopolitica, è necessaria piuttosto una prospettiva di classe. In questo senso,
in primo luogo crediamo sia opportuno fare una radiografia alla nostra classe
dirigente, sia quella economica, non sempre visibile, sia quella politica che è
un’emanazione della prima.
Secondo Kees
van der Pijl siamo governati da una classe atlantista, formatasi dopo la guerra
di secessione nel Nord America e ristrutturatasi alla fine del Novecento,
essendo stata beneficiaria della “privatizzazione delle nuove tecnologie nei
settori della difesa e dell’intelligence” e avendo dato origine ai grandi monopoli
informatici. Secondo lo studioso olandese, “I settori della sicurezza nazionale
e dell’intelligence, internet e i relativi interessi e i conglomerati
(multi)mediatici formano insieme un triangolo al centro del blocco di potere
che guida la ‘nuova normalità’” (La pandemia della paura. Progetto
totalitario o Rivoluzione?, 2023: 78).
Gli
esponenti di questa frazione del settore capitalistico sono gli uomini più
ricchi del mondo, come Bernard Arnault (impresario del lusso), Bill Gates, Elon
Musk, che amano presentarsi come filantropi e che non hanno una relazione con
un paese specifico. È questo gruppo transnazionale di supermiliardari ad avere
tratto vantaggi straordinari da questi decenni di crisi più o meno striscianti,
caratterizzati da fenomeni quali l’inglobamento dei piccoli capitali, la
distruzione della classe media, l’impoverimento dei lavoratori, la dissoluzione
dello Stato sociale. Come è evidente a tutti, le altre classi sono state,
invece, altamente danneggiate da queste trasformazioni del sistema
capitalistico, tanto che nessuno ormai nega l’accrescersi delle disuguaglianze
economiche e sociali. E come scrive Andrea Pannone, l’imponente espansione su
scala planetaria delle attività finanziarie ha accresciuto a dismisura il
potere di queste nuove oligarchie economiche attraverso il “sabotaggio” del
tradizionale meccanismo di formazione della ricchezza basato sullo sfruttamento
del lavoro. Ciò genera continuamente instabilità e conflitti tra i gruppi di
potere a prevalente trazione finanziaria e quelli a prevalente trazione
produttiva, che si scaricano sulle comunità umane e plasmano le politiche degli
Stati (Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e
XXI secolo, 2023).
Pertanto, da
queste rapide considerazioni sembra che quelli che vengono “suicidati” sono i
lavoratori e le lavoratrici, destinati a nuovi “sacrifici” per la difesa degli
ideali europei, mentre le élite stanno incamerando cospicui guadagni sia pure a
corto termine, perché a questo punto è difficile prevedere quale futuro ci
aspetti.
Dato che
stiamo scrivendo contro la guerra o meglio le guerre, limitiamoci a una breve
analisi del settore militare, presentato come baluardo della sicurezza
nazionale o delle “democrazie” contro le “autocrazie”, che si sviluppa in
stretta sinergia con i settori informatici, altamente tecnologici e di
intelligence.
Ogni giorno
siamo bombardati da sedicenti esperti che prevedono nei prossimi anni un
attacco da parte della Russia (v. Macron), affetta da un maligno desiderio di
espansione territoriale, pur essendo lo Stato più grande del mondo e per di più
poco popolato.
Ci viene
detto che centinaia di miliardi di euro saranno spesi per rafforzare il sistema
di difesa dell’Europa nei prossimi anni, creando un esercito indipendente ma in
stretto rapporto con la Nato.
Secondo il
sito Investigate
Europe “la politica militare europea è stata progettata
principalmente per sostenere finanziariamente l’espansione dell’industria
militare europea”. La prima domanda da farci è questa: chi sono i proprietari
di questo settore chiave per il dominio imperialistico?
Questa è la
risposta tratta dalla medesima fonte: “Le cinque grandi aziende che ricevono la
parte del leone dei fondi pubblici hanno sede e sono di proprietà di pochi
Stati europei: Francia, Germania, Italia e Spagna. Questi enormi produttori di
armi sono molto intrecciati con i governi e persino con i concorrenti. Sono
anche in parte di proprietà degli stessi fondi americani che controllano parti
importanti delle azioni dei loro concorrenti americani. Tutto ciò crea una
concentrazione del mercato nelle mani di pochi giganti del settore, che, come
sottolineano gli esperti, è un problema di concorrenza”.
E ovviamente
non sarà il Parlamento europeo, fragile velo al potere oligarchico, a decidere
e controllare gli investimenti in questo ambito; le decisioni saranno prese da
pochi nelle celate stanze, e magari quei pochi avranno anche specifici
interessi personali da difendere. Nel frattempo, a causa dei terribili
conflitti in Ucraina e in Palestina, le quotazioni in borsa delle industrie
degli armamenti, come Leonardo (Italia), Rheinmetal (Germania), Saab (Svezia),
Thales (Francia) etc. sono cresciute in maniera straordinaria, complessivamente
del 75% e più sia in Europa che negli Usa. E c’è anche da chiedersi se
l’incremento della dotazione di armi potrà difenderci o piuttosto sarà la molla
per scatenare nuovi conflitti.
Naturalmente,
questa tragica scelta militaristica sta avendo drammatiche ripercussioni sulla
vita sociale, perché occorre tenere sotto controllo coloro che dissentono dalle
politiche di guerra, impedire che questi convincano la maggioranza del loro
carattere disastroso, coartando – come già sta avvenendo – la libertà di
opinione e di espressione. Insomma, la classe dirigente deve ingaggiare anche
una battaglia ideologica, la quale sta “svelando” a tutti noi che la guerra è
necessaria e legata all’indispensabile difesa della nostra identità. Come
scriveva Jonathan Swift, nel 1710, bisogna “convincere il popolo di salutari
falsità per qualche buon fine”.
Nell’ambito
di questa strategia militarista deve essere collocata la militarizzazione delle
scuole e delle università, della ricerca e della società in genere ormai
passivizzata dalla degenerazione della cosiddetta democrazia, in cui il potere
esecutivo è sempre più dominante. Infatti, gli studenti dei vari gradi ricevono
lezioni impartite da insegnanti militari, oppure vengono addirittura inviati a
seguire corsi di formazione militare, e i progetti di ricerca in questo ambito
hanno la preminenza a discapito di altre pur importantissime tematiche. E un
ruolo dirimente viene svolto dalle Fondazioni legate a doppio filo a centri di
potere e imprese, “mecenati” che si prefiggono il compito di normalizzare la
guerra, giustificandone la barbarie agli occhi delle giovani generazioni.
I vari
governi (Spagna, Francia, Germania e anche Italia) stanno pensando di
ripristinare la leva obbligatoria, mentre Zelensky ha smentito poco tempo fa la
sua precedente richiesta di inviare i giovani europei in Ucraina, che Macron
sembrerebbe invece voler spedire colà per cambiare le sorti del conflitto. I
francesi hanno già risposto tappezzando le strade di cartelli che dicono: “Macron,
on ne mourra pas pour l’Ucraine”. E noi non abbiamo niente da rivendicare?
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