«Dovevamo arrestarci l’un con
l’altro»
di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
Il sequestro Dozier ed altre storie
·
Nell’appartamento veronese entrano in quattro,
travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la
immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un
pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso
Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di
40 giorni[1].
È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee
Dozier, generale statunitense NATO[2],
le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più
spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di
Mario Moretti[3].
Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori
parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e
quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono
essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa
dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova
all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono
dall’Austria. I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di
una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA
basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di
Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e
proprie bufale.
È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA
e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona
il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto
Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori.
Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il
capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le
operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia
non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per
trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti. Nessun
timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una
storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.
Finalmente può partire la caccia ai rapitori del
generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.
Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario
dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il professor De Tormentis secondo la definizione che
gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei
“cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare. Ha già
torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio
Foà a Roma[4] e
questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni
perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che
siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e
pugni, saranno torturati.
Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre
a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio
Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già
fatto a Triaca.
Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via
Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui
vive il prigioniero.
Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del
luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di
telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del
generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto,
affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.
Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che
viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di
tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra. I poliziotti hanno un
luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in
affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi
uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De
Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero.
Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una
militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta
Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di
battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da
Verona a Padova.
Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano
all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre
Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata
mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un
manganello nella vagina. Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo
caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto
ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].
Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del
NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia
italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà,
immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare
Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra.
I brigatisti vengono messi pancia a terra sul
pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani
legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi
di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor
più efficace camminare sopra i loro corpi.
Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i
polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la
gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere,
alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.
Su quel pianerottolo gli arrestati restano una
infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande
edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio
di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella
palazzina del II reparto celere di Padova.
Il senso di impunità è talmente smisurato che il
comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero
su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori
di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza,
quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.
I cinque detenuti dovranno «essere costantemente
legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far
avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà
assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno
pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali
identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in
bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa
superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del
personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi».
L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per
annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il
servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6].
La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura
inizia a produrre i suoi risultati.
«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al
sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la
interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La
brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione.
Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”.
«Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e
riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno
appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella
vagina. Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la
militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a
svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito
chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco.
In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a
restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto
che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno
violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il
“cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di
Barbara Balzerani.
Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi,
capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la
fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone
nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di
Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale
e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.
Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene
colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette
sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che,
dicono i poliziotti, è già morto. Poi arrivano i «giustizieri» (così si
presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e
minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a
loro non interessa, sono giustizieri[7].
I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in
un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli
fanno firmare un verbale.
Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente
malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio)
vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di
saltare il fosso e collaborare.
E così, già quella notte, forniscono le prime
informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la
base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione
strategica.
Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla
tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo
arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma
il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed
allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati.
I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla
pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo
fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e
sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la
testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle
pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli
al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro.
A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i
suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i
verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora
bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il
sostituto procuratore veronese per gli interrogatori. I poliziotti sono delusi.
Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato
nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare
la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare».
Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai
piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli
occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di
un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di
mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo
per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in
una una campagna nei dintorni di Padova.
Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione:
il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una
voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola.
Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto
in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8].
Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso
su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la
bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e
poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando,
il corpo trema, grida. Si fermano. Mentre viene torturato il brigatista sente
qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni
precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel
capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di
convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor
Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva
torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].
I brigatisti non vengono portati in carcere ed il
sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli
uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno
anche Libéra, Ciucci e Frascella. Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio,
Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire,
vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28
febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente
del Tribunale di Verona.
Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati
per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel
febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo
segreto.
Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca
Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite
da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista
dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i
confini delle province di Padova e Verona. A Mestre, nel II distretto di
Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e
Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette
che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver
«ripulito il Veneto»[10].
Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni
risponde seccamente: «...sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti
i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono
totalmente false».
Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura
Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema
dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica
«non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente
«il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di
«rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e
sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle
violenze denunciate».
Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai
militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai
giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i
funzionari di Polizia che li hanno arrestati. Quando arriva il suo turno,
Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato,
subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a
Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E
giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto
altri risultati. Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata
l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava:
«Vi dirò tutto!».
Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di
Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica,
sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a
Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.
Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta,
Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di
rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze - consegnano un memoriale al
Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma
assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo
l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno
denunciato». E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare
dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine
ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono
l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese
si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti”
denunciano le torture[11].
A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura democratica,
che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed
esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12],
ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi
indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo
veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato
alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho
ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di
abusi...» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più
piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia
giudiziaria».
Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole
alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno
rassicuranti. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle
tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi
accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un
sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato
una involuzione autoritaria e repressiva[13].
E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa
prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli
interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle
forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per
giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli
avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle
famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si
chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di
affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in
carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli
interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti
dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono
denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede
all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che
riceverà.
Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio
Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad
arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e
propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di
polizia.
I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel
SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a
gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo
’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura,
incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di
una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un
terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».
Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno,
inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della
organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale
lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata
analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di
scontro») e degli effetti che sta producendo.
Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio
Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici
metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta
profilando come una vera e propria emergenza democratica[14].
Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti
alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e
nella caserma della celere.
Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano,
ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e,
attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una
invenzione.
Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani
firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra
i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di
concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.
Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e
monta la rabbia contro i magistrati.
Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per
i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del
Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del
commissario arrestato. Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea
permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose
iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno
ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento»,
tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.
Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai
magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti,
solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale. Salvatore
Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del
PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere
l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi,
nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio
De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato.
Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che
hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano
l’utilizzo di metodi illegali.
Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto
dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa,
cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra
poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale
UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione,
addirittura affettuoso…»[15].
Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai
funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio,
Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli
imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16].
I brigatisti e i militanti di altre formazioni
picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e,
dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti
ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una
operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire
informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova,
quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto. Anzi, molte di queste violenze,
in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi
avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause
scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in
balia dei torturatori.
Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che
riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza
commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte
da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli
autori delle violenze[17].
Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino”
Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa
cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive
le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci,
Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono
i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18].
A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto
fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con
l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].
Le parole del commissario non scatenano la reazione
veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa
replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che
sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe,
con ammissioni, a volte, sorprendenti. È il caso di Giordano Fainelli, ex
ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero
Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta
Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a
Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un
trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava
in carcere[20].
Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato,
ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri
colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era
anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia
collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].
A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato
intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe
politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della
legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e
psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi,
sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura». La
magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del
water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei
trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come
strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute
particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni
Ottanta»[22].
Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato
sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica
della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di
stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle
inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva
sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.
Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel
senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa
intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza
infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le
organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in
cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una
brigatista».
[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e
trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi,
Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una
avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella
fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il
sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022.
[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo
di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa
meridionale.
[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR
matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene
espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4
aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno
vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani.
Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista
Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in
quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro
Dozier.
[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario
di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale
miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni
dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la
calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.
[5] La dettagliata descrizione delle torture
inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è
contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier
Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione.
[6] L’ordine di servizio del comandante del II
reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o,
quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati,
tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni,
di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro
che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione
sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti
usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi
mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni
’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già
bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di
tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il
metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento
inumano e degradante.
[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo
di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di
Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”.
[8] Intervistati per la docu-serie Il
sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e
Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla
finta fucilazione era vero.
[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella,
Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del
Tribunale di Padova del 15 luglio 1983.
[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il
rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del
28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci
sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del
18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della
magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro
fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di
violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano
Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni.
[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25
marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier:
Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini,
Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di
Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra,
Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca.
[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il
Manifesto dell’11 marzo 1982.
[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei
deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di
violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente
quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino,
Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.
[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente
Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti
Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM.
[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i
giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro
comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro
preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».
[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres.
Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano,
maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna
venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi
e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del
trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di
Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza
privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la
condanna.
[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di
Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di
condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico
Triaca venne torturato.
[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8
gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura»
in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera
all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato
Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono
il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni,
Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo.
[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che
contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì
dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del
24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così
torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5
aprile 2012.
[20] Michele Galati, componente della colonna veneta
delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al
PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po' di
tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed
altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione
delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva
informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale
statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.
[21] Intervista di Giordano Fainelli al
quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore
Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma
complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del
Viminale.
[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di
Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia,
il Mulino, 2013.
I tormenti e la calunnia - Pino Narducci
«…Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna…Dopo una mezz’ora circa…il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e cominciò il trattamento. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca…Nessuno parla tranne De Tormentis che dà ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande…poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti del male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli dai nervi…uno, due, tre spasmi e De Tormentis ordina di smettere…all’ennesimo stop un’altra voce che dice di smettere, che può bastare…De Tormentis invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato…vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in Questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza…».
Sono trascorsi nove giorni dalla uccisione di Aldo
Moro, ma le prime informazioni sui militanti brigatisti del Tiburtino l’UCIGOS
le ha raccolte alla fine di marzo (forse da un confidente, forse, ipotizzano
altri, dai militanti della Sezione PCI del quartiere) ed i pedinamenti
producono risultati inaspettati.
La mattina del 17 maggio ’78, agenti UCIGOS e Digos
perquisiscono la casa dove Enrico Triaca vive con la moglie ed altri familiari.
Mentre alcuni poliziotti restano nell’appartamento, altri conducono il
sospettato nel quartiere Monteverde, in via Pio Foà 31, perché, secondo
l’ordine del sostituto procuratore generale di Roma, bisogna perquisire anche
la tipografia di cui Triaca è titolare dai primi mesi del ’77.
La vicenda della perquisizione – quella che consegnerà
Triaca alla storia italiana come “il tipografo delle BR” – è arcinota.
Nella tipografia sono stati stampati molti documenti
delle Brigate Rosse ed i poliziotti trovano anche alcune banconote che
provengono dal sequestro dell’armatore genovese Pietro Costa, rapimento dal
quale le BR hanno ricavato un riscatto di un miliardo e mezzo.
Molto meno noto è quello che accade nelle ore
successive.
Nel pomeriggio del 17 maggio, davanti a due funzionari
Digos, Riccardo Infelisi e Adelchi Caggiano, Triaca racconta che un fantomatico
Giulio delle BR lo ha convinto ad aprire la tipografia e gli ha procurato tutto
il denaro servito per avviare l’attività e comprare i macchinari. Sottoscrive
il verbale, ma precisa che non ha alcuna intenzione di riconoscere la persona
che si è presentata a lui come Giulio. Dunque, è inutile che i poliziotti si
presentino con le fotografie.
Alle 18:20, la moglie di Triaca, Anna Maria Gentili,
viene dichiarata in stato di fermo, anche se, in verità, a suo carico non
esiste alcun elemento che dimostri la sua appartenenza alle BR, ma solo il
sospetto, che si rivelerà infondato, che sia stata lei a scrivere una
risoluzione BR[1].
Alle 20:30, i poliziotti procedono al fermo di Triaca
per partecipazione alla banda armata denominata Brigate Rosse, ma il tipografo
di via Foà, quella sera, non arriva a Rebibbia né in altri penitenziari e,
inghiottito nella notte romana, riemergerà solo due giorni dopo.
Il 18 maggio, salta fuori una dichiarazione che Triaca
ha redatto personalmente, con la macchina da scrivere, negli uffici della
Digos.
Il brigatista vuole precisare quanto, in precedenza,
ha già detto a voce ai poliziotti e soprattutto che, nella mattinata, ha
segnalato alla Digos una abitazione nella quale vivono due brigatisti, Antonio
Marini e una donna, Gabriella, che scrive i comunicati BR con una IBM proprio
in quell’appartamento.
Il Vice Questore Aggiunto Michele Finocchi aggiunge
una sua annotazione sullo stesso foglio scritto da Triaca ed attesta che è
stato l’arrestato a scrivere spontaneamente la dichiarazione che lui riceve
alle 13:00 di quel 18 maggio.
Esiste un’altra dichiarazione, più succinta, sempre
scritta personalmente e firmata dal brigatista.
Accusa Maurizio, cioè Mario Moretti, di aver dato a
Gabriella denaro per comprare l’abitazione e conferma che in quella casa si
preparano le bozze delle risoluzioni della direzione strategica.
A differenza del primo, su questo secondo foglio non
compare alcuna attestazione del funzionario della Digos.
Molte ore prima, alle 5:30 del 18 maggio, in via
Palombini 19, i poliziotti hanno già perquisito l’appartamento di Antonio
Marini e Gabriella Mariani, nella stessa giornata arrestati per appartenenza
alle Brigate Rosse.
Il 18 e il 19 maggio, i Giudici istruttori interrogano
Triaca che conferma le accuse già fatte il giorno 17 e ne aggiunge altre.
Il 9 giugno, nel carcere di Rebibbia, Triaca incontra
di nuovo il Consigliere Istruttore Achille Gallucci. Il detenuto esordisce
usando parole inusuali («Non mi resta che confermare quanto ho dichiarato ai
magistrati nei miei interrogatori allorché mi fu contestato il reato di banda
armata»), quasi a dare il senso di una sorta di “ineluttabilità” di quello che
sta facendo (la confessione e, soprattutto, le accuse ad altre persone) e che,
in realtà, nel suo intimo, il tipografo non avrebbe alcuna intenzione di
compiere.
Poi, rispondendo ad una domanda del giudice, l’interrogato
comincia a prendere le distanze, anche se in maniera non ancora risolutiva,
dalle dichiarazioni spontanee del giorno 17 maggio.
Il contenuto dei fogli corrisponde alle sue
dichiarazioni, ma lui ricorda di aver scritto sotto dettatura di un poliziotto
ed a seguito di domande che gli vengono fatte.
Il 19 giugno, a Rebibbia, Triaca incontra di nuovo il
giudice Gallucci e ritratta le sue dichiarazioni perché, così esordisce, dopo
essere stato prelevato dal Commissariato di Castro Pretorio e portato in un
luogo sconosciuto, gli sono state estorte con la tortura dell’acqua e sale.
Spiega di aver dattiloscritto lui, il giorno 18 maggio, nella Questura, le due
dichiarazioni spontanee, la prima la mattina, la seconda il pomeriggio e
comunica al giudice che non intende più rispondere alle domande.
Il capo dei giudici istruttori romani dispone che una
copia del verbale sia trasmessa alla Procura, ma, al tempo stesso, decide
immediatamente anche quale sarà il tema che l’istruttoria dovrà sviluppare
perché avvisa Triaca che è indiziato del reato di calunnia in danno di
imprecisati pubblici ufficiali.
L’indagine, quindi, non dovrà accertare dove il
brigatista ha trascorso la notte tra il 17 e il 18 maggio né se ha subito
violenze, ma dovrà solo ricercare elementi che possano ulteriormente dimostrare
che Triaca ha inventato tutto ed ha accusato persone innocenti.
Per il brigatista, infatti, arrivano il mandato di
cattura per il reato di calunnia ed il rinvio a giudizio. Nell’autunno
’78 si celebra il processo di primo grado.
Davanti ai giudici della VIII Sezione del Tribunale di
Roma sfilano i funzionari di Polizia (il dirigente della Digos, Domenico
Spinella, e poi Michele Finocchi, Adelchi Caggiano e Riccardo Infelisi) che si
sono occupati di Enrico Triaca il 17 e il 18 maggio ’78.
Secondo la versione che essi forniscono ai giudici,
dopo la perquisizione nella tipografia, Triaca viene condotto direttamente
nella caserma della Polizia di Castro Pretorio, ma poi, tra le 16:00 e le
17:00, torna negli uffici Digos per l’interrogatorio. Resta nei locali della
Digos durante la notte e la mattina del 18 maggio, dopo aver reso spontanee
dichiarazioni ed aver indicato dove si trova l’abitazione di Gabriella Mariani,
verso le 6:00 viene affidato agli uomini che gestiscono le camere di sicurezza
della Questura di Roma.
Sulle modalità attraverso le quali il tipografo ha
redatto le dichiarazioni spontanee, i poliziotti sostengono che ha scritto,
contestualmente, i due fogli con la macchina da scrivere e li ha poi consegnati
al funzionario Michele Finocchi che, tuttavia, non si è avveduto del secondo
foglio dattiloscritto e non vi ha apposto la sua attestazione.
Fallisce ogni tentativo di identificare gli agenti
della PS che hanno avuto in custodia il brigatista nelle camere di sicurezza
perché, all’epoca, non esistono registri delle loro presenze.
Il 7 novembre ’78, il Tribunale condanna Enrico Triaca
alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione perché ha accusato falsamente
i poliziotti di averlo torturato per estorcergli le dichiarazioni del 18 maggio
’78.
La condanna diventa irrevocabile nel 1985 e la vicenda
scivola nell’oblio per molti anni.
Nella prima parte degli anni ’80, nei processi per
fatti di terrorismo, si moltiplicano i casi di denuncia per tortura. Ma se la
magistratura, a differenza di quanto è successo al tipografo di via Foà, quasi
mai procede per il reato di calunnia, al tempo stesso, immancabilmente, le
inchieste non conducono mai ad un accertamento della responsabilità di pubblici
funzionari[2].
Poi, il 24 giugno 2007, il giornalista Matteo Indice,
su Il secolo XIX di Genova, pubblica un’intervista ad un
anonimo ex funzionario di Polizia. Il titolo del pezzo è emblematico: «Così ai
tempi delle BR dirigevo i torturatori - Torture per il bene dell’Italia».
Il funzionario è entrato in Polizia alla fine degli
anni ’50, ha lavorato in Sicilia e a Napoli, poi al nucleo antiterrorismo di
Emilio Santillo e all’UCIGOS. A Napoli intuisce che, per indagare con efficacia
sulle organizzazioni terroristiche, la soluzione migliore è mettere insieme
poliziotti che si occupano di criminalità comune e quelli che si occupano di
“politica”.
Ma non si tratta esattamente di un gruppo di raffinati
investigatori!
Racconta al giornalista di essere stato lui ad aver
costituito la squadra dei «cinque dell’Ave Maria» che fa il suo esordio, a
Napoli, contrastando i NAP-Nuclei Armati Proletari[3] e poi viene utilizzata per
altre operazioni antiterrorismo, sino a quella che porta alla liberazione del
generale americano James Lee Dozier, a Padova, nel gennaio 1982.
Le parole dell’intervistato sono agghiaccianti :
«…ammesso e assolutamente non concesso che ci si debba arrivare, la tortura –
se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni
per risolvere il caso, costi quel che costi…quelli dell’Ave Maria esistevano,
erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” di
interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti…poi quando l’intelligenza
viene definitamente offesa, ci sono i modi forti e a quel punto il sospettato
ha l’impressione d’essere in tuo completo dominio. Si vuole parlare di torture,
ma io direi che si trattava soprattutto di una messinscena praticata per
garantire la sopravvivenza a decine di persone…ero autorizzato e delegato ogni
volta a muovermi in questo modo dai miei superiori che riferivano al Capo della
Polizia e al Ministro dell’Interno[4]. Ci dicevano che era necessario
andare fino in fondo e noi gli risolvevamo i problemi. L’impiego dei miei
investigatori non era troppo ricorrente, ma coincideva sempre con i momenti
cruciali delle indagini…».
Il poliziotto rivendica di aver interrogato, con i
cinque dell’Ave Maria, il brigatista Ennio Di Rocco[5], di aver arrestato Giovanni Senzani
proprio grazie alle informazioni fornite da Di Rocco e di essere stato chiamato
in Veneto per le indagini sul sequestro Dozier[6].
Non manca un fugace riferimento alla vicenda del
maggio ’78: «…il tipografo Enrico Triaca fornì una serie di rivelazioni
impressionanti dopo che lo torchiammo…».
L’intervistato, di cui non si conosce ancora il nome,
rivela fatti di inaudita gravità.
Negli anni ’70, per combattere il terrorismo, la
Polizia di Stato ha creato una struttura clandestina di torturatori (la squadra
dell’Ave Maria) che interviene nel momento in cui è necessario estorcere
informazioni alla persona arrestata. La squadra al comando del funzionario ha
torturato i brigatisti Enrico Triaca ed Ennio Di Rocco ed ha operato in maniera
illegale nella imminenza della liberazione del sequestrato Dozier.
L’articolo di Matteo Indice squarcia il velo sulle
verità indicibili degli anni in cui lo stato italiano ha contrastato le
organizzazioni eversive.
La tortura e l’uso di altri metodi illegali e disumani
non sono stati il frutto di iniziative personali ed estemporanee di singoli
funzionari né il risultato di attività di settori “deviati” che hanno agito
all’insaputa dei vertici.
La squadra dei torturatori ha attuato un piano
politico-istituzionale in base al quale si è deciso di “legalizzare” la tortura
pur di raggiungere l’obiettivo di disarticolare il nemico.
Salvatore Genova, ex funzionario di Polizia, decide di
rivelare i fatti inconfessabili che ha nascosto anche quando è stato coinvolto,
nel 1983, nella indagine che il sostituto procuratore di Padova, Vittorio
Borraccetti, ha condotto sulle gravissime violenze esercitate dai poliziotti
sul brigatista Cesare Di Lenardo[7].
Racconta di essere stato mandato in Veneto, con altri
funzionari, durante il sequestro Dozier, per incarico di Gaspare De Francisci,
capo dell’UCIGOS. Le direttive ricevute sono quanto mai esplicite: bisogna
usare le manieri forti per arrivare, a qualsiasi costo, alla liberazione del
generale NATO ed ogni mezzo è consentito perché esiste la copertura
dell’autorità politica.
Genova ha visto all’opera De Tormentis e la sua
squadra durante le sedute di tortura dei brigatisti Nazareno Mantovani,
Elisabetta Arcangeli e Ruggero Volinia, il militante che, infine, indica il
covo in cui è tenuto prigioniero il generale statunitense[8].
È il giornalista Fulvio Bufi de Il Corriere
della Sera[9] a rivelare, finalmente, il
nome del professor De Tormentis. Si tratta del pugliese Nicola Ciocia, ex
funzionario di Polizia, poi, dal 1984, avvocato del foro napoletano. A Bufi
dice di essere «fascista mussoliniano» e così illustra i suoi metodi: «Bisogna
avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far
sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio…la lotta al terrorismo non
si poteva fare con il codice penale in mano…però non è vero che quei sistemi,
quelle pratiche sono sempre efficaci». Come nel caso di Triaca: «Lui non ha
parlato, quindi quei metodi non sempre funzionano».
Il tipografo brigatista decide di rivolgersi alla magistratura
per ottenere la revisione della sentenza di condanna per il reato di
calunnia.
Nel 2013, la Corte di Appello di Perugia accoglie la
richiesta del condannato e cancella la sentenza[10]. Triaca non ha commesso alcuna
calunnia perché è stato realmente torturato.
I giudici scrivono parole inequivocabili: «…un
funzionario all’epoca inquadrato nell’UCIGOS e rispondente al nome di Nicola
Ciocia, dopo aver sperimentato pratiche di waterboarding nei confronti di
criminalità comune, le utilizzò all’epoca del terrorismo nei confronti di
alcuni soggetti arrestati, al fine di sottoporre costoro ad una pressione
psicologica che avrebbe dovuto indebolirne la resistenza e indurli a parlare.
In più occasioni tali pratiche furono utilizzate nelle fasi del sequestro
Dozier e…propiziarono la liberazione del generale….Può dirsi acclarato che lo
stesso funzionario, conosciuto con il nomignolo di professor De Tormentis (a
quanto pare affibbiato dal Vice Questore Improta) fu chiamato a sottoporre alla
pratica del waterboarding anche Enrico Triaca che, del resto,
il 19 giugno aveva narrato di essere stato sottoposto ad un trattamento
esattamente corrispondente a quel tipo di pratica speciale, a base di acqua e
sale con naso tappato».
Nella seconda metà degli anni ‘70, i terroristi di
stato argentini praticano la tortura in modo sistematico e generalizzato nei
confronti degli oppositori. Nell’apprendimento dei metodi della «guerra
controrivoluzionaria», sono gli allievi più brillanti dei militari francesi che
hanno usate queste pratiche (la sinistra sequenza secuestro-tortura-desaparición)
durante la guerra in Indocina e poi, soprattutto, in Algeria, nella lotta
contro il Fronte di Liberazione Nazionale che lotta per l’indipendenza del
paese africano[11].
La sociologa argentina Pilar Calveiro[12],
nel fondamentale libro Poder y desaparición, analizza il rapporto
che si instaura tra carnefice e vittima, quel meccanismo che il professor De
Tormentis ha esaltato come il momento nel quale il prigioniero percepisce che
si trova sotto il completo dominio del suo aguzzino: «…la tortura, strumento
per “strappare” la confessione, strumento per eccellenza per produrre la verità
che ci si aspetta dal prigioniero, criterio di verità per fare in modo che il
soggetto si “spezzi”…la utilizzazione di tormenti aveva una funzione
principale: ottenere informazioni operativamente utili…la nudità del
prigioniero e il cappuccio che nascondeva il volto aumentavano il senso di
impotenza però, al tempo stesso, esprimevano la volontà di rendere trasparente
l’essere umano, violare la sua intimità – impadronirsi del suo segreto –
vederlo senza che egli possa vedere…I torturatori non vedono il volto della
vittima; tormentano corpi senza volto; castigano sovversivi, non essere umani.
C’è qui una negazione della umanità della vittima che è duplice: di fronte a sé
stessa e di fronte a coloro che la tormentano».
[1] Nel corso di una intervista realizzata da Enrico
Porsia per il video-reportage J’accuse-Torture di Stato, Triaca
racconta che, mentre viene torturato, per ottenere il suo completo
annientamento, i poliziotti gli dicono che riserveranno lo stesso trattamento
alla moglie.
[2] Tra i tanti casi di quel periodo, emblematico è
quello del militante delle BR-Partito Comunista Combattente, Alessandro Padula.
Arrestato il 14 novembre ’82, circa dieci giorni dopo si presenta nell’aula ove
si sta svolgendo il processo Moro 1 e denuncia di essere stato torturato da uomini
della Digos che hanno anche impedito che potesse presenziare alle udienze
precedenti poiché preoccupati di cancellare le tracce lasciate dalle sevizie
sul suo corpo.
[3] Il nappista Alberto Buonoconto, arrestato l’8
ottobre 1975, denuncia al Pubblico Ministero di essere stato lungamente
seviziato nelle stanze della Questura di Napoli. Accusa, tra gli altri, un
funzionario della Squadra Politica mentre, sul conto di Nicola Ciocia, dice di
non essere certo della sua presenza durante la seduta di tortura. Buonoconto si
suicida, nella sua casa napoletana, il 20 dicembre 1980.
[4] Nel 1982, il Capo della Polizia è Giovanni
Coronas e Virginio Rognoni è il Ministro dell’Interno
[5] Ennio Di Rocco, militante delle BR-Partito
Guerriglia, viene arrestato a Roma il 4 gennaio 1982. Quando il PM Domenico
Sica lo interroga, il brigatista si dichiara prigioniero politico e racconta
che la sera dell’arresto è stato condotto nella caserma di Castro Pretorio e
lungamente torturato per tre giorni da persone incappucciate, anche con il
metodo dell’acqua e sale. Cede alle torture e rivela fatti che riguardano la
propria organizzazione. Considerato un traditore, viene ucciso, a luglio di
quello stesso anno, nel carcere di Trani.
[6] Il generale James Lee Dozier presta servizio, a
Verona, presso il Comando NATO delle Forze Terresti del Sud Europa. Sequestrato
il 17 dicembre 1981 da un nucleo delle BR-Partito Comunista Combattente, viene
liberato il 28 gennaio 1982, a Padova, con una operazione dei NOCS della
Polizia di Stato.
[7] Nel 1983, non esiste nel nostro codice penale il
reato di tortura che sarà introdotto solo nel 2017. I giudici del Tribunale di
Padova, con la sentenza di primo grado del 15 luglio ’83, condannano i
poliziotti dei NOCS (ma non Salvatore Genova che, nel frattempo, è diventato
parlamentare del PSDI) per il reato di abuso di autorità contro arrestati o
detenuti (art. 608 cod. penale), punito con una pena blanda.
[8] La docu-serie Sky Original Il sequestro
Dozier - Un’operazione perfetta offre la ricostruzione più documentata
sulle vicende segrete che accadono durante le indagini e sull’uso della
tortura.
[9] L’articolo di Fulvio Bufi dal titolo “Sono io
l’uomo della squadra speciale anti BR” è stato pubblicato su “Il Corriere della
Sera” il 10 febbraio 2012
[10] La sentenza della Corte di Appello di Perugia,
Pres. Ricciarelli, viene emessa il 15 ottobre 2013.
[11] La giornalista Marie-Monique Robin, nel
documentario Squadroni della morte. La scuola francese, racconta
che furono gli ufficiali francesi a insegnare ai militari argentini le tecniche
più raffinate della tortura e che questi ultimi frequentarono specifici corsi
nella prestigiosa Ecole militaire a Parigi.
[12] Militante montonera, Pilar Calveiro viene
sequestrata, da un gruppo di militari dell’Aeronautica, il 7 maggio ‘77 e
tenuta prigioniera in tre centri clandestini di detenzione per circa un anno e
mezzo. In seguito, è stata in esilio, prima in Spagna, poi in Messico.
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