Di
Cesare, Balzerani e un paese infelice che scorda i maestri da Croce
a Gramsci – Massimo Cacciari
Donatella Di
Cesare è una filosofa di rilievo internazionale, formatasi in scuole di
assoluto rigore scientifico ed etico in Italia e all’estero. Da questo dato di
fatto si dovrebbe partire, se si intendesse davvero comprendere e non
fraintendere e strumentalizzare la sua estemporanea nota sulla morte della
Balzerani. Ma si sa, ormai nulla viene contestualizzato, storicizzato, vige
solo la regola dell’agguato contro l’avversario politico, in ansiosa attesa
della sua gaffe, del suo inciampo, della sua battuta infelice. Non siamo tutti
pre-preoccupati prima di aprir bocca di non ledere qualche non scritta norma
del politically correct, della cancel culture, imperanti ogni giorno di più?
Tutti gli
scritti e i comportamenti della Di Cesare dimostrano la sua radicale avversità
a ciò che ha significato e comportato l’azione del terrorismo degli anni di
piombo. Questa azione ha bloccato non solo il “riformismo” dei partiti della
sinistra storica e del sindacato unitario, ma anche quei movimenti nella scuola
e nelle fabbriche in polemica con questi ultimi, ma assolutamente contrari alla
linea della lotta armata. Il terrorismo ha agito da potente fattore reazionario
nella politica italiana, esattamente nel senso di chi metteva le bombe a Piazza
Fontana, a Brescia, sui treni. Può la Di Cesare pensare che costituisse una
speranza rivoluzionaria? Via, siamo seri. Che intendeva dire – anche se certo
non lo ha espresso con chiarezza? Esattamente ciò che allora, in quegli anni
tragici che hanno segnato in negativo tutta la nostra storia fino a oggi, disse
Rossana Rossanda: anche il terrorismo rosso, piaccia o no, nasce da un humus
comune, da un confusissimo ma reale crogiuolo di lotte, speranze, illusioni che
ha segnato gli anni tra i ’60 e i ’70. Anche il terrorismo, che ha agito
potentemente nel disintegrare quelle speranze di riforma della scuola, delle
istituzioni, della cultura tutta di questa nazione, nasceva dagli anni della
contestazione, dal ’68 italiano e europeo. Non era necessario finisse così. Non
c’è nulla di necessario e razionale nella storia. E allora è giusto, è buono
anche, riconoscendo colpe e fallimenti, e anzitutto i propri, avere
misericordia anche dell’avversario, trovare una parola di pietà anche per lo
sconfitto, anche per quello sconfitto che più di altri ha favorito la tua
stessa sconfitta.
Diceva un
grande liberale, e in situazioni ben più drammatiche di quelle in cui oggi
viviamo: a volte è necessario entrare in guerra e combattere il nemico, ma
nient’affatto necessario “farsi l’animo della guerra”. Non è necessario portare
nella guerra “l’animo del bestione” che la concepisce come “distruzione del
nemico”. E aggiungeva questo liberale non credente: bisogna essere in grado di
vedere nello stesso nemico il fratello. Questo Paese ha dimenticato tutti i suoi
maestri, siano liberali o cristiani, siano i Croce o i Gramsci. Sta diventando
il Paese dell’intolleranza e della chiacchiera, delle facili demonizzazioni e
delle censure. Spetta ai suoi intellettuali, di ogni parte, reagire a questa
deriva, protestare contro canee come quella scatenata sul “caso” della Di
Cesare e contro gli inauditi provvedimenti che si accingono a prendere a suo
carico (ma mi auguro non sia vero) i suoi stessi colleghi, gli organi di
direzione della sua stessa università! Dobbiamo attenderci commissari del
popolo presenti alle nostre lezioni per controllare la nostra “linea di
condotta”? Si è così ciechi e sordi da non vedere la deriva che collega le
gogne per chi criticava le politiche sanitarie durante il covid, le liste di
proscrizione per i presunti filo-putiniani con casi anche apparentemente solo
personali come questo della Di Cesare? Le valanghe vanno fermate sul nascere.
Quanto manca un Pasolini! Quanta nostalgia di corsari (e dei giornali che ne
pubblicavano gli scritti)!
Dissenso, élites e
"anelare alla dittatura". La risposta di Carlo Rovelli a Mattia
Feltri sull'intervista pubblicata da l'AntiDiplomatico
Non è rimasta inosservata l'eccezionale intervista di Luca Busca al fisico e
grande intellettuale italiano, Carlo Rovelli, pubblicata da l'AntiDiplomatico. Decine e decine le testimonianze
di apprezzamento che ci sono giunte in redazione. Una qualità di contenuti e
una capacità di comprensione dei fenomeni attuali che è linfa vitale nei tempi
bui. Non è rimasta inosservata al punto da urtare la suscettibilità atlantica
di Mattia Feltri, direttore dell'Huffington Post, che gli ha dedicato una risposta
- "Una storia spaziale" - pubblicata, oltre che dal
suo giornale online, anche su La Stampa.
Di seguito pubblichiamo la risposta magistrale che Carlo Rovelli ha inviato
all'Huffington Post. Non bisogna fare alto che leggerla e rileggerla.
(A.B.)
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di Carlo Rovelli - Huffington Post
Caro Mattia
Feltri,
ti ringrazio
per il tuo commento a una mia intervista. Ti ringrazio per le parole di stima,
per l’invito che rivolgi ai lettori a cercare la mia intervista online, e anche per le forti critiche: queste sono sempre
buone occasione di scambi di idee. Accolgo l’invito al dialogo e provo a
rispondere, in amicizia.
Giudichi “ardimentosa” l’idea, a cui accenno, che nelle nostre società le
élites controllino il dissenso proprio permettendo libertà d’espressione invece
che sopprimendola. L’idea non è mia. Come accennato, risale a Herbert
Marcuse e alla sua critica classica ai rischi delle democrazie moderne; è
un’idea abbastanza nota. L’informazione mainstream, controllata dalle
élites al potere, si alza sopra la cacofonia permessa proprio dalla
libertà e mantiene in questo modo la sua influenza. Tu obietti che “i
giornali vendono sempre meno: il complotto fa acqua”. A me sembra che questa
obiezione confonda “i giornali” con “l’informazione mainstream”. I giornali
vendono sempre meno, ma l’informazione resta dominata dalle grandi reti
televisive e da chi controlla internet, sia i siti più seguiti sia i
social. Le televisioni, anche quelle di orientamenti politici opposti (in
America per esempio CNN e Fox News, ferocemente opposte fra loro), sono
entrambe controllate dalla grande ricchezza. E non è certo un caso che uno
degli uomini più ricchi del mondo abbia appena comprato uno dei social più
diffusi. Chi controlla televisioni, social e giornali mantiene un grande potere
sull’opinione pubblica, e chi ha molta ricchezza ci tiene molto a controllare
televisioni, internet, e, anche se vende meno, la carta stampata. Devo davvero
ricordarti quale famiglia italiana ha voluto per decenni mantenere il controllo
della Stampa, su cui ha pubblicato (oltre che su Huffpost)
il tuo commento alla mia intervista? Non lo ha certo fatto per
beneficenza, quella famiglia...
La tua
seconda critica riguarda un passaggio che presenti come “sulle mostruosità
del neoliberismo”. Immagino tu ti riferisca alla mia frase “Il risultato del
neo-liberismo è stata la concentrazione attuale della ricchezza, che nelle
nostre società non si vedeva dal medioevo, e quindi una disparità sociale
sempre più marcata.” Non vedo in cosa questa frase ci sia qualcosa di
sbagliato. È una fatto, confermato da molte statistiche, su cui concordano gli
economisti. Non è un giudizio di valore, né una dichiarazione di mostruosità:
per alcuni la concentrazione della ricchezza va bene, nella misura in cui
contribuisce all’arricchimento generale. Anche per i cinesi, a proposito. Ma
sul fatto, non credo ci siano dubbi.
Poi critichi quello che chiami “un palpitante elogio della Cina” perché scrivo
che “ha sollevato da povertà e analfabetismo mezzo miliardo di persone”. Ancora
una volta, questa non è un’opinione, è un dato di fatto. Protesti perché scrivo
che chi ha ottenuto questo è «un partito comunista che pone radicalmente
l’interesse comune al di sopra dei privilegi singoli». Qui non capisco bene la
protesta: non è proprio questo mettere la collettività sopra gli individui il
motivo per cui in occidente, dove l’individuo viene prima della
collettività, c’è tanta critica alla Cina? Scrivi: “Non vorrei
sembrare insolente, ma la Cina c’è riuscita [a sollevare da povertà e analfabetismo
mezzo miliardo di persone] proprio grazie al capitalismo e alla
globalizzazione, ovvero fenomeni nati in occidente e che hanno finito per
indebolirlo consegnando ai paesi più poveri gli strumenti per arricchirsi.”
Caro Feltri, perché dovresti essere insolente nel dire questo? È esattamente
quello che sostengo nell’intervista, e in tanti altri scritti: la Cina ha fatto
propri strumenti sociali, ideologici, tecnologici e altro, nati in Occidente e
si è arricchita, come tante altre parti del mondo, imparando dall’Occidente.
Che male c’è? Ci fa piacere che il resto del mondo raggiunga un po’ del
benessere che abbiamo noi, o no?
In questo processo, tuttavia, come giustamente osservi, l’Occidente ha perso lo
strapotere economico che aveva qualche decennio fa e quindi si è indebolito,
conservando solo la supremazia militare. Questo è esattamente quanto
sostengo nell’intervista. Del resto non sono solo idee mie; negli ultimi anni
sono usciti molti libri che analizzano questo processo in dettaglio, mi sono
limitato a riportare queste analisi. La Cina, come altri paesi, ha importato
idee e aspetti della cultura occidentale, facendoli propri, ma modificandoli,
adattandoli e ricombinandoli fra loro e con aspetti della cultura locale. In
particolare, da Deng in poi la Cina ha trovato il modo di avere un libero
mercato e un sistema economico capitalistico, come giustamente scrivi tu, dove
però il potere politico mantiene per sé l’ultima parola. Il partito comunista
cinese ha permesso l’accumulazione del capitale e della ricchezza individuale, ma
si considera il garante dell’interesse comune contro una eccessiva presa
di potere da parte delle élites economiche create da questo
stesso capitale. È questa politica che ha permesso che il grande sviluppo
economico della Cina degli ultimi 30 anni sia andato di pari passo con la
costante ridistribuzione della ricchezza che ha permesso l’uscita dalla povertà
estrema di mezzo miliardo di persone che ha stupito il mondo. Come
vedi, non sono in disaccordo con quanto scrivi. Questo controllo della politica
sulla ricchezza non piace alle élite economiche occidentali, ovviamente, e
questa, a mio giudizio, è una delle ragioni della feroce propaganda
anti-cinese, nell’informazione mainstream, controllata da queste élites. Ci
sono anche altre cose che non ci piacciono della Cina di oggi, né a me né a te.
Per esempio il fatto che non permetta l'espressione libera del dissenso come da
noi. Ma non deve piacerci tutto quello che fanno gli altri,
ovviamente. Non dobbiamo mica essere tutti eguali. Non mi sembra che
qualcosa di quanto tu scrivi contraddica quello che dico nell’intervista.
Infine,
chiudi con una curiosa giravolta, scrivendo “Ed è per questa debolezza [la
perdita di potere relativo dell’Occidente, su cui siamo d’accordo] che molti
ora detestano la democrazia e anelano alla dittatura.” Non so a chi ti
riferisci, ma se volevi riferirti a me, certo qui sbagli! Non detesto per nulla
la democrazia, e ancora più certamente non anelo alla dittatura! Sono geloso
della democrazia del paese dove vivo. Vorrei che fosse più genuina e meno preda
dell’interesse di pochi ricchi. Vorrei più democrazia, non meno. Però vorrei
soprattutto più democrazia nel mondo. Perché trovo non solo miope, data la
crescente debolezza dell’occidente, ma anche un po’ ipocrita, brandire la
democrazia per evitare che sia più democrazia nel mondo. Pensaci un attimo: per
molti “difendere la democrazia” oggi significa difendere la legittimità del
residuo strapotere militare sul mondo di una sparuta minoranza di paesi e
persone. Sarebbe questa la “democrazia”? Democrazia, io credo, vuol dire
seguire quello che domandano la maggioranza dei cittadini del mondo,
l’assemblea generale delle Nazione Unite, la corte internazionale di giustizia.
Invece, in nome della “democrazia” molti difendono il declinante strapotere
dell’Occidente su tutti gli altri. Anche quando alle Nazioni Unite c’è una
grande maggioranza, contro un solo veto. Difendono perfino l’arrogarsi da
parte di alcuni paesi del diritto di bombardare altri, come sta facendo
una missione di guerra a cui partecipa anche l’Italia, in Yemen, contro il
volere delle Nazioni Unite. A me questa non sembra democrazia. Il problema
importante, a me sembra, non è confrontare sistemi politici locali: nel mondo i
diversi popoli possono esplorare sistemi politici diversi, vedere cosa
funziona, cosa va bene e cosa va male. Possiamo tutti imparare qualcosa gli uni
dagli altri; la Cina ha imparato tantissimo dall’Occidente e secondo me
qualcosina potremmo imparare pure noi da un paese che cresce economicamente
molto più di noi, e con grande coesione sociale. Saremmo un po’ più
saggi. Invece di pensare a chi domina chi, o chi è il migliore di
tutti, pensiamo piuttosto come vivere insieme, come imparare gli uni dagli
altri. Come collaborare, invece di massacrarci, invece di armarci fino ai denti
gli uni contro gli altri, e sopratutto invece di descriverci l’un
l’altro come demoni malvagi, e insultarci l’un l’altro, terrorizzati dalla
nostra stessa ombra. Se tu questo lo chiami “anelare alla
dittatura”, temo di non essere stato abbastanza chiaro, nella mia
intervista.
Con
amicizia, Carlo
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