Difficile trovare una terza posizione. Purtroppo. La prima è che la democrazia sia lo spazio in cui si costruiscono le decisioni, i compromessi e i convincimenti a partire dalle idee che ogni uomo coltiva in se stesso. Dalla collaborazione e dallo scontro tra i diversi modi di vedere il mondo esce fuori il nostro costante tentativo di capirlo e amministrarlo. Non sono le idee a essere contenutisticamente democratiche (chi mai dovrebbe deciderlo?) ma il loro costante confronto e il lavoro per assicurarlo. È faticoso farlo e bisogna resistere alla disumanizzante ma facile tentazione di non riconoscere l’altro come un interlocutore. Bisogna riuscire contemporaneamente a pensare che ha torto ma che questo suo “torto” non lo butta fuori dalla discussione e che questo “torto” sia un bene anche per me che penso di avere ragione.
La seconda posizione è più facile. Ci si può lasciare andare al disgusto morale per l’altro. Proiettarlo fuori dalla discussione. Ci sarebbero dunque in partenza idee accettabili in democrazia e idee inaccettabili. La democrazia si svolgerebbe nel confronto tra i soli portatori di idee accettabili.
Il problema è che le idee accettabili sono per ciascuno sempre le proprie. Chi decide allora il grado di accettabilità delle idee? Ovviamente chi riesce a mobilitare una maggioranza che si lasci convincere di non essere tale ma di rappresentare la totalità. Oggi potrebbe essere una buona definizione del potere: ciò che decide dell’accettabilità delle idee.
In questa seconda posizione il potere decide dunque quali idee sono accettabili in quel dibattito che dovrebbe legittimare il potere. La democrazia si svolge a partire da una non democratica selezione degli interlocutori e da una non democratica autorizzazione delle loro idee ammesse a svolgere il dibattito democratico. Non ci vuole un genio per intravedere l’ombra del Barone di Münchhausen che pretendeva di tirarsi su di peso afferrandosi per il colletto.
Difficile pensare, negli anni Ottanta e Novanta, che la seconda posizione in pochi decenni smettesse di essere semplicemente la tentazione dei dogmatici e dei totalitari, delle personalità fanatiche e illiberali e si facesse un’opzione culturale e politica sbandierata senza pudore dalle classi dominanti e da quegli umanizzati cani della prateria che sono gli intellettuali (o, per non vestirli di abiti troppo grandi per loro, che sono gli operatori della comunicazione). Per coloro che non sono stati in questi decenni mitridatizzati (e che sono nati prima che il contravveleno sugli scaffali smettesse di essere disponibile in bastevole quantità) la sola esperienza dell’infosfera contemporanea diventa una pena. Continuamente si viene sottoposti a una omiletica litania che ti spiega quale è il bene e quale il male, cosa si può accettare e cosa no. Come essere buoni e cosa non pensare per non essere cattivi.
Alla base di tutto l’infantilizzazione del corpo sociale, come bene scrive Biuso. Ma il risultato diventa l’estromissione dalla democrazia a cui finiamo con il poter accedere solo se abbiamo delle idee previamente considerate accettabili. Quelle “inaccettabili” non devono essere neppure sconfitte nel dibattito democratico bensì, più radicalmente, non farne parte. Zitti! Parlano i grandi! Come non infantilizzarsi?
Le idee inaccettabili possono essere appartenenti a ciò che un tempo si sarebbe detta sinistra e a ciò che un tempo si sarebbe detto destra. Ma possono anche appartenere all’universo della trascendenza religiosa o delle religioni storiche. Inaccettabili anche le idee di quella parte del mondo che non è il mondo anglosassone o che comunque non voglia somigliargli. La comunicazione ufficiale somiglia ormai a una segnaletica stradale, a una messa cantata, a una lezione elementare deamicisiana, a una direzione spirituale per sottosviluppati mentali, all’incontro di un adolescente problematico con gli assistenti sociali. A tutto tranne che a un dibattito tra adulti liberi.
Si cerca volenterosamente di ricordare a chi legge o guarda da che parte deve stare, gli si dà il pesce e al contempo una bastonata sulla mano di modo che non possa più reggere la canna da pesca. L’effetto è deprimente e comico insieme. L’impressione, leggendo un grosso giornale nazionale (strumento, comunque, ormai elitario stante il numero di copie vendute) è di trovarsi in mano una di quelle vecchie pubblicazioni periodiche cattoliche di cinquant’anni fa che si occupavano di salvarti l’anima più che di informarti. Il genere edificante è ormai il genere letterario preponderante.
Ad esempio, sfogliando La lettura, l’inserto culturale del principale giornale nazionale, nello stesso numero (ad esempio quello del novembre del 2023) può capitare di essere ripetutamente edificati già solo dai titoli. Così una recensione a un volume sui romantici tedeschi può essere l’occasione per ricordarci nell’occhiello che “in tempi di crisi climatica ciò deve ispirarci perché l’approccio basato su dati e numeri non funziona”, concludendo: “l’io non era egoismo ma moralità”. Sempre sia lodato, verrebbe da aggiungere. Nella pagina precedente il titolo a una recensione di un lavoro antropologico recita sognante: “I campi incolti in cui fiorisce la solidarietà” e quella ancora dietro pubblicizza un volume del Corriere in occasione della giornata mondiale della gentilezza. Se foste più giovani non vi verrebbe voglia di tirare ai lampioni con una fionda o di mettere le puntine sotto il sedere dell’insegnante?
Anche la pagina precedente (una critica teatrale) ci ricorda che lo spettacolo in oggetto “interpreta una storia (apparentemente) più intima. Ma che in realtà ha a che fare con l’universo e il clima”. Poi scorrendo le pagine si può trovare nella descrizione di una mostra il titolo “l’arte dei diritti” e persino, per una fiaba “L’antisemitismo dilaga nel bosco”. Perché a questo punto non proporre “Totò, Peppino e l’inclusione” o “Godzilla contro il global Warming”? Forse l’analogia con la letteratura edificante non baste neppure più, forse serve la Pravda sovietica o il cinese Quotidiano del popolo del secolo scorso per trovare corrispettivi. Come in quei casi non sembra esserci spazio per sfere separate ma solo per manifestazioni dei sacri valori. A che servono, sembrano spiegarci gli operatori della comunicazione, arte, filosofia, religione, se non a ricordarci i sacri valori e i sacri doveri: il clima, l’inclusione (ovviamente se vaccinati e forniti di regolare documento che lo attesti), il superamento di ogni confine e l’elogio della diversità, che però non si capisce come dovrebbe conservarsi in un mondo piatto, globalizzato e forzatamente omogeneo come il nostro.
Infine il lettore potrà godere, in un numero più recente de La lettura, di una surreale tavola rotonda con storici dell’antichità e registi teatrali che, tutti giulivi, si danno di gomito nel concordare su quanto stia loro antipatica Antigone, di che personaggio tremendo sia, di come si debba rivalutare la brava e ragionevole Ismene e quel pover’uomo, gravato dal peso delle responsabilità politiche, di Creonte. Che assurda pretesa – ci spiegano –non volere che i cani mangino il cadavere del fratello quando il fratello si sa che era un terrorista (un cattivo dunque, del resto così si spiegano le cose ai bambini) e se la legge dice che non va seppellito.
Che pensare? Sarebbe troppo perfido ipotizzare che, oltre alla genuflessione al potere che oggi è d’obbligo, forse il fatto di aver accettato di non seppellire e salutare i nostri cari durante la pandemia ci renda lo sguardo di Antigone ormai intollerabile e ne faccia il nostro personale spettro macbethiano?
A ogni modo, se sa come contattarlo, qualcuno lo dica a don Milani che l’obbedienza è di nuovo una virtù.
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