martedì 19 marzo 2024

L’insostenibile infinito genocidio a Gaza

 



articoli e video di Gideon Levy, Alberto Bradanini, Ralph Nader, Claudia Vago, Arturo Scotto, Duccio Facchini, Francesca Gnetti, Catherine Cornet, Marco Carnelos, Alessandro Scassellati, Ramzy Baroud, Massimo Mazzucco, Manlio Dinucci, Judith Butler, Danilo Tosarelli


QUI il video di Manlio Dinucci: “A Gaza dopo le bombe arrivano le ONG“

 

Caso UNRWA: un’altra bugia di Israele – Massimo Mazzucco

Diversi dipendenti palestinesi della UNRWA, rilasciati dopo una detenzione da parte di Israele, hanno raccontato di essere stato obbligati a mentire sulle presunte complicità dell’agenzia dell’ONU con Hamas, negli attacchi del 7 ottobre.

Come tutti ricorderanno, l’accusa di complicità negli attentati da parte di Israele era costata all’UNRWA la sospensione dei finanziamenti da parte di molti governi occidentali. Ebbene, non solo Israele non ha mai saputo fornire le prove di questa complicità, ma ora si scopre che alcuni suoi dipendenti, durante la prigionia, sono stati torturati, ricattati e obbligati a mentire su questo fatto.

Dall’articolo della Reuters leggiamo:

“L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi ha detto che alcuni dipendenti, rilasciati a Gaza dopo la detenzione israeliana, hanno riferito di essere stati costretti dalle autorità israeliane a dichiarare falsamente che l’agenzia ha legami con Hamas e che il personale ha preso parte agli attacchi del 7 ottobre.

Queste affermazioni sono contenute in un rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA) visionato da Reuters e datato febbraio 2024, che descrive dettagliatamente le accuse di maltrattamenti durante la detenzione israeliana da parte di palestinesi non identificati, tra cui diversi lavoratori dell’UNRWA.

Il documento afferma che diversi membri dello staff palestinese dell’UNRWA sono stati arrestati dall’esercito israeliano e aggiunge che i maltrattamenti e gli abusi che affermano di aver subito includevano gravi percosse fisiche, waterboarding e minacce di danni ai membri della famiglia.

“I membri del personale dell’Agenzia sono stati soggetti a minacce e coercizione da parte delle autorità israeliane durante la detenzione e hanno subito pressioni per rilasciare false dichiarazioni contro l’Agenzia, tra cui il fatto che l’Agenzia abbia affiliazioni con Hamas e che i membri del personale dell’UNRWA abbiano preso parte alle atrocità del 7 ottobre 2023. “, dice il rapporto.

“Oltre ai presunti abusi subiti dai membri del personale dell’UNRWA, i detenuti palestinesi hanno descritto in modo dettagliato percosse, umiliazioni, minacce, attacchi di cani, violenza sessuale e morte di detenuti a cui sono state negate le cure mediche”, afferma il rapporto dell’UNRWA.

L’UNRWA, che fornisce aiuti e servizi essenziali ai rifugiati palestinesi, è al centro di una crisi a causa delle accuse israeliane avanzate a gennaio secondo cui 12 dei 13.000 dipendenti di Gaza avrebbero preso parte all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre.

Le accuse israeliane hanno portato 16 paesi, compresi gli Stati Uniti, a sospendere i finanziamenti per 450 milioni di dollari dell’UNRWA, mettendo in crisi le sue operazioni. L’UNRWA ha licenziato alcuni membri del personale, affermando di aver agito per proteggere la capacità dell’agenzia di fornire assistenza umanitaria, ed è stata avviata un’indagine interna indipendente delle Nazioni Unite.

La Norvegia, che ha continuato a finanziare l’agenzia, ha dichiarato il 6 marzo che molti paesi che hanno sospeso i finanziamenti probabilmente ci ripenseranno e che i pagamenti potrebbero riprendere presto.

Reuters non ha potuto confermare in modo indipendente i resoconti di coercizione del personale dell’UNRWA e di maltrattamenti sui detenuti, sebbene le accuse di maltrattamenti concordino con le descrizioni dei palestinesi liberati dalla detenzione a dicembre, febbraio e marzo riportate da Reuters e altri media.

Interrogato dalla Reuters per un commento sulla serie di accuse contenute nel rapporto, un portavoce militare israeliano non ha risposto specificamente alle accuse di coercizione del personale dell’UNRWA, ma ha affermato che le forze di difesa israeliane agiscono in conformità con il diritto israeliano e internazionale per proteggere i diritti dei detenuti.”

E noi naturalmente ci crediamo.

da qui

 

 

Sull’Ipocrisia e il Genocidio: come Gaza ha smascherato l’Occidente come mai prima d’ora – Ramzy Baroud

Il Genocidio israeliano a Gaza sarà ricordato come il tracollo morale dell’Occidente.

Non appena è iniziata la guerra israeliana, in seguito all’Operazione Onda di Al-Aqsa del 7 ottobre, ogni quadro di riferimento morale o legale che Washington e i suoi alleati occidentali presumibilmente tenevano caro è stato improvvisamente abbandonato. I capi di Stato occidentali si sono precipitati in Israele, uno dopo l’altro, offrendo sostegno militare, politico e logistico, insieme ad un assegno in bianco al Primo Ministro israeliano di destra, Benjamin Netanyahu e ai suoi generali, per perseguitare i palestinesi.

Persone come il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, arrivarono addirittura a partecipare alla prima riunione del Consiglio di Guerra israeliano, in modo da poter prendere parte alla discussione che portò direttamente al Genocidio di Gaza.

“Sono qui davanti a voi non solo come Segretario di Stato degli Stati Uniti, ma anche come ebreo”, ha detto il 12 ottobre. L’interpretazione di queste parole è inquietante, non importa come vengano interpretate, ma in definitiva significa anche che Blinken ha perso ogni credibilità come americano, come politico o anche solo come essere umano imparziale.

Il suo capo, il Presidente Joe Biden, come in un ciclo infinito, ripete da anni che “non serve essere ebrei per essere sionisti”. Infatti, ha tenuto fede alla sua massima, dichiarando più e più volte:”Io sono un sionista”.

Come molti altri funzionari e politici statunitensi e occidentali, il Presidente degli Stati Uniti ha abbandonato del tutto le leggi internazionali e umanitarie, persino quelle del suo stesso Paese. La legge Leahy “vieta al Dipartimento di Stato e al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di fornire assistenza militare alle unità delle forze di sicurezza straniere che violano impunemente i diritti umani”. Invece, come Blinken, aderiva all’affiliazione tribale e alle nozioni ideologiche, che semplicemente aggiungevano benzina sul fuoco.

Sebbene siano “persone protette” ai sensi del Diritto Internazionale, i palestinesi sembrano superflui, di fatto, irrilevanti al punto che la loro morte collettiva appare fondamentale affinché Israele riacquisti la sua “deterrenza” e si protegga, nelle parole del Ministro della Difesa israeliano, Yoav Galante, contro gli “animali” di Gaza.

Se esistesse una parola più forte di ipocrisia, sarebbe quella da usare. Ma per ora dovrebbe bastare.

All’inizio della guerra, molti giustamente tracciarono un parallelo tra la reazione dell’Occidente a Gaza e la sua rabbiosa risposta alla guerra in Ucraina. Tuttavia, con l’aumentare del numero delle vittime, questo confronto sembrava inadeguato. Oltre 12.000 bambini sono stati uccisi a Gaza in 140 giorni di guerra, rispetto ai 579 nei due anni di guerra tra Russia e Ucraina.

Eppure, quando al capo della politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell, gli fu chiesto, a sorpresa, in un’intervista su Al-Jazeera il 20 novembre sulle violazioni del Diritto Internazionale a Gaza, ha offerto due risposte completamente diverse. “Non sono un avvocato”, ha detto, quando è stata messa in dubbio la legalità delle atrocità di Israele a Gaza. Quando l’intervistatore è passato a parlare dell’Operazione Onda di Al-Aqsa, Borrell non ha avuto scrupoli sulla questione. “Sì, lo consideriamo un Crimine di Guerra, l’uccidere civili in questo modo apparentemente senza alcuna ragione”, ha detto.

Interviste come queste non si sono quasi mai svolte nei media statunitensi, semplicemente perché pochi giornalisti dei media convenzionali si preoccupano o, più precisamente, osano mettere in discussione il macabro comportamento di Israele nella Striscia di Gaza.

Tuttavia, quando si sono presentate tali opportunità, la flagrante ipocrisia era impossibile da nascondere. Come, ad esempio, nei confronti di Matthew Miller, Portavoce del Dipartimento di Stato americano, in risposta alle accuse di stupro sia a Gaza che in Israele. Quando, il 18 febbraio, gli è stato chiesto delle accuse di stupro di donne palestinesi da parte dei soldati israeliani a Gaza, la sua risposta è stata che gli Stati Uniti hanno esortato Israele a “indagare in modo approfondito e trasparente sulle accuse credibili”.

Confrontate questo con la sua risposta a una domanda sulle accuse non verificabili di aggressioni sessuali da parte di israeliani contro palestinesi, sebbene sfatate anche dagli stessi media israeliani. “Hanno commesso uno stupro. Non abbiamo alcun motivo per dubitare di questi rapporti”, ha detto in una conferenza stampa il 4 dicembre.

Tali esempi vengono prodotti quotidianamente da centinaia di capi di Stato occidentali, alti funzionari e organizzazioni dei media. Anche adesso, quando il bilancio delle vittime ha battuto tutti i primati di brutalità nella recente storia umana, continuano a parlare del “diritto di Israele di difendersi”, ignorando volontariamente il fatto che Israele ha rinunciato a questo diritto non appena ha intrapreso questa prolungata aggressione, a partire dal 1948.

Infatti, il Diritto Internazionale sulle regole di guerre e occupazioni militari si colloca all’interno di un quadro, in particolare stabilito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, che esiste per difendere i diritti degli occupati, non il diritto dell’occupante…

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Il martirio di Aaron Bushnell ci interroga sulla nostra complicità nel genocidio di Gaza – Alessandro Scassellati

L’autoimmolazione di un 25enne statunitense in servizio militare attivo, l’aviatore Aaron Bushnell, che si è cosparso di benzina davanti all’ambasciata israeliana a Washington DC e si è dato fuoco domenica pomeriggio 25 febbraio, ha rappresentato un atto estremo di protesta contro l’intervento militare israeliano genocida a Gaza, un appello disperato per la “Palestina libera”, urlato mentre le fiamme avvolgevano il suo corpo.

Nel suo live streaming, trasmesso sulla piattaforma Twitch, poco prima di darsi fuoco Bushnell ha dichiarato “Sono un membro in servizio attivo dell’aeronautica degli Stati Uniti e non sarò più complice del genocidio”. “Sto per intraprendere un atto estremo di protesta. Ma rispetto a ciò che le persone hanno vissuto in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è ciò che la nostra classe dirigente ha deciso sarà normale”. Dopo aver posato il telefono, appoggiandolo per continuare a filmare, si è versato sulla testa un liquido infiammabile da una bottiglia, poi ha indossato il cappello mimetico e ha usato un accendino per darsi fuoco, gridando più volte: “Palestina libera”. Bushnell è morto in un vicino ospedale circa nove ore dopo.

Mentre Bushnell bruciava davanti all’ambasciata israeliana, un agente nero dei servizi segreti intervenuto sulla scena ha tentato di spegnere le fiamme con un estintore. Un altro poliziotto bianco gli ha puntato contro una pistola, urlandogli l’ordine di mettersi a terra. È un’immagine difficile da scacciare dalla mente: anche se è una questione di politica dei servizi segreti puntare una pistola contro tutto ciò che potrebbe essere considerato pericoloso, l’agente ha avuto qualche lampo di riconoscimento che la persona di fronte a lui stava vivendo un dolore straordinario? Lo vedeva davvero come una persona o solo come una minaccia? L’agente nero ha urlato a quello bianco con la pistola: “Non abbiamo bisogno di pistole, ma di estintori!”, una frase che può essere considerata anche una metafora dei bisogni dell’attuale situazione geopolitica globale.

Bushnell era rimasto profondamente deluso dal ruolo militare degli Stati Uniti e dal suo ruolo di membro delle forze armate. Tra i suoi messaggi sulla chat di Reddit e su Facebook aveva scritto: “Sono stato complice del violento dominio del mondo e non mi toglierò mai il sangue dalle mani”. Era cresciuto in una comunità cristiana isolata nel Massachusetts e poi si era arruolato nel maggio 2020, iscrivendosi ad un corso di “Formazione tecnica e di base” dell’Aeronautica Militare. Tre anni dopo era ormai convinto di aver commesso un enorme errore, ma aveva deciso di resistere fino alla fine del suo contratto quadriennale (era diventato uno specialista in operazioni di difesa informatica in Texas). I suoi post sono diventati sempre più filo-palestinesi quando è iniziata la guerra di Israele a Gaza. In uno, ha denunciato Israele come uno “stato coloniale di apartheid di coloni” e affermato che non ci sono “civili” israeliani perché l’intero paese è impegnato nell’oppressione. Negli ultimi mesi si era sempre più avvicinato alle comunità anarchiche presenti nelle chat di Reddit e Discord. L’ultimo post su Reddit è stato il 24 febbraio e spiegava che “la bianchezza cancella la cultura”. Il suo messaggio finale su Facebook diceva: “Molti di noi amano chiedersi: ‘Cosa farei se fossi vivo durante la schiavitù? O il Jim Crow del Sud? O l’apartheid? Cosa farei se il mio paese stesse commettendo un genocidio?’ La risposta è: lo stai facendo. Proprio adesso“.

Interrogata sulla morte di Bushnell, l’addetta stampa della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha affermato che il presidente Biden ne era “a conoscenza” e che si trattava di una “orribile tragedia”. Ma non c’era alcuna dichiarazione sul motivo per cui il giovane si è tolto la vita, e nulla che rassicurasse un pubblico teso sulle implicazioni di questo atto.

È scoppiato un dibattito su come interpretare al meglio il martirio politico di Bushnell. Cos’è eroico? Inutile? Un’altra opportunità per esprimere la propria opinione sulla necessità di servizi di salute mentale più robusti. Soprattutto, ha aperto una frattura nel discorso politico americano, dividendo anche coloro che sono impegnati nella causa palestinese e si oppongono fortemente agli aiuti statunitensi a Israele. La morte lenta e violenta di Bushnell, il suo spettacolo terrificante e la sua brutale irreversibilità si sono rivelati profondamente inquietanti e destabilizzanti per molti della stessa sinistra statunitense. Ci sono state speculazioni selvagge sulla sua salute mentale (“Chi se non una persona pazza farebbe una cosa del genere?” si sono chiesti alcuni; come se questa domanda non potesse essere posta riguardo alla stessa azione militare di Israele). Si è insinuato che il suo atto finale avesse a che fare con la sua educazione in un complesso religioso, come ha cercato di suggerire il Washington Post, o con il suo recente passato anarchico, come ha suggerito The Guardian. E ci sono stati anche accorati appelli alla cautela, affinché reporter e commentatori scrivessero dell’azione diretta di Bushnell in modi che non incoraggiassero altri a seguire il suo esempio. La copertura da parte dei principali giornali e mezzi di informazione statunitensi e inglesi ha rivelato una tendenza preoccupante a riferire in modo selettivo, omettendo i dettagli chiave sull’incidente e le motivazioni di Bushnell. Ciò era evidente nei titoli che evitavano di menzionare la causa diretta della protesta: il genocidio di Israele contro i residenti di Gaza1.

Allo stesso tempo, ci sono stati alcuni nel campo filo-palestinese che hanno espresso un’umile ammirazione per l’atto di Bushnell, venerando non solo la sua chiarezza di principi e il suo spirito di sacrificio, ma anche la drammaticità e la severità del suo atto, qualcosa che sembra, infine, adeguato alla portata della loro indignazione nei confronti degli oltre 30mila morti di Gaza. Le organizzazioni antimperialiste e di solidarietà con la Palestina negli Stati Uniti hanno rilasciato diverse dichiarazioni in onore di Bushnell. La sua azione è stata interpretata come un segnale e un indicatore del profondo cambiamento della coscienza negli Stati Uniti. La narrativa precedentemente dominante che sosteneva il governo dell’apartheid israeliano sta drammaticamente lasciando il posto a una narrativa basata sulla verità: che il popolo palestinese è stato vittima di esproprio, pulizia etnica, violenza di ogni tipo e ora di un tentativo di genocidio a Gaza.

Sappiamo bene che l’America non è estranea alla violenza politica. Ma di solito questa viene da destra2. In America le sparatorie di massa vengono regolarmente effettuate in pubblico da giovani uomini suprematisti bianchi con programmi politici di estrema destra, che massacrano fedeli di chiese, sinagoghe o moschee, persone afroamericane o appartenenti ad altre minoranze di colore, acquirenti di generi alimentari o studenti delle scuole superiori; il bilancio delle vittime di queste atrocità esplicitamente politiche viene assimilato nel tessuto sociale, difficilmente registrato come aggressioni perpetrate per conto di un movimento politico (il suprematismo o nazionalismo bianco). Nel frattempo, le milizie di estrema destra, dai Proud Boys al Patriot Front, organizzano parate intese a intimidire i loro nemici politici e le popolazioni che considerano indesiderabili. A volte minacciano o picchiano le persone; a volte circondano i Campidogli degli Stati con le armi in mostra. Il 6 gennaio 2021 hanno preso d’assalto Capitol Hill a Washington. È probabile che la violenza politica di destra plasmerà le elezioni del 2024 e, salvo l’emergere di una soluzione politica radicalmente diversa, sarà una caratteristica della vita americana nel prossimo futuro.

Gli atti di autoimmolazione sono rari, ma hanno un intento chiaro: usare una grottesca dimostrazione di abnegazione per attirare l’attenzione del pubblico su un problema, per costringerlo a una testimonianza morale. E l’azione diretta di Bushnell ha evocato ricordi inquietanti della guerra in Vietnam, soprattutto per gli americani che hanno protestato contro di essa3. Il fatto che Bushnell indossasse la sua divisa militare da combattimento e richiamasse l’attenzione sul suo servizio militare indica che credeva che il suo status di soldato avrebbe dato maggiore peso e significato alla sua protesta.

Non possiamo sapere esattamente cosa avesse in mente Bushnell (né quale fosse il suo stato di salute mentale) quando ha deciso di togliersi la vita (questa è una domanda a cui non potremo mai rispondere), ma chiaramente ha sperato che il suo martirio avrebbe scosso gli americani (e gli europei) dal loro compiacimento e li avrebbe costretti ad agire per porre fine allo spargimento di sangue. Noi non possiamo evitare il confronto con il significato dichiarato dell’auto-immolazione di Bushnell: che Israele sta conducendo un genocidio a Gaza, un genocidio che è possibile solo con il denaro e il sostegno degli Stati Uniti e dell’Europa, e che questa catastrofe morale coinvolge tutti gli americani ed europei nella complicità. Il 20 febbraio, l’ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha posto il (quarto) veto ad una risoluzione per un cessate il fuoco a Gaza presentata dall’Algeria4. Quando l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) del 26 gennaio ha suggerito che le azioni di Israele a Gaza costituiscono un genocidio “plausibile”, l’Algeria aveva promesso di agire immediatamente attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Bushnell ha ammesso che la sua protesta è estrema. Eppure impallidisce di fronte all’estremismo contro cui protesta. Un estremismo non solo di morte e distruzione quotidiana, ma che si qualifica come dominazione coloniale. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre tutti noi – americani, europei, arabi, e resto del mondo – abbiamo assistito impotenti all’assalto israeliano a Gaza, ai massicci bombardamenti di quartieri densamente popolati, alla morte di oltre 30mila civili innocenti, tra cui in maggioranza donne e (oltre 13mila) bambini e alla distruzione di biblioteche, moschee, musei, panetterie, scuole, ospedali e intere famiglie. Dall’ordine della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio di fermare il genocidio, Israele ha ucciso oltre 3mila palestinesi. Dopo mesi di fuga da una presunta zona sicura a un’altra che Israele ha poi bombardato e oltre 1,5 milioni di palestinesi – più della metà della popolazione di Gaza – sono ora intrappolati a Rafah, il punto più meridionale di Gaza e ora l’area più densamente popolata del mondo.

Israele è il principale colpevole dell’assedio e del massacro di vite umane, ma sappiamo che la condivisione dell’intelligence da parte degli Stati Uniti è significativa per la capacità di Israele di condurre una guerra e, secondo quanto riferito, unità delle forze speciali sono in Israele per fornire supporto tecnico nel targeting. Le truppe israeliane utilizzano armi di fabbricazione americana e il governo statunitense contribuisce a finanziare la guerra. Senza il supporto degli USA, Israele non potrebbe continuare a perpetrare la sua campagna di punizione collettiva contro gli abitanti di Gaza. Gli Stati Uniti stanno consentendo le azioni di Israele e sono quindi in parte responsabili. L’amministrazione Biden può e deve fare di più per fare pressione su Israele affinché metta fine alla carneficina.

Come ogni Stato, Israele ha il diritto di difendersi. Ma l’uccisione di civili non è mai consentita, indipendentemente dalla causa, e questo vale per Israele come per Hamas o qualsiasi altro gruppo. E intraprendere una guerra per contrastare il terrorismo – atrocità commesse contro i civili – è un’impresa folle, una trappola che intrappola lo stato belligerante in guerre prolungate, costose e debilitanti di contro-insurrezione e occupazione militare, mentre semina semi di odio e violenza che metteranno a repentaglio la sua sicurezza.

Milioni di persone negli Stati Uniti e in tutto il mondo sono attive nel movimento contro la guerra a Gaza, chiedendo un cessate il fuoco e negoziati per una soluzione politica. Nonostante le numerose proteste e la massiccia pressione contro la guerra, tuttavia, le uccisioni continuano, e gli aiuti degli Stati Uniti continuano ad arrivare all’esercito israeliano. Molti giovani attivisti oggi sono frustrati e arrabbiati per la loro incapacità di fermare la guerra.

Simili sentimenti di frustrazione e rabbia emersero durante la guerra del Vietnam, che continuò nonostante le massicce proteste contro di essa. Il movimento contro l’aggressione in Indocina degli Stati Uniti è stata la campagna contro la guerra più grande, sostenuta e intensa della storia americana. Per un decennio, si intensificò, raggiunse il suo apice furioso e poi gradualmente diminuì, milioni di cittadini negli Stati Uniti e in tutto il mondo continuarono una campagna per porre fine alla guerra. Durante quell’epoca, come scrive Tom Hayden in Hell No: The Forgotten Power of the Vietnam Peace Movement (2017), “gli americani scesero in piazza in numero superiore a centomila in almeno una dozzina di occasioni, raggiungendo talvolta mezzo milione”. Dalle prime grandi proteste e manifestazioni nel 1965 alla Campagna per la Pace in Indocina contro i finanziamenti alla guerra negli anni ’70, gli oppositori della guerra si impegnarono in campagne di educazione pubblica, marce di massa, picchetti, veglie di preghiera, boicottaggi, scioperi studenteschi, resistenza alla leva, lobbying legislativo, media e pubblicità, campagne elettorali e altro ancora. La protesta contro la guerra è emersa da ogni settore della società e in ogni parte del paese, anche tra molti appartenenti all’esercito5.

La storia della guerra del Vietnam dimostra che il dissenso pacifista limitò la portata delle opzioni militari degli Stati Uniti e contribuì a porre fine alla guerra. L’opinione pubblica contraria alla guerra fu una variabile chiave nei calcoli strategici delle amministrazioni Johnson e Nixon, come ha sostenuto lo storico Melvin Small. I leader politici prendevano decisioni sulla condotta della guerra sulla base della loro valutazione dell’impatto politico in patria e degli effetti sul dissenso pacifista. Questa era una “prova inconfutabile” dell’influenza del movimento, ha scritto Small.

Non è appurato che Bushnell fosse a conoscenza della storia del movimento contro la guerra in Vietnam, perché poche persone ormai la conoscono negli Stati Uniti. Nell’attuale cultura individualista, si apprendono le conquiste storiche dei leader e degli individui, non dei movimenti sociali che li sostengono. Si apprende del movimento per i diritti civili, anche se spesso inquadrato solo nel ruolo di Martin Luther King jr., con limitato riferimento ai tanti che collaborarono con lui nella lotta per la libertà. Si sa poco dei movimenti sociali in generale e ancor meno dei loro punti di forza e di debolezza e di come i movimenti influenzano la politica.

Una delle grandi sfide dell’organizzazione dei movimenti sociali è superare il senso di impotenza che molti attivisti provano quando i loro sforzi di mobilitazione non raggiungono i risultati richiesti. Quando il cambiamento non arriva rapidamente o in modo così completo come desiderato, gli attivisti possono demoralizzarsi. Potrebbero cadere preda della convinzione debilitante che non si possa fare nulla, che la protesta e l’organizzazione siano inutili.

Parte del problema è che il cambiamento politico spesso avviene in modi inaspettati e talvolta non riconosciuti. Il processo è spesso lento e graduale, con cambiamenti modesti che non soddisfano le richieste degli attivisti. “È sempre troppo presto per calcolarne l’effetto”, ha osservato Rebecca Solnit. Non possiamo mai sapere come le nostre azioni di oggi potrebbero influenzare gli eventi di domani. Quando esercitiamo pressioni, non possiamo prevedere come risponderanno le istituzioni politiche, ma i passi parziali possono essere significativi e portare a cambiamenti più sostanziali.

La storia mostra chiaramente che i movimenti contano e che le pressioni degli attivisti possono esercitare un’influenza politica. L’analisi accademica mostra che i movimenti sociali sono in grado di ottenere il cambiamento se riescono a costruire grandi coalizioni, impiegare strategie sagge, avere narrazioni convincenti e unificanti e se sono persistenti nell’esercitare pressioni per il cambiamento.

Bushnell non si è arreso disperato. Ha fatto una scelta deliberata, calcolata per massimizzare l’impatto della sua protesta, per dare il peso adeguato alle atrocità perpetrate in suo nome come americano e come militare. Ha spiegato il suo pensiero, ha scelto le sue ultime parole, ha creato un legame digitale con la sua morte per garantire che il suo sacrificio non venisse censurato o perso. Negare questo significa negargli il suo libero arbitrio e la sua umanità nel suo ultimo atto. Questa è la scelta che Bushnell ci ha chiesto di fare. Riconosciamo finalmente che questo sistema di potere è insostenibile? Oppure chiudiamo gli occhi di fronte all’agonia che crea?

Le persone che credono in un’ideologia suprematista – come i politici sionisti israeliani che descrivono i palestinesi come “animali umani”, o le persone in tutto il mondo che sostengono le loro azioni genocide – sono dei codardi nel profondo. Giustificano la propria esistenza attraverso l’esclusione, capaci di immaginare la propria umanità solo quando questa viene negata agli altri. Non riescono a immaginare che una persona con convinzione, forza, coraggio sacrificherebbe tutto, rinuncerebbe alla propria vita per fermare la sofferenza di altri che non ha mai incontrato. Non capiscono cosa ha fatto Bushnell. E non sarebbero mai in grado di farlo da soli.

È comunque tragico che Bushnell abbia ritenuto necessario togliersi la vita in modo estremo per essere ascoltato6. La sua morte ci invia un messaggio affinché continuiamo ad agire contro la guerra e a sostegno dei diritti dei palestinesi, per fare pressione sui governi europei e statunitense perché insistano affinché Israele metta fine allo spargimento di sangue. Il nostro successo nel raggiungimento di questi obiettivi dipenderà dalla costruzione di un movimento sempre più ampio e persistente di milioni di persone determinate a lavorare e battersi per la pace.

da qui

 

 

L’ultimo sussulto del dominio globale dell’Occidente – Marco Carnelos

Mentre l’egemonia degli Stati Uniti svanisce, Biden e i suoi alleati si concentrano sulla narrazione profondamente errata  di “democrazie contro autocrazie

Una caratteristica distintiva del pensiero politico occidentale è la sua sorprendente capacità di giustificare e autoassolvere quando l’Occidente commette atrocità o tollera quelle perpetrate dai suoi alleati.

Questo atteggiamento si combina con una peculiare tendenza a vedere ovunque nemici che sarebbero determinati a distruggere la libertà e la democrazia.

Questa non è una novità; non è né un sottoprodotto dell’era della Guerra Fredda, né di quella post-Guerra Fredda. Le sue radici risalgono a migliaia di anni fa, almeno ai tempi in cui gli antichi greci affrontavano i persiani, e concordano con l’osservazione di Edward Said secondo cui le società moderne tendono a “derivare negativamente il senso della propria identità”. In altre parole, si affermano e si rafforzano rispetto ad altre società ritenute opposte e inferiori.

In una certa misura, si tratta di una distinzione binaria derivante dal pensiero dicotomico ereditato dalla filosofia aristotelica, che continua a plasmare il pensiero politico occidentale.

Un recente costrutto politico a sostegno di questa mentalità è la narrazione “democrazia contro autocrazia” incessantemente promossa dall’amministrazione Biden, al punto da essere stata pienamente incorporata nella strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e le cui idee fondamentali sono state prontamente accettate dagli alleati europei, apparentemente incapaci di sviluppare un pensiero strategico autonomo legato ai propri interessi nazionali.

Questa narrazione inquadra Russia, Iran e Cina come le tre principali autocrazie che minacciano l’ordine mondiale basato sulle regole guidato dagli Stati Uniti, che, indipendentemente da quanti teorici occidentali cerchino di descriverlo come diritto internazionale, è in realtà qualcosa di molto diverso. Piuttosto, potrebbe essere ben sintetizzato dal motto: “Per i miei amici, tutto; per i miei nemici, la legge”.

I casi di prova della nuova narrativa occidentale sono i conflitti in Ucraina e Gaza, oltre alle questioni con la Cina sul Mar Cinese Meridionale, a Taiwan e agli impressionanti risultati tecnologici di quest’ultima.

Visioni distopiche

Per avere un’idea reale di tali visioni distopiche e problematiche, basta leggere un recente articolo dello storico Niall Ferguson, uno dei principali apologeti contemporanei dell’imperialismo occidentale.

In uno scioccante articolo di 2.000 parole intitolato “L’Ucraina ha bisogno del totale sostegno occidentale – e anche Israele”, Ferguson non menziona nemmeno i 30.000 palestinesi uccisi a Gaza, sottolineando che “avrebbero potuto esserci molti più spargimenti di sangue” se il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avesse ascoltato l’appello del suo ministro della Difesa per un attacco preventivo contro Hezbollah in Libano. In altre parole, dovremmo essere grati a Netanyahu per aver risparmiato un maggior numero di vittime in Libano nel corso della carneficina in corso a Gaza.

In quest’ottica, la Russia, Hamas e Hezbollah (e il sostenitore di questi ultimi due, l’Iran), sono nemici giurati della civiltà occidentale. La Cina è la prossima. E le democrazie occidentali non hanno alcuna responsabilità per le attuali tensioni geopolitiche, nonostante gli evidenti doppi standard mostrati in tutte le principali crisi internazionali.

L’eccezionalismo occidentale non può accettare accordi di condivisione del potere o una vera multipolarità. L’unica opzione rimasta è la narrazione amico-nemico.

Ferguson mette sullo stesso piano l’Ucraina e Israele, mentre quest’ultimo, a causa della sua decennale occupazione delle terre palestinesi, dovrebbe giustamente essere paragonato alla Russia.

Il teorico politico tedesco Carl Schmitt ha scritto ampiamente sul binomio amico-nemico. Un interessante corollario del suo lavoro è lo “stato di eccezione”, che costituisce una parte importante della spinta autoassolutoria mostrata anche oggi, tra le macerie di Gaza, dalle democrazie occidentali. Secondo questo principio, per salvare le democrazie dai loro nemici (reali o immaginari), la democrazia stessa deve talvolta essere sospesa.

Una vivida applicazione di questo principio può essere vista a Gaza, dove Israele – secondo la narrazione occidentale – deve commettere atrocità per difendersi e salvare “l’unica democrazia del Medio Oriente” dalla minaccia degli attori autocratici arabo-islamici: Hamas, Hezbollah e l’Iran.

Inutile dire che se una minaccia non si concretizza bisogna inventarla; altrimenti l’intero costrutto intellettuale dell’identità occidentale potrebbe crollare. E negli ultimi due decenni, le élite politiche occidentali e i loro numerosi portavoce nei media mainstream hanno affinato una notevole capacità di inventare e promuovere un’ampia gamma di minacce.

Minacce interne

Questo problema emerge anche in un recente saggio sugli affari esteri di Hal Brands, intitolato “The Age of Amorality: Can America Save the Liberal Order Through Illiberal Means?”

Brands afferma che “l’unico modo per proteggere un mondo adatto alla libertà è corteggiare partner impuri e impegnarsi in atti impuri”. Il suo saggio mostra un pensiero binario e un tipico approccio occidentale a somma zero, descrivendo la concorrenza degli Stati Uniti con Cina e Russia come “l’ultimo round di una lunga lotta per stabilire se il mondo sarà modellato dalle democrazie liberali o dai loro nemici autocratici”.

Non importa il fatto che la guerra in Ucraina potrebbe anche essere il risultato di due decenni di avvertimenti da parte di Mosca secondo cui l’adesione dell’Ucraina alla Nato rappresentava una linea rossa per la sicurezza della Russia, come i missili nucleari sovietici schierati a Cuba all’inizio degli anni ’60 lo erano per la sicurezza degli Stati Uniti; o che l’attacco di Hamas del 7 ottobre è seguito a più di mezzo secolo di brutale occupazione delle terre palestinesi, che Israele ha portato avanti con un’impunità mai concessa a nessun altro paese nella storia recente, grazie allo scudo politico di Washington.

Per quanto riguarda la Cina, Brands non menziona il fatto che le tensioni su Taiwan potrebbero essere legate al graduale allontanamento degli Stati Uniti dalla politica “One China”, stabilita negli anni ’70 e da allora una pietra miliare della stabilità dell’Asia orientale.

Mentre gli Stati Uniti considerano importanti le preoccupazioni relative alla sicurezza dei propri alleati, quelle di altri attori, come Russia, Iran e Cina, vengono solitamente ignorate, così come lo sono le lamentele storiche, come quelle dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana. Se le motivazioni e le preoccupazioni per la sicurezza degli “altri” vengono deliberatamente ignorate, è impossibile pretendere che ci siano pace o stabilità.

Questa ossessione per le minacce esterne, reali o immaginarie, impedisce alle democrazie occidentali di affrontare le proprie, reali minacce interne. Il discorso “autocrazie contro democrazie” è un’arma di distrazione di massa, che mira a distogliere l’attenzione del pubblico occidentale dalla polarizzazione interna, dalla crisi della democrazia rappresentativa, dalla disuguaglianza diffusa e da molte altre questioni vitali.

Gli Stati Uniti e i loro alleati non possono accettare che secoli di dominio globale occidentale stiano svanendo, mentre l’equilibrio di potere si sposta verso il cosiddetto Sud del mondo. L’eccezionalismo occidentale non può accettare accordi di condivisione del potere o una vera multipolarità. L’unica opzione rimasta è la narrazione amico-nemico.

​Marco Carnelos è un ex diplomatico italiano. È stato assegnato alla Somalia, all’Australia e alle Nazioni Unite. Ha prestato servizio nello staff di politica estera di tre primi ministri italiani tra il 1995 e il 2011. Più recentemente è stato inviato speciale per il governo italiano coordinatore del processo di pace in Medio Oriente per la Siria e, fino a novembre 2017, ambasciatore italiano in Iraq.

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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