Anni fa lessi in un libro di Angela Davis, Aboliamo le prigioni? una storia abbastanza incredibile. Nel 1993 il Sudafrica era nel pieno della sua transizione.
Amy Biehl
stava accompagnando in auto alcuni amici neri alle loro case di Guguletu quando
una folla che scandiva slogan contro i bianchi la aggredì e alcuni giovani la
presero a sassate e la pugnalarono a morte. Quattro degli uomini che avevano
partecipato all’aggressione furono condannati a diciotto anni di reclusione per
il suo omicidio. Nel 1997, Linda e Peter Biehl, i genitori di Amy, decisero di
sostenere la domanda di amnistia che quegli uomini avevano presentato alla
Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione. I quattro chiesero
perdono ai Biehl e furono rilasciati nel luglio 1998. Due di loro – Easy
Nofemela e Ntobeko Peni – in seguito conobbero i Biehl, che avevano
acconsentito a incontrarli nonostante le molte pressioni contrarie. Nofemela disse
che voleva esprimergli il suo dispiacere per aver ucciso la figlia meglio di
quanto avesse potuto fare durante le udienze della commissione. ‘So che avete
perduto una persona cara’, ha riferito di avergli detto durante quell’incontro.
‘Voglio che mi perdoniate e mi prendiate come vostro figlio’.
I Biehl, che
dopo la morte della figlia avevano creato la fondazione Amy Biehl, chiesero a
Nofemela e Peni di lavorare nella sezione di Guguletu della fondazione.
Nofemela diventò istruttore sportivo nell’ambito di un programma di doposcuola
e Peni diventò amministratore. Nel giugno 2002 accompagnarono Linda Biehl a New
York, dove, dinanzi all’American family therapy academy, parlarono tutti di
riconciliazione e giustizia riparatrice.
In
un’intervista al Boston Globe, quando le chiesero cosa provasse nei confronti
degli uomini che avevano ucciso sua figlia, Linda Biehl rispose: “Gli voglio
molto bene”. Dopo la morte di Peter Biehl nel 2002, Linda acquistò per loro
due lotti di terra in memoria del marito, affinché Nofemela e Peni potessero
costruirsi una casa.
Nei giorni
successivi agli attacchi dell’11 settembre, i Biehl furono invitati a parlare
in una sinagoga della loro comunità. Così Peter Biehl raccontò
quell’occasione: “Cercammo di spiegare che talvolta conviene tacere e ascoltare
cosa hanno da dire gli altri; chiedersi: ‘Perché accadono queste cose
orribili?’, anziché limitarsi a reagire”.
L’invocazione
del carcere duro e lo spirito vendicativo hanno occupato tutto lo spazio
pubblico della giustizia
Viviamo
un’epoca in cui il giustizialismo, l’invocazione del carcere duro, lo spirito
vendicativo, il populismo penale, il paradigma vittimario hanno occupato tutto
lo spazio pubblico della giustizia. In cui spesso, se cerchiamo di far valere
la razionalità e uno spirito illuministico che vuole difendere lo stato di
diritto di fronte a qualunque reato, riceviamo in risposta l’obiezione: sì,
prova a metterti nei panni della madre di quella persona!
Come
racconta Angela Davis nel brano citato, ci sono genitori che fanno uno sforzo
ulteriore.
Così, anche
se sembrano i tempi meno consoni per parlare di riconciliazione e di giustizia
riparativa, questo passo necessario va fatto. Perciò la recente pubblicazione
di due libri come L’incontro (Il Saggiatore)
e Giustizia riparativa (Il Mulino) va salutata come
un importante avvenimento culturale.
Il primo –
ne ha scritto anche Giuliano Milani qui – è il diario a più voci di
sette anni di incontri tra vittime e responsabili della lotta armata:
testimonianze di poche righe, riflessioni più approfondite, lunghi saggi di
analisi storica che cercano di ricostruire quest’esperienza straordinaria
ideata dal gesuita Guido Bertagna con Carlo Maria Martini e coordinata poi
insieme al criminologo Adolfo Ceretti e alla giurista Claudia Mazzucato.
Ci sono
orfani, vedove, testimoni imbelli di allora, militanti invecchiati e diventati
nonni, nomi noti come Agnese Moro o Adriana Faranda, persone che non sono state
direttamente implicate, come il costituzionalista Valerio Onida o l’attrice
Maddalena Crippa, ma che ci hanno tenuto ad accompagnare questo percorso, e poi
molte voci che hanno deciso di rimanere anonime. “Abbiamo avuto acuti. Abbiamo
avuto bassi. Semitoni, tutto quello che volete. Alla fine è stato un coro”, si
legge nell’Incontro.
È vero che
esiste ormai un corpus consistente di testi sulla “notte della repubblica”,
anche se parliamo solo di memorialistica, con libri meravigliosi, come il
seminale Armi e bagagli del professore di letteratura
ex militante delle Brigate rosse Enrico Fenzi (da rileggere, appena
ripubblicato dalla neonata casa editrice Egg) o Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi. Ma è vero
anche che L’incontro rappresenta una
svolta radicale e davvero riesce a sostenere, nella bilancia del racconto di
quegli anni, quasi da solo il confronto con tutto ciò che è stato scritto
finora.
Perché la
possibilità che si sono dati i protagonisti di quest’esperienza è di
confrontarsi con le persone alle quali avevano procurato un dolore straziante o
dalle quali lo avevano ricevuto.
L’ambizione
non è quella di creare una memoria condivisa attraverso la giustapposizione di
due visioni speculari, contrastive, ma di lasciare che il lettore – come se
facesse parte anche lui di questa ricostruzione – trovi i possibili nessi in un
racconto che è nei fatti plurale, spesso contraddittorio, ma per la prima volta
unitario.
Il modello
principale dell’Incontro è stata proprio la
Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, che dal 1995 in poi
guidò la transizione dall’apartheid alla democrazia, attraverso una serie di
audizioni pubbliche delle vittime e dei responsabili dei crimini commessi da
entrambe le parti durante il regime segregazionista. Lo scopo perseguito dagli
ispiratori (da Nelson Mandela e Desmond Tutu, tra gli altri) era che questo
tribunale portasse, attraverso un processo non violento e un’amnistia, alla
conoscenza dei crimini commessi; senza generare – per la nuova democrazia
appena nata – una recrudescenza di vendette, e immaginando una nuova comunità
nazionale creata da un riconoscimento reciproco e da una giustizia riparativa.
Il nostro
sistema penale nasconde un evidente problema, ossia che il carcere è
criminogeno
La giustizia
riparativa: è un’utopia? Sicuramente è un modello giuridico poco praticato
anche nel mondo occidentale, e pochissimo in Italia, nonostante il nostro
sistema penale nasconda un evidente problema – ossia che il carcere è
criminogeno: il 68,5 per cento delle persone che sconta la sua pena in prigione
commette un nuovo reato una volta uscito, a confronto di un 19 per cento di
recidiva tra chi non sconta la pena in carcere.
Da questi
dati il gruppo che ha redatto Abolire il carcere (Luigi Manconi, Stefano
Anastasia,Valentina Calderone, Federica Resta) indicava le diverse possibilità
di giustizia alternativa, tra cui quella che nei paesi germanofoni
chiamano Täter-Opfer-Ausgleich, “concordato tra l’autore e la
vittima”, e che appunto in Germania, in Austria, in Belgio, in Lussemburgo, nei
Paesi Bassi e in Francia riesce a garantire risultati molto incoraggianti, a
partire dalla giustizia minorile.
Si pratica
poco e se ne parla poco; per questo la raccolta dei saggi che s’intitola
proprio Giustizia riparativa è preziosa.
Quando gli
autori – coordinati da Grazia Mannozzi e Giovanni Angelo Lodigiani – cercano di
valorizzare questo modello giuridico, hanno il pregio anche di ricostruirne il
contesto storico e di inserire gli esigui esempi italiani all’interno di uno
scenario internazionale, e lo fanno sfrondando subito una serie di pregiudizi
su questa tradizione giuridica.
Francesco
Palazzo, per esempio, sostiene che l’utilitarismo della deterrenza e quello
della rieducazione si sono rivelati entrambi un mezzo fallimento: il primo
spesso si è tramutato in terrorismo sanzionatorio, il secondo spesso in una
solidarietà inefficace per la presa di coscienza e la trasformazione della
persona. Invece
il modello
della giustizia riparativa ritrova una dimensione di verità nella misura in cui
esso presuppone che si riconosca ‘l’altro’, colpevole o vittima, nella
concretezza del suo essere, dei suoi bisogni, dei suoi rapporti esistenziali
individuali e sociali, tornando a renderlo protagonista – se possibile – della
ricomposizione della trama della sua esistenza individuale e sociale.
Ma
attenzione: la giustizia riparativa non è un vago perdonismo, un’amnistia
morale, una forma di volontariato sociale. Claudia Mazzucato ci tiene a sottolineare
le condizioni qualificanti:
L’incontro
con i protagonisti (diretti o indiretti) di una vicenda penalmente rilevante;
la partecipazione attiva all’incontro; il coinvolgimento volontario e libero di
tutte le persone interessate; l’adempimento volontario di attività o impegni
nascenti da un accordo che scaturisce, a sua volta, da un incontro libero; la
presenza di mediatori/facilitatori imparziali e indipendenti.
Come è
chiarissimo a tutti gli autori dell’Incontro e
di Giustizia riparativa, qui non è in gioco solo la
vicenda dei cosiddetti anni di piombo, né la riforma del sistema penale
italiano, ma la possibilità di una rivoluzione culturale profonda, che a
partire da biografie singolari possa illuminare diversamente, ricomprendere in
una dimensione di senso, anche questioni politiche che ci sembrano
inestricabili e inconcepibili.
Nel saggio
che fa da postfazione all’Incontro, firmato da
Luigi Manconi e Stefano Anastasia, si racconta la storia di Claudia Francardi.
Vedova di un
carabiniere ucciso da un diciannovenne mentre effettuava un controllo su
un’autovettura dove viaggiavano tre giovani, in località Sorano nella provincia
di Grosseto. Oggi quella donna si batte perché Matteo, l’omicida di suo marito,
non sconti in carcere la condanna a vent’anni inflittagli. […] La signora
Francardi si augura dunque che Matteo possa continuare proficuamente il
percorso di ricerca, ripensamento e ricostruzione già intrapreso, usufruendo di
misure alternative alla detenzione, magari all’interno di una comunità. È in una
comunità, infatti, che la donna lo ha incontrato, iniziando così un rapporto,
spesso doloroso e sempre faticoso, con lui e con sua madre, che l’avrebbe
portata – nel momento della lettura della sentenza – a ‘piangere per la
sofferenza di entrambi’.
Possiamo
davvero ipotizzare che siano percorribili queste strade? Mettersi, in quanto
carnefici, dalla parte della vittima; mettersi, in quanto vittime, dalla parte
del carnefice? Perché questi casi eccezionali, addirittura forse disumani, non
potrebbero diventare più comuni? Perché non ci è data l’opzione di
rintracciarne l’esemplarità, e spesso assistiamo muti a un desiderio di
punizione, anche rispetto agli anni settanta (si pensi al caso di Adriano Sofri o a quello di Sergio D’Elia) che pare non poter contemplare mai un mutamento? Perché pensiamo che la
pena debba “infliggere destino” (l’espressione è di Walter Benjamin, citata da
Manconi) e non costruire futuro?
Facciamo
fatica ad allungare questa serie d’interrogativi che è scandaloso porsi in
questi giorni dopo gli attentati di Parigi, in cui sono rari anche i tentativi
di analizzare l’ideologia dei terroristi (e sul perché ci sia stata una
radicalizzazione fascista dell’islamismo politico, si legga qui un ottimo intervento di Girolamo De Michele).
Giorni in cui, invece della ricerca delle cause del terrorismo, delle
motivazioni che portano dei ragazzi a diventare assassini feroci, si afferma –
senza neanche una lieve ombra di esitazione – una furia di rappresaglia che non
vuole nemmeno immaginarsi razionale.
Nella testa degli assassini
Qualche
giorno fa su Doppiozero Marco Belpoliti scriveva un pezzo perturbante ma
rigorosissimo intitolato “Cosa c’è nella testa degli
assassini di Parigi?”. Belpoliti, che ha una lunga frequentazione con
questi territori terminali dell’umano (L’età dell’estremismo), ricalca questa domanda su quella
che Primo Levi si pone di fronte ai criminali dei lager nazisti, e la rende in
questo modo lecita. E per provare ad abbozzare una risposta, cita un libro del
2011 di Murakami Haruki, Underground: qui si
racconta l’attentato del 1995 nella metropolitana di Tokyo (12 morti e seimila
intossicati), quando un gruppo di una setta religiosa rilasciò del gas nervino
in un treno. Le pagine di Underground sono
composte da interviste ai sopravvissuti, ma anche agli autori di
quell’attentato, in un tentativo, a 15 anni di distanza, di comprendere le due
versioni di una tragedia totalmente assurda ai nostri occhi.
Comprendere
il terrorismo? Comprendere addirittura i terroristi? Possiamo immaginare un
terrorista che cambi idea? Che si convinca che la sua ideologia fanatica sia un
macroscopico e tragicissimo errore?
Stiamo
scivolando su un campo molto insidioso rispetto alle questioni tecniche che
pone il ricorso alla giustizia riparativa. Ma sono digressioni alle quali
nessuno degli autori di questi libri si sottrae: ci troviamo indubbiamente in
un campo dell’umano che è difficile esplorare, e che preferiamo rimuovere del
tutto.
C’è una
storia italiana poco conosciuta, quella delle vittime dell’attentato del Natale
1985 all’aeroporto di Fiumicino compiuto da un commando terroristico
palestinese legato ad Abu Nidal: ci furono tredici morti e circa cento feriti.
Una di loro fu Caterina Brau, che perse una gamba.
Raccontò la
sua storia nel 2012 in un’intervista bellissima, pubblicata da Una città. Sul suo attentatore – Khaled
Ibrahim Mahmoud, che allora aveva 18 anni, unico sopravvissuto del commando,
condannato a 26 anni di carcere che ha finito di scontare pochi anni fa – Brau
ha detto:
Quel
poveraccio aveva solo diciott’anni. Una storia terribile: aveva perso tutta la
famiglia a Sabra e Chatila quand’era ancora un bambino. Se ci pensi, il
passaggio tra il suo prima e il suo dopo, quel giorno in cui, a otto anni, è
tornato a casa e non ha più trovato i suoi cari, è stato forse peggiore del
mio. […] Non è che mi sia indifferente perché ho comunque seguito le sue
vicende da lontano, ci ho pensato ogni tanto a come stava, a cosa voleva dire
per lui essere l’unico vivo del gruppo, però non ho mai avuto il desiderio di
incontrarlo. Credo che sarebbe malsano, per tutti e due; no, non mi piace
neanche l’idea. Voglio dire, non lo odio, ma non lo amo neanche. Queste cose
all’italiana del perdonismo, del ‘Carramba che sorpresa’, non fanno per me.
Nel 2011
aveva già rilasciato un’altra intervista, toccante e lucida, alla Nuova Sardegna. Ne riporto giusto due risposte.
Qual è il modo giusto di raccontare un episodio
drammatico come la strage di Fiumicino?
Forse quello usato da Haruki Murakami nel suo libro Underground, che ricostruisce l’attentato del 1995
nella metropolitana di Tokyo con il gas sarin. È una raccolta di testimonianze
di vittime di quell’attacco. Leggendolo hai la percezione di una cosa che si
ripete e insieme di una cosa sempre diversa: non c’è nessun tentativo di dare
al racconto un significato politico, ma solo la volontà di dare la parola a chi
era lì. Così ha dato voce alle testimonianze di vita vissuta, a partire dalla
paura che non passa. Finalmente un libro dalla parte delle vittime.
Lei però in tutti questi venticinque anni non ha mai
avuto l’atteggiamento da vittima.
Forse non ho mai avuto l’atteggiamento, ma sono stata una vittima. Quando c’è
stato l’attentato alle torri gemelle, prima di pensare a chi c’era dietro ho
pensato alle vittime, mi sono sentita dalla loro parte. Anche rispetto a
Mahmoud, non sono dispiaciuta del fatto che sia uscito dal carcere perché anche
lui è prima di tutto una vittima e proprio perché vittima della sua storia ha
fatto una scelta mortale per gli altri. Oggi è bello che dica: sono uno
stalinista in via di guarigione.
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