domenica 3 marzo 2024

Volpe 132 colpito e affondato, 30 anni fa

articoli di Piero Mannironi, Marco Birolini, un video di Mario Brusamolin, il film di Vincenzo Guerrizio e Raffaele Manco

Il giallo del “Volpe 132” della Gdf precipitato nel ’94: spari da una nave – Marco Birolini 

L’elicottero della Guardia di finanza cadde al largo della Sardegna, i due piloti non sono mai stati trovati. Una perizia risolve il mistero. Una vicenda che porta fino all’omicidio di Ilaria Alpi



Sono le 18.44 del 2 marzo 1994. Un elicottero Agusta della Guardia di finanza, nome in codice Volpe 132, si alza dall’aeroporto di Cagliari Elmas per un volo di routine lungo la costa Sud della Sardegna. Si dirige verso Ovest, doppia Capo Carbonara e sorvola la Colombina, una motovedetta del corpo. Alle 19.15 Volpe 132 comunica alla base: «Andiamo verso Sud», cioè verso il mare aperto. Da quel momento l’elicottero sparisce dal radar e dalla radio.

A bordo ci sono i piloti Fabrizio Sedda, 28 anni (è lui alla cloche) e Gianfranco Deriu, 41 anni, sposato e con due figli piccoli. Dopo mezz’ora circa scatta l’allarme generale, partono le ricerche. Non si trova nulla. La mattina del 4 marzo un aereo avvista alcuni rottami galleggianti. Un paio di portelloni, un troncone della pala principale, un pezzo di carlinga. E un casco da pilota. È il Volpe 132, non ci sono dubbi. Solo che i resti sono spuntati al largo di Capo Ferrato, circa 40 km più a Nord dell’ultimo avvistamento radar, dalla parte opposta rispetto alla rotta annunciata. Un rebus.

Cos’è successo? La risposta arriverà solo 17 anni dopo, dalla perizia compilata dal professor Donato Firrao, esperto di metallografia del Politecnico di Torino (nel curriculum Ustica e Mottarone), e dal maggiore del Ris dei carabinieri Giovanni Delogu. «C’è stata una esplosione a bordo di modesta entità e non risalente a una carica esplosiva», si legge nella relazione, che Avvenire pubblica per la prima volta. Nessuna bomba, insomma. E nemmeno un missile. Ma allora cosa è scoppiato?

«L’unica cosa che può esplodere sono i vapori del carburante», che è contenuto nei serbatoi sistemati «dietro i sedili dei piloti e sotto i loro piedi». Ma siccome un serbatoio non esplode da solo, «risulta dunque possibile che l’elicottero sia stato colpito da un proiettile, probabilmente tracciante, che ha provocato la detonazione del vapore contenuto nei serbatoi, probabilmente quelli posizionati dietro i sedili dei piloti». Ma c’è anche un’altra ipotesi. A causa di piccole perdite “fisiologiche”, i vapori si depositano anche sul resto del velivolo. E quindi «l’innesco potrebbe essere stato fatto anche da un proiettile normale che, urtando contro le strutture metalliche, potrebbe aver causato scintille».

Ad avvalorare questa teoria, il fatto che i rottami fossero sparsi su un’area ristretta, segno che l’elicottero è esploso sul mare mentre volava a bassa quota, dunque a portata di un’arma comune. Per arrivare a questa conclusione – che nel 2011 porterà la Procura a cambiare l’ipotesi di reato, da disastro aviatorio a omicidio volontario plurimo – ci sono voluti sei anni.

«Non è stato facile – spiega il professor Firrao ad Avvenire –. Ci abbiamo messo un po’ a decifrare i risultati. La svolta è arrivata dai cilindretti di fissaggio dei portelloni, che erano stati spinti a velocità elevatissima contro la cerniera di chiusura. Non poteva esser stato l’impatto con l’acqua, ma solo un’esplosione interna. A quel punto, considerato anche lo scenario ricostruito fino a quel momento, tutte le tessere sono andate a posto».

La perizia conferma scientificamente i racconti di ben 4 testimoni, che videro il Volpe 132 piombare nella rada di Feraxi, per poi esplodere dopo aver sorvolato una misteriosa nave mercantile che da tre giorni incrociava in zona, spegnendo le luci di notte. Una presenza clandestina, in un tratto di mare vicinissimo al poligono inteforze di Salto di Quirra. Intercettata però dal Volpe 132, che si era diretto sull’obiettivo senza avvisare nessuno, anzi fingendo di andare a Sud. E poi, forse sfruttando la “zona d’ombra” tra Capo Carbonara e Capo Ferrato, aveva effettuato un raid a sorpresa, arrivando a bassa quota dall’entroterra. Qualcuno, sorpreso nel bel mezzo di un traffico illecito (armi o droga, si è ipotizzato), potrebbe aver aperto il fuoco dal natante, provocandone l’esplosione e la caduta in mare.

Ma chi potrebbe aver sparato contro un velivolo militare? Il 7 luglio di quell’anno l’intero equipaggio della Lucina, cargo che trasportava grano dalla Sardegna al Nordafrica, viene massacrato nel porto algerino di Djendjen. Spariscono anche 600 chili del carico. I giornalisti Piero Mannironi (scomparso 3 anni fa) e Pier Giorgio Pinna – che fin dall’inizio seguirono il caso del Volpe 132 – mostrano la foto del cargo ai testimoni di Capo Ferrato, che non esitano: è la stessa nave. Solo uno di loro nota «due alberi», che però sul cargo visto da lui non c’erano. Ma per il resto l’identikit corrisponde.

«La nostra ipotesi – dice l’avvocato Carmelino Fenudi, che da 30 anni assiste i familiari dei due piloti scomparsi – è che quella nave fosse coinvolta in affari illeciti. E che forse, quella notte in Algeria, siano stati eliminati dei testimoni scomodi». I parenti dei piloti non hanno mai creduto all’incidente. Furono loro stessi a cercare i primi testimoni, che sulle prime furono sottovalutati dagli investigatori. Mentre le ricerche si svolgevano a Sud, il testimone Giovanni Utzeri chiamò subito i carabinieri per dire «venite qui, è caduto a Feraxi», ma fu preso in considerazione solo due anni dopo.

«La magistratura è stata sempre ostacolata da altri apparati istituzionali – denuncia Pinna –, c’è stato un muro di silenzio attorno a questa vicenda». Con risvolti surreali. Nel maggio ‘94 l’avvocato Fenudi si recò in Procura e fece una amara scoperta: «Non era ancora stato aperto un fascicolo d’inchiesta». Più volte chiusa e riaperta, l’indagine del pm Guido Pani (oggi vice della Dda) è stata archiviata sei anni fa. Ma il reato di omicidio volontario non cade in prescrizione, se spunteranno elementi nuovi la Procura si riattiverà. Per ora, dal 1994 a oggi, gli unici indagati sono stati proprio Sedda e Deriu. La procura militare, con grande solerzia, li accusò immediatamente di “perdita colposa di aeromobile”. Uno sfregio che nessuna medaglia al valore potrà mai cancellare…

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L’Ustica sarda: il grande mistero dell’elicottero “Volpe-132” – Piero Mannironi

Giovanni Utzeri era un uomo minuto, fragile. Il suo viso era affilato, duro come il cemento, scavato da tristi rughe di fatica. Aveva cercato fortuna e speranze nelle miniere di carbone del Belgio e poi era tornato nel suo Sarrabus a guadagnarsi la vita come giardiniere nei villini che, tra i macchioni di mirto e di corbezzolo, si affacciano sulla dolce rada di Feraxi. La sera del 2 marzo 1994 fu testimone di una tragedia che oscuri ambienti dello Stato cercano di nascondere da 25 anni: l’abbattimento di un elicottero A-109 della Guardia di Finanza, nome in codice “Volpe 132”. A bordo del velivolo c’erano il maresciallo Gianfranco Deriu, 42 anni di Cuglieri, e il brigadiere Fabrizio Sedda, 27 anni di Ottana. I loro corpi non sono mai stati ritrovati, come è scomparso misteriosamente nel nulla anche l’elicottero. Come se una mano invisibile avesse cancellato tutto.

Ma lui, Giovanni Utzeri, con la sua voce graffiata, ha sempre raccontato la sua verità scomoda, che forze occulte da molti anni cercano di nascondere. Come un disco rotto ha ripetuto la sua versione, senza mai cambiare una parola. Con coerenza, onestà e con grandissimo coraggio. «L’elicottero mi è passato sulla testa – raccontava – e si è fermato proprio sopra quella nave porta-container che era alla fonda da almeno due giorni. Dopo ho sentito che il motore prendeva giri, come se l’elicottero cercasse disperatamente di sollevarsi. E poi… Poi quella terribile esplosione». E, tenendosi la testa tra le mani e dondolandosi lentamente, diceva: «Boom! Me la sento ancora dentro la testa quell’esplosione. Povere anime, povere anime».

Ecco perché questa brutta storia di giustizia negata che sembra nascondere segreti inconfessabili, merita di essere raccontata proprio partendo da lui. Da questo anonimo giardiniere che, per primo, ha impedito che la morte di due servitori dello Stato in divisa svanisse, perdendosi nella nebbia densa e opaca di silenzi assordanti e di maldestri depistaggi. Un caso ormai conosciuto come “l’Ustica sarda”.

La rivincita di Utzeri è arrivata nel febbraio del 2013, quando è approdata davanti al Gip di Cagliari la perizia redatta dai segugi del Reparto investigazioni speciali dei carabinieri e dal professor Donato Firrao del Politecnico di Torino. Analizzando i pochi pezzi di metallo accartocciati, recuperati nel mare davanti a Capo Ferrato due giorni dopo la tragedia, i periti hanno trovato le tracce di un’esplosione. “Volpe 132”, dunque è stato abbattuto. E la procura di Cagliari da allora non indaga più per “disastro aviatorio”, ma per “duplice omicidio volontario”.

Ha trovato così finalmente una legittimazione probatoria la testimonianza di Giovanni Utzeri. E con la sua, anche quelle di altri testimoni oculari: il pensionato di Villacidro Gigi Marini, l’ex assessore comunale di San Vito Antonio Cuccu e il pastore di Burcei Giuseppe Zuncheddu. Dichiarazioni che, inspiegabilmente, erano state omesse nella relazione tecnico-formale dell’inchiesta militare e poi fatte riemergere dal lavoro della procura e dalla spinta di alcune inchieste giornalistiche.

Utzeri, Marini, Cuccu e Zuncheddu da punti di osservazione diversi hanno raccontato di avere visto e sentito l’elicottero arrivare la sera del 2 marzo 1994 nella rada di Feraxi tra le 19.30 e le 19.45, dove era alla fonda da due giorni una misteriosa nave porta-container. Poi, una vampata di luce nel cielo, il fragore di un’esplosione e il rumore sordo delle eliche della nave misteriosa che prendeva il largo con le luci di bordo spente. Dichiarazioni certo credibili, perché riferite da persone diverse che (a parte Cuccu e Marini) neanche si conoscevano tra loro. E soprattutto drammaticamente coincidenti e sempre uguali nel tempo.

È così emerso in modo crudo lo “strappo” tra il racconto di queste persone normali, casuali testimoni di un delitto, e la versione ufficiale che deraglia verso un quadro incerto e nebuloso tra affermazioni contrastanti, omissioni di testimonianze e l’inspiegabile ricorso al segreto di Stato, poi scardinato dalla procura.

I quattro testimoni fissano due certezze: l’orario e il luogo della tragedia. E cioè tra le 19.15 (ultima comunicazione registrata tra l’elicottero e la base di Elmas) e le 20 nella rada di Feraxi, a nord di Capo Ferrato. Da qui ecco nascere una catena inquietante di conseguenze. La prima è che il relitto dell’elicottero non è nei fondali dove i testimoni dicono dovrebbe essere. E l’unica spiegazione plausibile di questo mistero è che qualcuno l’abbia spostato. Domanda conseguente: chi e perché? Ancora non c’è una risposta. È comunque del tutto evidente che chi l’ha fatto era dotato di mezzi e di organizzazione.

E infine, la nave. I quattro testimoni ne parlano dettagliatamente. Marini racconta con precisione gli spostamenti in rada della porta-container dalla mattina alla sera, indicando il punto preciso in cui si trovava al momento dell’abbattimento di Volpe 132. Cuccu, esperto uomo di mare, addirittura la riconosce subito e senza incertezze. Davanti a una fotografia della Lucina (il cargo che fu teatro dell’orrenda strage del suo equipaggio nel luglio di quello stesso anno nel porto di Djendjen, in Algeria) non ha dubbi: «Sì, la nave era questa. Non ho dubbi perché la conoscevo molto bene: da anni veniva a Feraxi, sempre nello stesso periodo dell’anno».

E che dire delle affermazioni delle autorità militari del poligono interforze del Salto di Quirra? Sostengono di non aver visto la nave misteriosa. E comunque, «se anche ci fosse stata, era sicuramente fuori dall’area controllata del poligono a mare». Circostanza, questa, clamorosamente smentita dalle verifiche fatte dalla polizia giudiziaria. È importante ricordare che tutti i radar che controllano il mar Tirreno quella sera erano spenti o non funzionanti. Quello di Monte Codi, nel poligono del Salto di Quirra, spense stranamente i suoi “occhi elettronici” alle 19.14. Cioè un minuto prima dell’interruzione delle comunicazioni radio tra “Volpe 132” e la sala operativa. di Elmas. Un’incredibile coincidenza.

L’infinita catena di stranezze nella torbida vicenda dell’elicottero “Volpe 132” comincia il 9 giugno 1994, quando il sostituto procuratore della Repubblica Guido Pani, che ha in mano l’inchiesta penale sulla scomparsa del velivolo, chiede allo stato maggiore dell’Aeronautica militare una copia della relazione della commissione d’inchiesta militare. Tredici giorni dopo, riceve una nota firmata dal generale Luciano Battisti, con la quale viene informato che il documento è classificato “riservato” e perciò non può essere trasmesso. Come se non bastasse, il giorno dopo arriva sulla sua scrivania una comunicazione dall’Ufficio centrale per la sicurezza della presidenza del Consiglio dei ministri. Nel documento si dice che la relazione è considerata “classificata” con la criptica sigla PCM-ANS 1/R. Sottoposta cioè alle norme per la tutela del segreto di Stato.

È il primo segnale evidente che qualcuno sta cercando di “blindare” il caso dell’elicottero Volpe 132. Il magistrato riesce però a forzare l’opposizione governativa perché la legge 801 del 1977 aveva cancellato sia il segreto politico che il segreto militare, assorbendoli nel segreto di Stato. E la procedura seguita da Palazzo Chigi non era stata quella corretta. La sorpresa arriva quando il magistrato legge la relazione: non c’è assolutamente niente. Niente che possa giustificare la “classificazione” del documento, che si conclude con una generica ipotesi di incidente o errore umano.

E poi la relazione “tecnico- formale” delle autorità militari è incredibilmente incompleta, contraddittoria e ricca di vuoti che sembrano voragini. Non c’è infatti neppure un accenno alle testimonianze di Utzeri e di Marini (Cuccu e Zuncheddu parleranno dopo).

È contraddittoria perché, nella premessa, si parla di una “missione di ricognizione costiera notturna per la repressione di traffici illeciti”, che successivamente viene negata. Altra insanabile contraddizione: nella relazione viene prima scritto che l’elicottero avrebbe dovuto operare in modo coordinato con una motovedetta del corpo (la Colombina G63), mentre poi lo stesso equipaggio (con dichiarazioni fotocopia) smentisce la circostanza.

L’unica certezza è che alle 19.15 viene registrato l’ultimo contatto radio tra Volpe 132 e la centrale operativa. Il maresciallo Deriu comunica: «Ci dirigiamo sugli obiettivi segnalati sul radar». Poi più nulla. Solo alle 19.52, dopo un lunghissimo e inspiegabile silenzio, la sala operativa cerca di mettersi in contatto con l’elicottero: «Volpe 132, Volpe 132». Non ci sarà nessuna risposta. Forse in quel momento Deriu e Sedda sono già morti.

È in quella totale assenza di comunicazioni radio che si addensano pesantissimi sospetti. «L’elicottero era in zona d’ombra» diranno poi le autorità militari. Deriu e Sedda non potevano dunque sentire e non potevano essere sentiti. La centrale operativa misteriosamente tace per quasi 40 minuti, non cerca il contatto con l’elicottero, non fa neppure un tentativo mentre è in corso un’operazione notturna. Strano se non addirittura inquietante.

Ma è la testimonianza del pastore di Burcei Giuseppe Zuncheddu a mettere seriamente in dubbio la tesi della “zona d’ombra”. Perché lui dice di avere visto Volpe 132 passare sopra il suo ovile sulle colline, dopo aver sorvolato Punta Moitzus e Bruncu Comidai del massiccio dei Sette Fratelli, prima di tuffarsi nel canalone di Campuomu. L’A-109 di Deriu e Sedda aveva quindi raggiunto a una certa quota e perciò, almeno fino alle 19.30, non poteva essere “nascosto” dalle montagne.

C’è poi un’altra storia ambigua che si intreccia con quella di Volpe 132. Ed è un elemento di sospetto in più sui tentativi di occultamento della verità e di depistaggio. A pochi giorni dalla scomparsa dell’elicottero di Deriu e Sedda, sparisce dalla zona industriale di Oristano un altro elicottero. Si tratta, guarda caso, di un A-109 identico a Volpe 132. Sarà ritrovato dalla polizia un mese dopo in un capannone vicino a Quartu. Sembra su segnalazione di un ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare.

Manca parte dell’avionica che era stata smontata e che sarà poi ritrovata dopo una segnalazione confidenziale. All’inizio la vicenda sembra un’insolita disputa commerciale tra due società: la Siam Leasing e la Wind Air. Quest’ultima avrebbe sottratto il velivolo al sequestro chiesto dalla prima società, che le aveva ceduto l’elicottero in leasing. Il processo, per appropriazione indebita, si chiude a Oristano prima ancora di aprirsi, a causa dell’inerzia nell’azione legale civile da parte della Siam Leasing, società controllata dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura

La procura di Cagliari sospetta che qualcuno volesse cannibalizzare quell’elicottero e usarne alcuni pezzi – probabilmente proprio l’avionica – per depistare le indagini su Volpe 132. Cioè facendoli trovare molto più a sud dal luogo dell’abbattimento. Wind Air aveva tutte le caratteristiche di una società di copertura dei servizi segreti. Il suo rappresentante legale, Costantino Polo è un fantasma. Forse addirittura non è mai esistito. Risulta nato in Corsica e tutti i suoi domicili dichiarati in Italia risultano falsi. La società non ha mai presentato un bilancio e sua sede romana, in via della Tribuna di Campitelli al numero 23, è in un elegante stabile che, dai documenti dell’Agenzia del Demanio, risulta appartenere al ministero dell’Interno, «in uso per comprovate ed effettive finalità istituzionali; dettaglio motivazione: Polizia di Stato».

E poi le microspie. Due cimici sofisticatissime vengono trovare nell’appartamento romano del deputato di Forza Italia Pergiorgio Massidda che, insieme al democratico Angelo Altea, aveva presentato la prima interrogazione parlamentare sul caso Volpe 132. Una delle microspie era addirittura occultata in una Bibbia.

Resta solo da dire che il cuore di questo mistero italiano dimenticato è la nave Lucina, che la sera del 2 marzo 1994 era a Feraxi. Il suo nome è legato a un destino di sangue. Nella notte tra il 5 e il 6 luglio di quel 1994 maledetto i sette uomini dell’equipaggio vengono sgozzati nel sonno nel porto di Djendjen, in Algeria. La tesi ufficiale, cioè quella di un massacro organizzato dagli estremisti islamici, non ha mai convinto molto, perché quello era un porto controllato dalle forze armate algerine. La verità sulla carneficina resterà molto probabilmente sepolta per sempre.

È infatti sfuggita in un processo bruciatosi in appena due giorni ad Algeri e conclusosi con una sentenza che a tutti è apparsa “politica”. Inutilmente la procura di Trapani ha tentato di riaprire il caso. L’unica cosa certa è che sono sparite 600 tonnellate di carico. Ufficialmente grano, ma molto più probabilmente altro. Armi e rifiuti radioattivi? Forse.

Un membro dell’equipaggio della Lucina scampò alla morte, perché non era riuscito a imbarcarsi per un contrattempo. Si tratta di Gaetano Giacomina, di Oristano, un agente della struttura supersegreta Gladio, che per anni era stato infiltrato proprio in Algeria. Giacomina, nome in codice G-65, morirà in uno strano incidente, nel 1998, nell’isola di Fogo, nell’arcipelago del Capo Verde. Il suo corpo non è mai stato identificato.

Più che nascosto da un muro di gomma, il mistero della scomparsa dell’elicottero “Volpe 132” sembra dunque essere precipitato in un buco nero. Una stella collassata che, indifferente, inghiotte tutto: testimonianze, dubbi, incongruenze, paure e speranze. Dietro tutto questo, si intuisce una strategia, un oscuro disegno ancora tutto da chiarire: far scorrere il tempo, lasciando che gli anni seppelliscano un ricordo e facciano dimenticare la ferita dolorosa di una giustizia negata.

da qui

 

 

 




QUI si può vedere il film completo Il grano e la volpe, di Vincenzo Guerrizio e Raffaele Manco

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