È passato oltre
un mese dal comunicato di Meta che annuncia la messa al bando dei contenuti
politici dalle sue piattaforme ma nessuno sembra intenzionato a fare nulla.
Eppure, l’impatto sulla distribuzione e la circolazione delle informazioni sarà
gigantesco.
Se per gli utenti è certamente complicato organizzare un’azione di difesa
coordinata per tutelare la propria libertà di parola dagli abusi
delle big tech, lo stesso non può dirsi dei grandi attori
dell’informazione e della politica, che dispongono di strutture e risorse
economiche più che sufficienti ad avviare una qualche iniziativa. Se non per un
astratto senso di giustizia universale, quantomeno per tutelare i propri
interessi. E invece nulla. Una manciata di articoli di cronaca e poco più. Non
una diffida, non un comunicato di categoria, non un’interrogazione
parlamentare.
Viene il dubbio che questi attori non abbiano ben compreso la sorte che
Meta ha riservato loro. Ma soprattutto, fatto sconcertante, viene il dubbio che
giornali e politici – pur avendone scritto, i primi, e pur avendone votato il
testo, i secondi – non abbiano studiato il Digital Services Act (DSA), approvato ormai due
anni fa dall’Unione Europea.
Morte alla politica
Facciamo un passo indietro. Per chi non avesse seguito la vicenda, lo
scorso 9 febbraio Meta ha annunciato che sulle sue piattaforme
Instagram, Threads e Facebook verranno sistematicamente oscurati tutti
«i contenuti politici, potenzialmente legati a temi quali le leggi, le elezioni
o argomenti di natura sociale».
Interrogati da utenti e giornalisti sulla vaghezza preoccupante di
una tale definizione, i portavoce di Meta hanno balbettato
risposte ancora più fumose, spiegando che la lista nera degli argomenti
riguarderà le «hard news (politica, esteri, salute economia, ndr)»
e la «critica sociale» inquadrata come «contenuti che identificano un problema
che influenza le persone ed è causato dall’azione o inazione degli altri, il
che può includere questioni come le relazioni internazionali o il crimine».
Tutto, sostanzialmente.
Prima di proseguire, dobbiamo comprendere in cosa consisterà questo
oscuramento perché in questo contesto, il come conta quanto e
forse più del cosa.
Su Instagram i contenuti politici e di critica sociale verranno banditi da
tutte le sezioni principali:
• Esplora (ossia la pagina dedicata ai contenuti suggeriti
dall’algoritmo)
• Ricerca (la ricerca diretta dell’utente)
• Reels (i video brevi)
• Utenti suggeriti (tendina di scoperta di nuove pagine)
• Suggerimenti in-feed (contenuti di pagine che non segui suggeriti
nella home)
In pratica, i contenuti non verranno più distribuiti ai Non-follower, mentre continueranno
ad essere mostrati ai propri follower – anche se non a tutti [1]. Chi si occupa
di social per lavoro come me, sa bene che questo significa una cosa sola: pagina
in coma farmacologico.
Queste sono alcune statistiche di pagine grandi e piccole legate al mondo della critica sociale e dell’informazione che gestisco per lavoro.
Con le nuove regole, queste pagine perderanno il 93% dei lettori.
E non basterà pubblicare qualche post politico-sociale in meno per scampare
all’embargo. Meta ha specificato che non si limiterà a mettere nel mirino i
singoli post, ma bersaglierà attivamente interi account, colpevoli di
pubblicare «principalmente» contenuti politici o di critica sociale. Anche se
per il momento non è stata così gentile da comunicare la soglia di contenuti
“indesiderati” autorizzata – 40%, 50%, 60%? – né quale periodo di tempo verrà
preso in esame per affibbiare il marchio di “Account politico-sociale” – negli
ultimi 7 giorni, 30 giorni, 90 giorni?
Un’arma per difenderci
Alla luce di quanto detto sin qui, risulta ancora più stupefacente l’inerzia
dei giornali, dei politici ma anche di tutto il mondo dell’associazionismo
(Amnesty, Greenpeace, …) nei confronti della condanna a morte dei propri canali
social.
Il Digital Service Act fornisce tutti gli strumenti necessari per
difendersi dall’attacco di Zuckerberg & co. Riconosce che le grandi
piattaforme online «influenzano fortemente la sicurezza online, la definizione
del dibattito e dell’opinione pubblica» [2] e perciò impone loro di
prevenire «effetti negativi, attuali o prevedibili per l’esercizio dei
diritti fondamentali, in particolare […] libertà di espressione e di
informazione, inclusi la libertà e il pluralismo dei media, sanciti
nell’articolo 11 della Carta» [3], nonché i «metodi per
ostacolare la concorrenza o mettere a tacere l’espressione» [4] e «gli effetti
negativi reali o prevedibili sui processi democratici, sul dibattito civico e
sui processi elettorali, nonché sulla sicurezza pubblica» [5].
In particolare, il regolamento identifica «la progettazione dei sistemi di
raccomandazione e di qualsiasi altro sistema algoritmico pertinente» e «i
sistemi di moderazione dei contenuti» [6] quali fattori che influenzano
i rischi sistemici summenzionati.
Visto oggi, più che un regolamento sembra una profezia:
l’iniziativa di Meta infrange in un sol colpo più o meno tutti gli obblighi
prescritti dal DSA, sia nel merito che nel metodo.
La scappatoia sbilenca di Meta
Zuckerberg ha studiato un piano per cavarsi d’impaccio. Ma il suo progetto
ha un buco, e anche bello grosso.
In ottemperanza agli articoli 27 e 38 del DSA, Meta permetterà agli utenti «di selezionare e modificare in qualsiasi momento l’opzione preferita» riguardo i sistemi di raccomandazione.
Si potrà perciò accedere alle impostazioni di Instagram e fare opt-out,
ossia tirarsi fuori dall’opzione di default che
limita i contenuti politici.
Meta si nasconde dietro la facciata della “libertà di scelta” ma il
problema su cui sorvola è che agli utenti non viene offerta una nuova
opzione di libertà (opt-in) da sfruttare a piacimento, ma viene
imposto un editto di censura globale che modifica silenziosamente e gradualmente l’esperienza
dell’utente. Solo se l’utente si accorgerà della differenza e solo se capirà
l’effettivo impatto del cambiamento – che Meta minimizza scientemente – potrà
procedere con la personalizzazione delle preferenze di raccomandazione sui
contenuti politico-sociali.
Si tratta di una tecnica di manipolazione bella e buona –
anche se i manipolatori di professione preferiscono usare termini più
rassicuranti come “architettura delle scelte” o “design persuasivo”.
La tecnica in questione si basa su un bias cognitivo
piuttosto noto: lo status-quo bias, o distorsione cognitiva verso
lo status-quo. In pratica, si tratta della naturale tendenza umana a preferire
l’inazione all’azione, poiché la prima non richiede alcuno sforzo, mentre la
seconda ovviamente sì.
Così, il nostro architetto delle scelte imposta ciò che
conviene all’azienda come opzione predefinita (opt-in). L’utente è
libero di spegnere l’opzione (opt-out) ma per farlo dovrà fare uno
sforzo consapevole. Secondo Thaler e Sunstein, autori di un libro capitale
sull’argomento «spesso è possibile incrementare i tassi di partecipazione del
25 per cento, e a volte anche molto di più, semplicemente passando da una
richiesta di consenso attivo dell’utente (opt-in) ad una revoca del
consenso (opt-out)» [7].
Per sfortuna di Zuckerberg e compagni, però, questo comportamento rientra
nella casistica dei «percorsi oscuri» – o dark patterns in
inglese – che vengono descritti nel DSA come «pratiche che distorcono o
compromettono in misura rilevante, intenzionalmente o di fatto, la capacità dei
destinatari del servizio di compiere scelte o decisioni autonome e informate»
[8]. Il DSA indica a titolo di esempio «le scelte di progettazione volte a
indirizzare il destinatario verso azioni che apportano benefici al fornitore di
piattaforme online, ma che possono non essere nell’interesse dei destinatari,
presentando le scelte in maniera non neutrale, ad esempio attribuendo maggiore
rilevanza a talune scelte attraverso componenti visive, auditive o di altro
tipo nel chiedere al destinatario del servizio di prendere una decisione».
Pertanto, stabilisce il DSA «I fornitori di piattaforme online non
progettano, organizzano o gestiscono le loro interfacce online in modo tale da
ingannare o manipolare i destinatari dei loro servizi» [9].
Cosa possiamo fare
Davanti a tante e tali violazioni del Digital Services Act, l’iniziativa
più immediata è presentare un reclamo presso il «coordinatore
dei servizi digitali» [10] che in Italia è l’AGCOM.
Questo reclamo dovrebbe essere presentato prima che le nuove disposizioni
di Meta entrino pienamente in vigore poiché i poteri dell’AGCOM potrebbero
avere un effetto deterrente notevole. Il coordinatore dei
servizi digitali, infatti, può imporre non solo la cessazione delle violazioni,
ma anche il risarcimento degli utenti danneggiati e multe alla piattaforma che
possono arrivare fino al 6% del fatturato annuo globale [11].
Una mazzata.
Una volta costretta Meta a più miti consigli, la soluzione tecnica più
semplice per le parti potrebbe essere quella di mantenere l’opzione di scelta
per il blocco delle raccomandazioni di contenuti politico-sociali, lasciando
però che ad attivarlo sia l’utente.
Si tratterebbe di un compromesso comunque insoddisfacente. Una vera
soluzione non può non tenere conto dell’elefante nella stanza, ossia la
prerogativa che Meta arroga a sé nel decidere cosa è politico e
cosa non lo è, chi può parlare di un determinato argomento e quante volte.
Insomma, l’unica soluzione realmente accettabile dovrebbe essere l’annullamento
totale e senza appello di questa vergognosa censura del dibattito
pubblico imposta da una multinazionale privata che si crede al di sopra del
diritto.
Note
[1] In realtà le pagine perderanno anche molti lettori tra i propri
follower e questo per diversi motivi. A/ gli utenti seguono troppe pagine e non
possono vedere tutti i post di tutte le pagine. “La maggior parte dei tuoi
follower non vedrà ciò che condividi” spiega Instagram nelle sue linee guida. B/ Instagram già oggi sposta i
contenuti politici in
fondo al feed ed evita di mostrarne troppi di seguito se ritiene possano urtare la
sensibilità di alcuni utenti. C/ Nella determinazione dell’ordine in cui
appaiono i post nel feed il fattore principale usato dall’algoritmo sono
le interazioni (per i contenuti politici solo i
Mi piace). Raggiungendo molte meno persone i post otterranno molte meno
interazioni e verranno considerati di scarso valore dagli algoritmi, che di
conseguenza li sposteranno in fondo al feed di quei pochi follower a cui
verranno mostrati. D/ L’algoritmo di Instagram cerca attivamente di
distogliere gli utenti dal proprio feed, suggerendo contenuti ad alto
potenziale di distrazione cuciti sui gusti personali. La maggior parte di
queste “esche” sono Reel che portano dritti alla sezione interdetta alla
politica.
[2] Digital Services Act, considerando 79
[3] Digital Services Act, art. 34
[4] Digital Services Act, considerando 81
[5] Digital Services Act, considerando 82
[6] Digital Services Act, considerando 70 e art. 34
[7] Richard H. Thaler e Cass R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile, p. 22
(Feltrinelli, 2021)
[8] Digital Services Act, considerando 67
[9] Digital Services Act, art. 25
[10] Digital Services Act, art. 49
[11] Digital Services Act, artt. 51-52
La censura di Facebook e la guerra - Alberto Negri
Da una settimana questo social media ha bloccato i miei post come quelli di
molti altri utenti. "Il tuo post è in fase di elaborazione", diceva,
nesssun accenno ai contenuti o alla violazione delle regole (mai violate
ovviamente). Una formula di censura mascherata da disfunzione tecnica. Questo
per spiegare che post e articoli verranno messi su X se qui non ci sarà la
possibilità di farlo. Servono alternative. Questo messaggio vi arriva perché ho
usato un link esterno.
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