Perché scrivo questo
libro? Perché condivido l’angoscia di Gramsci: “Il vecchio mondo è morto. Il
nuovo è di là da venire ed è in questo chiaro-scuro che sorgono i mostri”. Il
mostro fascista, nato dalle viscere della modernità occidentale. Da qui la mia
domanda: che cosa offrire ai Bianchi in cambio del loro declino e delle guerre
che questo annuncia? Una sola risposta: la pace. Un solo mezzo: l’amore rivoluzionario.
Houria Bouteldja
1. Colonialismo sanitario. L’Africa e il caso di Ebola
Tra il 2017 e il 2018 Helen Lauer, filosofa della scienza che lavora da
trent’anni in Africa e docente all’Università di Dar es Salaam (Tanzania), ha
pubblicato una serie di fondamentali ricerche che denunciano gli effetti
dell’agenda sanitaria globalista sulla salute pubblica in Africa. In realtà nel
cosiddetto Sud Globale si
discute da anni di questi problemi, ma poco o nulla trapela
all’interno dello sfinito mondo universitario europeo, per non parlare dei
media mainstream. Dico subito che si tratta di studi che oggi, a
due anni di distanza dalla pandemia COVID, probabilmente nessuna rivista
accademica pubblicherebbe. E le ragioni appariranno chiare a breve. Le ricerche
condotte da Lauer ci offrono un’efficace rappresentazione del cosiddetto
colonialismo sanitario, fenomeno assai diffuso e che, come vedremo nella
seconda parte, ha investito in pieno anche l’occidente. Fa da sfondo alla sua
analisi il concetto di ingiustizia epistemica, cioè (molto in sintesi) quelle
ingiustizie generate da un accesso diseguale ai mezzi di produzione,
rappresentazione e diffusione della conoscenza. Cercherò qui di riassumere il
contributo che si intitola The
Importance of an African Social Epistemology to Improve Public Health and
Increase Life Expectancy in Africa.
Sebbene il lavoro sia stato pubblicato nel 2017, i temi che affronta sono
attualissimi: modello emergenziale della salute pubblica, globalizzazione e
privatizzazione della sanità (“un pianeta, una malattia, una cura”), effetti
della ristrutturazione del debito sui servizi pubblici, ruolo ambiguo di ONG,
fondazioni e donors vari, neocolonizzazione culturale (la
scienza è solo quella fatta e gestita da occidentali), soluzionismo tecnologico
(test PCR, vaccini, ecc.), manipolazione dei dati, negazione, svilimento e
invisibilizzazione delle scelte sanitarie e delle soluzioni terapeutiche
“locali”, ecc.
Obiettivo dichiarato dell’autrice è quello di interrogarsi sulla
«legittimità della scienza sottesa alle strategie sanitarie globali» quando
queste si applicano alle popolazioni africane. La filosofa afferma che lo
stesso approccio estrattivista e neocoloniale può essere osservato in altri campi,
come ad esempio nella promozione delle monocolture da parte delle
multinazionali dell’agrobusiness sotto etichette come “rivoluzione
verde africana” oppure nello sfruttamento delle risorse minerarie ed
energetiche da parte delle industrie occidentali (e aggiungiamo noi, oggi anche
cinesi e indiane). Tuttavia, nessuna critica, per quanto basata su fatti e
informazioni solide e attendibili, è riuscita a scalfire la convinzione
occidentale che l’Africa abbia bisogno di «più importazione di farmaci sperimentali
a prezzi accessibili e più importazione di vaccini». Com’è noto la creazione di
un mercato farmaceutico sostenibile nelle economie più fragili è sin dal 2015
una delle priorità in cima alla lista dei sustainable millennium
development goals [obiettivi del millennio per lo sviluppo sostenibile
n. d. r.] delle Nazioni Unite.
Il caso di studio affrontato da Lauer è la crisi in Africa del virus Ebola.
Descritto sul sito dell’ISS come uno dei virus più aggressivi noti
alla scienza, nell’immaginario occidentale un tale flagello non poteva che originare
dal continente nero (come altre malattie oggi ovviamente veicolate dagli immigrati,
virulenti ricettacoli di patogeni). Dunque, da sempre, per ridurre i rischi
(nostri) è sembrato giusto, a OMS e Big Pharma (ma mi sto ripetendo),
esercitarsi in questi territori così ricchi di morbi e così poveri di tutto il
resto.
Lauer si domanda: come mai a livello globale non viene mai sollevata
l’attendibilità e verificabilità dei dati epidemiologici raccolti nei paesi
africani? Analizzando i dati sul numero dei casi settimanali di Ebola in
Liberia forniti dall’OMS e dal Center for Diseases Control and Immunization
degli Stati Uniti nell’ultimo quarto del 2014, la studiosa osserva:
“Ma nemmeno a distanza di tempo il CDC e l’OMS sono disposti a fornire dati
su quanti di questi decessi fossero maschi, o di quanti fossero bambini sotto i
dodici anni, o di quanti pazienti nelle stesse località e nello stesso periodo
fossero morti di malaria o di tubercolosi o di shock diabetico, di polmonite,
di gastroenterite o di malattie legate alla malnutrizione”.
Se aggiungiamo che i test sierologici non sono affidabili e che le diagnosi
vengono collegate all’eventualità che il paziente sia venuto o meno in contatto
con persone provenienti da Liberia, Sierra Leone o Guinea, si può concludere,
afferma la ricercatrice, che “il numero di casi di Ebola in Africa Occidentale
nel periodo 2014-2015 dipende principalmente da come e dove si inizia a
contare.”
Lo scenario non migliora se consideriamo le metodologie diagnostiche (a
iniziare da un vecchio conoscente, il test PCR): «potevano passare molti giorni
prima che i risultati dei test venissero trasmessi dal laboratorio alle
cliniche – ammesso che lo fossero. Ogni volta che un paziente è morto prima che
venissero trasmessi i risultati dei test, il decesso è stato registrato come
legato all’Ebola». L’autrice enumera una serie di casi di “incertezza
diagnostica” (la normalità nelle regioni tropicali), fra cui quelli della
Liberia, del Ghana e della Guinea:
“Un’ulteriore fonte di caos e sfiducia in Guinea è stata causata
nell’ottobre 2014 da un’epidemia di setticemia acuta fulminante da
meningococco, dovuta all’uso errato di fiale surriscaldate in una campagna di
vaccinazione per la meningite organizzata dallo statunitense Centre for
Diseases Control. Poiché il CDC non ha reso noto l’errore, i violenti sintomi
sono stati ricondotti all’Ebola”.
Nell’ottobre 2014, subito prima dell’invio di truppe statunitensi in
Liberia, l’OMS stimò che entro la fine del 2014 il numero dei nuovi casi di
Ebola avrebbe raggiunto la quota di cinque o diecimila a settimana. Il CDC fece
trapelare le sue stime attraverso Associated Press e Reuters indicando che per
la metà di gennaio 2015 ci sarebbero stati quasi 1.4 milioni di casi in tutta
l’Africa occidentale. Quando l’arbitrarietà e “assurdità” di queste stime
divenne evidente, non ci fu nessuna ammissione da parte di queste
organizzazioni, con conseguenze potenzialmente devastanti sulla popolazione.
In conclusione, afferma Lauer, «si può presumere che la risposta
internazionale a Ebola potrebbe aver causato molte più vittime di quelle che il
virus stesso era in grado di infettare». Questo anche perché durante la crisi
dichiarata di Ebola centinaia di migliaia di persone furono dissuase dal
recarsi negli ospedali o nei centri sanitari: nel 2014, dopo che la Guinea fu
dichiarata ad alto rischio Ebola, si stima che non poterono essere curati circa
74.000 casi di malaria.
La ricercatrice americana non esita a denunciare i meccanismi di
funzionamento della filiera economica, politica, industriale, mediatica e
scientifica che espropriano la salute degli africani. Una volta avviata la
narrazione emergenziale nei media (questo è un punto chiave che verrà
approfondito dall’autrice in
un altro contributo) «i mega trasferimenti di capitale affluiscono
rapidamente dalle casse pubbliche dei paesi ricchi ai consorzi delle
multinazionali del farmaco; questi conglomerati commerciali miliardari sono
quindi in grado di decidere quali prodotti utilizzare per inondare i mercati africani,
dimostrandone l’efficacia nel mitigare la malattia e raccogliendo ingenti
dividendi annuali nel lungo periodo». Da un lato, dunque, si tratta del
classico schema della cosiddetta cooperazione internazionale, una partita di
giro dove i finanziamenti ritornano nelle mani dei finanziatori attraverso
l’imposizione di proprie tecnologie, risorse, prodotti e costi del personale
occidentale; ma dall’altro tale processo consegna a Big Pharma non solo un
mercato, ma un immenso (e gratuito) bacino umano di ricerca e sperimentazione.
La penultima sezione dello studio illustra le strategie attraverso cui la
macchina sanitaria globale (composta da soggetti oramai in gran parte noti, fra
cui un nutrito gruppo di rappresentanze militari di Stati Uniti, Regno Unito e
Cina) delegittimi portatori di interessi e conoscenze locali, instaurando
quella che l’autrice definisce un’egemonia ermeneutica. I soggetti locali,
anche quando si tratta di medici e ricercatori esperti che operano sul proprio
territorio, vengono sistematicamente ignorati o estromessi: d’altro canto sono
gli stranieri e non gli africani ad avere il ruolo di interpretare i bisogni e
le esigenze degli africani – ovviamente non solo nel settore della sanità –
giacché sono loro a gestire i programmi di sviluppo. Infine, l’ultima sezione è
dedicata a sottolineare l’importanza delle tradizioni scientifico-epistemologie
africane e agli ovvi vantaggi di impiegare conoscenze e risorse locali nella
comprensione, gestione e soluzione di problemi locali. A questo riguardo
sarebbe interessante approfondire alcuni dei nodi teorici lasciati impliciti o
solo accennati da Lauer, come per esempio il fatto che una convivenza fra
epistemologie (o come molti amano dire oggi cosmovisioni) appare
impossibile nel contesto attuale, poiché gran parte dell’epistemologia
occidentale moderna è inscindibile dal colonialismo: quindi non si dà episteme
senza violenza epistemica. Com’è noto alcune discipline scientifiche chiave,
per esempio medicina e antropologia, come notava Foucault, hanno come atto
fondativo un certificato di morte: l’una inizia con un cadavere, l’altra con la
distruzione delle forme di vita che analizza. Ma
questa intrinseca violenza inter-epistemologica, va sottolineato, storicamente
non è una caratteristica soltanto dell’occidente bianco e cristiano.
Interrompo qui questa mia sommaria recensione dell’articolo di Helen Lauer:
già da questo florilegio, tuttavia, è impossibile evitare la fortissima
sensazione di dejà vu. Ciò che racconta la filosofa americana
sembra il trailer, anzi il teaser di un film che
nel 2017 era ancora in preparazione: come è noto abbiamo dovuto attendere il
2020 per vedere sugli schermi il kolossal completo.
2. La violenza coloniale ingloba i propri confini. Unione dei barbari
epistemici?
Mentre scrivo stiamo assistendo alla disintegrazione di ciò che rimaneva
dell’impero coloniale francese nell’Africa occidentale. Il Sud Africa denuncia
Israele per genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, guidando la
protesta di molti paesi del Sud Globale contro la politica occidentale in Medio
Oriente, mentre la Nigeria, una delle economie più importanti del continente,
chiede di entrare nei BRICS e di vendere
il proprio petrolio nella valuta nazionale. Sono eventi
impensabili solo pochissimi anni fa: è evidente che l’apparato egemonico
occidentale è in una crisi profonda che esplode nel continente martoriato da
cinque secoli di violenze. Indubbiamente il processo di decolonizzazione
dell’Africa è ancora lento e irto di ostacoli, ma non potrà essere arrestato. E
qui arriviamo al punto che mi interessa di più. Alcuni giustamente hanno
osservato che non potendo più colonizzare gli altri, l’impero occidentale sta
colonizzando sé stesso. La terzomondializzazione, iniziata già molti anni fa,
appare per il capitalismo occidentale, una scelta tanto disperata quanto
obbligata. In questa seconda parte cercherò di argomentare come in occidente la
violenza di tutti gli apparati di potere (governi, scienza, media, sanità,
giustizia, ecc.) a partire dalla pandemia si presenti come una variante
ferocemente aggiornata della violenza coloniale.
Per usare le
parole di Frantz Fanon, il colonialismo non sarebbe stato
sostenibile nel tempo attraverso la sola violenza militare: è solo quando i
colonizzati accettano e interiorizzano la superiorità del colonizzatore,
indossandone la maschera e provando vergogna per sé stessi e la propria
cultura, che il processo si può dire effettivamente concluso.
L’auto-svuotamento identitario e le riscritture della storia in favore dei
vincitori (e culturalmente egemoni) tuttavia non hanno caratterizzato solo le
colonie al di là del mare, ma anche i margini interni dei paesi cosiddetti
egemoni. È il caso di tutti gli stati europei moderni sorti dopo la fluidità
statuale medievale, Italia inclusa, dove il Risorgimento, ultimo fra i
movimenti di uniformazione, come annotava Gramsci fu anche un processo di
colonizzazione del Nord nei confronti del Sud.
Edward Said nel suo testo chiave, Orientalismo (1978) osservava
che lo sguardo che l’occidente posa sull’oriente e il “sistema di
rappresentazioni” che ne deriva è sempre un progetto politico. Per
le stesse ragioni, ogni forma di rappresentazione creata, gestita e diffusa dai
poteri egemoni è un atto politico di natura
intrinsecamente coloniale e dunque violenta.
Dunque per comprendere l’attuale progetto politico delle élites globaliste
(che include i conflitti in corso, dall’Ucraina alla Palestina) a mio parere è
necessario tornare ai classici del pensiero post-coloniale e decoloniale.
Prendiamo il celebre passaggio del Discorso
sul colonialismo (1955) dove Aimé Césaire, scrittore, poeta e
politico martinicano, propone il più scandaloso e inaccettabile dei
paragoni: ciò che Hitler fece all’Europa non è diverso da ciò che
l’Europa fece all’Africa. Per Césaire non si tratta di un semplice
parallelismo. Hitler non è un caso isolato, un mostro, un unicum fuori
dalla storia, ma è la conseguenza, e forse nemmeno la più grave, della
decivilizzazione e dell’imbarbarimento del continente europeo:
“Bisognerebbe innanzitutto studiare in che modo la colonizzazione
contribuisce a decivilizzare il colonizzatore, ad abbrutirlo nel vero senso
della parola, a degradarlo, risvegliare in lui quegli istinti reconditi di
cupidigia, di violenza, di odio razziale, di relativismo morale… (…). Sì,
varrebbe proprio la pena di studiare, clinicamente, in dettaglio, tutti i passi
di Hitler e dell’hitlerismo, per rivelare al borghese distinto, umanista,
cristiano del XX secolo, che anch’egli porta dentro di sé un Hitler nascosto,
rimosso; ovvero, che Hitler abita in lui, che Hitler è il suo demone e che, pur
biasimandolo, manca di coerenza, perché in fondo ciò che non perdona a
Hitler non è il crimine in sé, non è il crimine contro l’uomo, non
è l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo
bianco, l’umiliazione dell’uomo bianco, il fatto di aver applicato in
Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati
prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India
e dei negri dell’Africa”.
Il capitalismo occidentale, vieppiù nella sua attuale versione digitale e
autoritaria, sembra condannato a ripetere, su una scala sempre più granulare,
la violenza coloniale. Colonizzare, come abbiamo visto, non vuol dire solo
schiavizzare e sterminare l’indigeno, ma in generale violentare la diversità,
trasformandola in un elemento trascurabile prima, indesiderabile poi. Poiché
l’obiettivo di tutti i colonialismi, intrinseci ed estrinseci, è sempre lo
stesso: la distruzione delle diversità culturali e biologiche e l’introduzione
di standard e modelli universalizzanti in campo politico, economico,
alimentare, sanitario, mediatico, sessuale, educativo, mediatico, ecc. Non
importa quale forma assuma la diversità, perché ogni alternativa epistemica per
il potere (lo abbiamo visto con Said) è potenzialmente eversiva. Per evitare
che la conoscenza evolva in pericolosa coscienza politica il sistema mette in
campo i propri enti certificatori delle verità accettabili.
Foucault usava il termine “regimi di verità” (régimes de véridiction),
perché secondo il filosofo francese non è tanto importante stabilire cosa sia
vero e cosa sia falso (scienza, anti-scienza, ecc.), ma possedere il tavolo su
cui vero e falso fingono di giocare la loro partita (il croupier vince
sempre). L’importante è avere il saldo controllo della filiera della veridizione che
è composta principalmente da tre livelli: accademie e centri di ricerca,
apparati educativi di ogni ordine e grado e organi dell’informazione. Oggi
questi tre livelli sono tenuti insieme dal processo di piattaformizzazione,
cioè dalla progressiva trasformazione degli ex capisaldi della società moderna
in servizi online. Si tratta di uno slittamento complesso che implica anche un
rimescolamento dei poteri, ma non dobbiamo farci illusioni sull’esito di questi
scontri. Come dimostra l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione, dal
telegrafo alla rete, è attraverso la creazione e imposizione di standard che
gli imperi costruiscono e consolidano i loro poteri. La piattaformizzazione (e
le cosiddette intelligenze artificiali che animeranno i loro servizi) è
l’ennesima e forse la più pericolosa incarnazione dell’idea d’impero coloniale,
universale e monoculturale.
Gli ultimi vent’anni di autocolonialismo e militarizzazione di ogni
interstizio, insieme al rafforzamento di standard anglofoni globali, che vanno
dalla NATO all’OMS, dal Fondo Monetario al WTO, da GAFAM agli oligopoli
dell’editoria scientifica, hanno visto la parallela creazione di
due categorie di umani residuali o indesiderabili (a volte sovrapponibili): gli schiavi
digitali e i dissonanti. In coerenza con il processo di
auto-colonizzazione vengono introdotte e legittimate nuove forme di
asservimento e autoasservimento, che vanno dal “lavoro” inconsapevole che
svolgiamo ogni secondo con il nostro smartphone (che viene monetizzato dalle
applicazioni), a forme esplicite di sfruttamento della forza lavoro, come
le click
farm e la vasta galassia dei gig worker. Ma la caratteristica forse più evidente della
schiavizzazione sono gli ossessivi e capillari meccanismi di controllo dei
lavoratori oggi resi ancora più distopici dall’uso dell’intelligenza
artificiale. Non si tratta solo di gestione algoritmica dei rapporti di lavoro,
con tutti i rischi che comporta, ma della raccolta e analisi sistematica,
totale e h24, di tutte le interazioni dei lavoratori sulle piattaforme
delle aziende. Alla ricerca forse dello psicoreato, le aziende americane che usano
tali software di IA (fra cui Walmart, Chevron, Starbucks e
AstraZeneca: si parla dei dati di tre milioni di lavoratori) sprofondano in una
dimensione sconosciuta dello sfruttamento, dove i legislatori sono impotenti,
giacché tali attività avvengono nella completa oscurità.
La seconda categoria rappresenta il riflesso condizionato generato dalle
imposizioni del potere, quindi il rifiuto, l’opposizione, la dissidenza; sono i
“no-qualcosa”: no Nato, no global, no euro, no tav, no sbarchi, no ponte, no 5G
e naturalmente no vax e no pass. Nella vasta galassia del “no”, vagano
complottisti, negazionisti, ecc., ma spesso anche movimenti trasversali
antisistema come i gilet gialli e recentemente gli agricoltori di tutta Europa.
L’abbrutimento, la regressione democratica e la decivilizzazione di cui parlava
Césaire hanno raggiunto il culmine durante la pandemia, dove qualsiasi
barriera, qualsiasi filtro fra gli obiettivi del potere e le pulsioni delle
masse è crollato. In particolare, nei ceti medio-alti d’Europa e dei paesi
CANZUS (Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) si è arrivati a una
pressocché totale identificazione fra governi e governati (con tratti di
schizofrenia nelle fasce ex “antisistema” e progressiste). I meccanismi che
hanno prodotto questa saldatura fra l’opinione pubblica mainstream e
la violenza governativa sono stati analizzati in molteplici studi che non è
possibile qui riassumere, ma a ogni modo il passaggio dalla pseudo-tolleranza
alla criminalizzazione è stato frettoloso e inesorabile. (Mi sia permesso un
inciso: il vero antenato del green pass non furono le tessere nazi-fasciste o i
vari marchi impressi sui corpi dei reietti di ogni epoca, ma le impronte
digitali. Come ricorda lo storico Carlo
Ginzburg, l’impronta digitale fu la perversa appropriazione indebita da parte dei
colonizzatori britannici di pratiche indigene di origine probabilmente rituale.
Lì dove l’indigeno percepisce il sacro, l’uomo bianco vede il dominio.)
Grazie a strumenti legalizzati di sorveglianza di massa come Chat
control e Digital
Service Act oggi chi dissente nel migliore dei casi può essere silenziato o
censurato, nel peggiore può essere accusato di una serie di reati: questi sono
gli esiti politici della violenza epistemica. Come ricordavamo, il meccanismo
coloniale non si può fermare finché non ha distrutto o assorbito completamente
il rappresentante di una conoscenza illegittima e pericolosa: potremmo definire
questo individuo un barbaro epistemico, il quale viene assunto a
simbolo di una alterità incomprensibile e ripugnante. In questo furore
fagocitante persino il “vecchio” capitalismo, ancora basato sulla lotta fra
classi di esseri umani, può divenire un ostacolo al processo di
de-civilizzazione autocoloniale (e digitale).
Ma, arrivati sin qui, per coerenza rispetto al ragionamento fatto, occorre
anche affermare che così come il colonialismo storico provocò movimenti di
liberazione epocali, la colonizzazione o auto-colonizzazione dell’occidente può
rivelarsi, specialmente per l’Europa, una formidabile occasione per fare i
conti una volta per tutte con la propria storia. Arrivo così al bellissimo
testo citato in esergo: I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica
dell’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja, francese di origine
algerina (dunque donna e musulmana, due categorie che in occidente siamo
abituati a scindere). Un libro brillante, controverso e indigesto sia ai
monopoli del consenso sia a quelli del dissenso. Fondatrice in Francia
del Parti des Indigènes de la Republique (sciolto nel 2020) e
leader del movimento decoloniale, negli ultimi anni Bouteldja ha sviluppato una
riflessione politica basata sul concetto di “stato razziale” e sulla ricerca di
alternative pacifiche «a una società occidentale in declino». Oggi
Bouteldja legge la crisi delle
classi popolari bianche francesi come una opportunità per saldare la protesta
antirazzista dei “barbari” delle banlieue con quella dei
“bifolchi” (beaufs), i petit blancs schiacciati dalle
feroci politiche neoliberiste dell’Unione Europea. «La barbarie che arriva»,
scrive, «non ci risparmierà, ma non risparmierà nemmeno voi». È necessario
allora un luogo d’incontro «all’incrocio dei nostri interessi comuni – la paura
della guerra civile e del caos – là dove si possano annullare le razze e dove
sia prevista la nostra uguale dignità».
La scrittrice franco-algerina si scaglia poi contro alcuni dei totem
progressisti delle moderne società occidentali che considera tuttavia
inscindibili dal “crimine coloniale”: diritti dell’uomo, universalismo,
umanesimo, femminismo, terzomondismo, marxismo. A proposito del rapporto fra
colonialismo e Rivoluzione francese, scrive: «ciò che voglio dire, sorelle, è
che le società europee erano orrendamente ingiuste verso le donne (…) ma che
queste, grazie all’espansione capitalista e coloniale, hanno ampiamente
migliorato la propria condizione a detrimento dei popoli colonizzati». È nella
pagina successiva, citando lo scrittore e poeta afroamericano James Baldwin,
figura di spicco del movimento per i diritti civili, che si arriva al
cuore politico della questione:
“A Baldwin che le rimproverava [ad Audre Lord] di imputare troppo agli
uomini neri, la femminista afroamericana risponde: «Io non biasimo gli uomini
neri. Ciò che dico è che bisogna che noi rivediamo il nostro modo di combattere
la nostra oppressione comune, perché se non lo facciamo ci autodistruggeremo [we’re
gonna be blowing each other up].» (…) Baldwin replica: «Ma questo significa
che dobbiamo ridefinire i termini dell’Occidente»”.
L’affermazione di Lord sulla possibilità di un conflitto “mortale” fra
oppressi, senza negarne la problematicità e specificità, suona come una
profezia in linea con un’altra profezia, fatta da un personaggio che certo poco
aveva a che vedere con le Pantere Nere, ma molto con la disobbedienza civile e
la lotta al colonialismo: Gandhi. Non mi sembra un caso che nelle utopiche
conclusioni di I bianchi, gli ebrei e noi, appaia una lunga
citazione di Ashis Nandy, un importante studioso del pensiero gandhiano.
In Hind Swaraj, l’incendiario atto di accusa nei confronti della
modernità occidentale, Gandhi scrisse che un incontro fra Occidente e Oriente
sarebbe stato possibile solo se l’Occidente avesse rinunciato alla civiltà
moderna basata sulla violenza. Se questo non fosse accaduto, non solo non si
sarebbe avuto un incontro, ma l’Oriente avrebbe fatalmente seguito l’Occidente,
divenendo un suo doppio, fino alla collisione finale fra i due
mondi. Esattamente ciò che sta avvenendo.
Osservare la violenza di cui siamo soggetto-oggetto, allora, è forse
l’unico modo per uscire dal secolare inganno che contrappone i “sacrificati”
d’Europa a quelli dell’ex terzo mondo. Il movimento più radicalmente e
genuinamente rivoluzionario che ci attende è quello di iniziare a consideraci
non come popoli perdenti o vincitori su una scacchiera geopolitica manipolata
da vecchi e nuovi imperi, ma come popoli diversamente oppressi.
Non sono così ingenuo o idealista da non vedere che esistono vari gradi di
oppressione, diseguaglianze e discriminazione. Il capitalismo ha trionfato
creando l’illusione dei privilegi di casta: all’esterno la favola “qui è la
democrazia e il benessere, di là sanguinose dittature e miseria”; all’interno la
contrapposizione fra diseredati, nelle combinazioni più varie a seconda di
convenienze e stagioni. Ma oltre al fatto che queste illusioni stanno svanendo
velocemente, come suggerisce Bouteldja, forse noi stessi, in quanto bianchi ed
europei (certamente lo è chi scrive), siamo un’“invenzione”, una delle tante
categorie di comodo – stili di vita, strutture di pensiero, codici,
epistemologie – create dalle élite per perpetuare il loro dominio. Non
diversamente da chi è stato storicamente oppresso in nome di un benessere che
non c’è più, siamo personaggi subalterni; oggi confinati nella bolla afona dei
social, domani tutti, bianchi e neri, neo o auto-colonizzati,
dispositivi gestiti
da remoto. Da questo punto di vista, l’esperimento coloniale definitivo, quello dove
è più evidente la trasformazione violenta della società, abita nel cuore
dell’Europa. E il vero processo di decolonizzazione non può che iniziare
all’interno dei nostri confini e delle nostre coscienze. Prendendo atto che
l’Africa e tutto il Sud del mondo hanno molto da insegnarci.
Nessun commento:
Posta un commento