Dire – mutuando il gergo giornalistico – che il governo Meloni mira all’introduzione della flat tax equivale a dire una verità parziale: il nostro diritto tributario, infatti, prevede già fattispecie di flat tax! Piuttosto, questo governo punta a convertire in una flat tax l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), storicamente connotata dalla progressività. Sulla (infelice) parabola dell’IRPEF torneremo a breve.
Intanto, basti dire che il nostro sistema fiscale è informato dal criterio
della progressività secondo Costituzione: ciò comporta che a una maggiore
ricchezza debba corrispondere l’applicazione di aliquote più elevate e, dunque,
un’imposizione fiscale più gravosa. Si può obiettare che, all’incremento del
reddito, le imposte si aggravano anche qualora si opti per un’aliquota fissa o
invariabile: il 20% di 10.000 è in ogni caso un decimo del 20% di 100.000.
Tuttavia, chi possiede 100.000 può contribuire alla spesa pubblica non solo con
una contribuzione maggiore, ma anche in proporzione maggiore: quest’ultima è la
scelta fatta dalla nostra Assemblea Costituente – ove socialisti e comunisti
ebbero una parte preponderante – con l’adozione del principio della
progressività. In particolare, la progressività che informa l’IRPEF è detta
“per scaglioni”, perché consiste nella suddivisione del reddito in scaglioni e
nell’applicazione a ciascuno di essi di una diversa aliquota, in modo che le
aliquote aumentino passando dal primo scaglione ai successivi.
La progressività delle imposte è garanzia della loro reale capacità
redistributiva, cioè di ridurre la concentrazione dei redditi e dei patrimoni
onde destinarli alla spesa pubblica: dunque, essa corregge quegli squilibri
capitalistici che tendono a concentrare la ricchezza nelle mani di pochi e con
ciò a deprivare lo Stato delle risorse necessarie a assicurare la soddisfazione
dei diritti sociali e perseguire la piena occupazione. La progressività o meno
della tassazione risponde dunque a una precisa scelta di politica fiscale, che,
proprio per la sua natura politica, si ripercuota sulla collettività e sugli
interessi delle parti che la compongono. Quando una cerchia di ricchi può
operare sul mercato a condizioni fiscali iniquamente vantaggiose, non ci vuole
molto che costoro potranno dirigere la vita economica del Paese secondo i
propri interessi, tra i quali non rientra certo la piena occupazione: essi
avranno anzi cura di creare un esercito industriale di riserva da cui trarre
manodopera a buon mercato (e non solo nei settori a bassa intensità di
capitale, ove cioè i processi produttivi sono affidati in maggior misura al
lavoro dell’uomo), con conseguente disoccupazione e deflazione salariale;
questa depressione comporterà un impoverimento delle casse dello Stato, che
indirizzerà le proprie spese su interventi-tampone di welfare anziché su
investimenti (produttivi, ma anche di conversione ecologica o nell’economia della
cura) miranti a soddisfare i diritti sociali e a impiegare forza lavoro a
salari conformi alla Costituzione.
La progressività in Italia è un’arma spuntata; essa informa sì l’IRPEF, ma
con un ventaglio di aliquote che nel corso del tempo si è fatto sempre più
ridotto e ristretto; inoltre, incontra vistose deroghe: alcune tipologie di
reddito percepibili dalle persone fisiche sono soggette a flat tax.
Nel 1973 – anno di istituzione dell’IRPEF – contavamo ben trentadue
scaglioni di reddito, il primo dei quali era colpito da un’aliquota del 10% e
l’ultimo dei quali era colpito da un’aliquota marginale del 72% (il termine
“marginale”, riferito a un’aliquota, indica che è essa l’ultima, dunque la più
elevata applicabile). Nel 2023 gli scaglioni erano soltanto quattro e
all’ultimo di essi si applicava un’aliquota marginale del 43%, mentre sul primo
scaglione di reddito (0 – 15.000 Euro), sul secondo scaglione di reddito
(15.000 – 28.000 Euro) e sul terzo scaglione di reddito (28.000 – 50.000 Euro)
rispettivamente le aliquote del 23%, 25% e 35%. A partire da quest’anno il
governo Meloni ha ridotto gli scaglioni a tre: fino a 28.000 euro si applica
l’aliquota del 23%; fra 28.000 e 50.000 euro l’aliquota del 35%; oltre 50.000
euro l’aliquota del 43%. Ci siamo mossi nel verso di un serio ridimensionamento
della funzione redistributiva e quel che è peggio è che ci si prepara a
spazzare via quel poco che resta della progressività in favore di un’unica
aliquota fissa: così è nelle dichiarate intenzioni del governo stesso.
La progressività è stata ulteriormente mutilata da numerose eccezioni che
contemplano l’applicazione di una flat tax, cioè di un’imposta calcolata
applicando alla manifestazione di ricchezza da tassare un’aliquota fissa, a
determinate tipologie di reddito, così sottratte al computo negli scaglioni di
reddito dell’IRPEF.
Sono soggetti a flat tax i redditi di capitale, colpiti con un’aliquota del
26% a prescindere dalla ricchezza del percettore. Si intuisce subito che questa
aliquota è inferiore alla seconda aliquota IRPEF e all’aliquota IRPEF
marginale: di questo sconto d’imposta si avvantaggia la classe medio-alta e
alta, che, disponendo di capitali più o meno ingenti, sovente li mette a
reddito. Sono redditi di capitale, per esempio, gli utili derivanti da
partecipazioni societarie e gli interessi maturati su obbligazioni e titoli
similari. Si noti che sugli interessi maturati sui titoli di Stato l’aliquota è
del 12,50% e così intorno a questi strumenti si consuma un vero e proprio
dilemma di classe: è bene che essi non siano o almeno non siano in larga parte
nelle mani di investitori stranieri, ma i cittadini che, avendo la materiale
possibilità di acquistarli, effettivamente li acquistino si troveranno a godere
di fatto di un trattamento fiscale agevolato rispetto a chi quei titoli non può
acquistarli o può acquistarli solo per un minimo ammontare e comunque da
quest’anno pagherà sul secondo scaglione di reddito un’aliquota del 35%.
Sono soggetti a flat tax i canoni di locazione che il proprietario dell’abitazione,
ricorrendone le condizioni di legge, scelga di assoggettare a cedolare secca:
l’aliquota che si applica sui canoni è del 21% ma, se si stabilisce un canone
concordato, scende addirittura al 10%.
Sono soggette a flat tax con aliquota del 26% le plusvalenze (cioè le
differenze tra l’originario prezzo di acquisto e il prezzo di cessione
ottenuto), realizzate tanto su beni immobili quanto su attività finanziarie. Le
plusvalenze sono subdolamente definite dalla nostra legge redditi diversi: a
ben vedere, in termini economici costituiscono reddito di capitale, non
provenendo da lavoro; la stessa osservazione vale per i redditi da locazione,
qualificati ai sensi di legge come redditi di fabbricati.
Nel nostro Paese la progressività gioca dunque un ruolo sempre più
limitato, i cui margini sono ridotti in particolare dalle eccezioni in tema di
redditi da capitale. Che la maggior parte di questi redditi (canoni di
locazione, interessi da prestiti obbligazionari, utili distribuiti da società,
plusvalenze) sia tassata con una flat tax, ben più bassa non solo dell’aliquota
marginale del 43% ma anche della seconda aliquota del 35%, non è circostanza
neutrale agli interessi delle classi dominanti. Una simile impostazione della
tassazione del reddito delle persone fisiche, infatti, non fa altro che
rafforzare il capitale e la sua intrinseca capacità auto-germinativa,
contribuendo così all’inveramento della legge di Piketty secondo cui il tasso
di rendimento del capitale sorpassa nel lungo periodo il tasso di crescita del
reddito.
Una bassa imposizione sui redditi da capitale è logicamente complementare
alla visione, tipicamente liberale, del risparmio quale presupposto di
investimenti e dunque, tramite essi, di aumento della produzione e del reddito.
Questa visione, che si fonda sull’ipostatizzazione dell’imprenditore
altruista tipica della c.d. trickle-down economics, è tanto più fuorviante in
un contesto – come quello attuale – finanzcapitalistico, di estrazione di
capitale da capitale, dove agli investimenti produttivi, creatori di lavoro e
dunque di reddito, si preferiscono movimentazioni di denaro sui mercati
finanziari (v. da ultimo l’acquisto di pacchetti azionari di società
dell’intelligenza artificiale a prezzi stellari da parte di fondi di
investimento); il capitale può così continuare a crescere e a offrire
rendimenti senza dover generare lavoro (e correlativo reddito).
La distribuzione della ricchezza viene orientata a favore di pochi
capitalisti e tutte quelle misure volte a ridurre le disuguaglianze reddituali
(legge sul salario minimo, parità di genere, tetto agli stipendi di manager
pubblici, etc.) risulteranno palliativi: meritevoli sì, ma non in grado di
incidere seriamente sui meccanismi redistributivi a causa dello strapotere del
capitale e della sua impunità, garantita, tra l’altro, proprio dalla flat tax.
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