L’innovazione, la globalizzazione, l’intelligenza artificiale favoriscono una minoranza di privilegiati e una degradazione della condizione dei lavoratori. Che non possono contare che su sé stessi in caso di infortunio, malattia, gravidanza; niente sanità, niente pensione, ma solo una feroce concorrenza
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a delle grandi trasformazioni nel
mondo del lavoro. Viste dall’Europa, tali trasformazioni appaiono
complessivamente negative, ma se guardiamo dal punto di vista globale il quadro
tende a farsi almeno un poco più sfumato. Dall’avvento della Thatcher in
Gran Bretagna e di Reagan negli Stati Uniti (simboli eloquenti della loro
azione sono la lotta feroce della prima contro i minatori e del secondo contro
i controllori di volo), l’attacco frontale al mondo del lavoro ha assunto nuovo
vigore, trascinando in un ruolo attivo contro il lavoro anche importanti forze
politiche un tempo di sinistra e lasciandosi progressivamente dietro molte
delle conquiste del dopoguerra. In Occidente tale attacco, del resto ancora in
atto, è stato reso possibile oltre che dalle pessime decisioni assunte dalla
politica, anche dallo sviluppo dei processi di globalizzazione e da quelli di
innovazione tecnologica.
Gli effetti della globalizzazione e dell’outsourcing
Un grande fattore di trasformazione del mondo del lavoro negli ultimi
decenni sono stati indubbiamente i processi di globalizzazione, che hanno
portato alla fine a risultati in parte diversi da quelli che sperava di
ottenere chi li aveva innescati.
La coppia globalizzazione-outsourcing è stata avviata in
diverse ondate dagli Stati Uniti, da governo e imprese mano nella mano, e più
in generale dai paesi ricchi, con diversi obiettivi: intanto quello di
espandere e di approfondire la presa economica, ma anche politica e ideologica,
sul mondo, poi quella di ridurre i costi di produzione, approfittando in
particolare del bassissimo livello dei salari nei paesi del Terzo Mondo, a
fronte di una forza lavoro che in quei paesi andava tra l’altro
scolarizzandosi, insieme, soprattutto in alcuni di essi, a una certa dotazione
di infrastrutture funzionali a rendere efficiente il processo di
delocalizzazione.
Inoltre essa mirava a ridurre la forza delle organizzazioni sindacali nei
paesi ricchi e a tenervi sotto controllo in ogni caso i salari e le condizioni
di lavoro.
Questa espansione non sarebbe stata possibile senza un parallelo processo
di innovazione tecnologica, dall’evoluzione del trasporto marittimo e aereo,
con un forte abbattimento dei costi e un miglioramento dell’efficienza dei
relativi servizi, dalla modernizzazione delle tecnologie di comunicazione, con
il parallelo, da un certo momento in poi, prodigioso sviluppo di internet.
Attraverso una grande espansione dei commerci e degli investimenti dei
paesi ricchi verso quelli meno avanzati, un certo numero di imprese occidentali
hanno visto certamente crescere le loro vendite, i loro profitti, la loro forza
finanziaria, ma alcuni risultati, che sono sotto gli occhi di tutti, appaiono
invece piuttosto inaspettati.
Molti paesi, in particolare in Asia, a partire prima dalle cosiddette
“tigri asiatiche”, poi subito dopo dalla Cina, hanno visto, grazie all’arrivo
degli investimenti e del know-how occidentale, un prodigioso
sviluppo dell’economia e in parallelo dell’occupazione; il processo ha
contribuito a far uscire dalla miseria molte centinaia di milioni di persone in
Cina e in diversi altri paesi. Certo, non tutto è stato rose e fiori, come ad esempio
ha mostrato qualche anno fa la tragedia dei lavoratori tessili del Bangladesh,
ma complessivamente l’apertura dei mercati ha portato grandi benefici ai paesi
del Sud, sia pure in maniera diseguale, sul fronte del lavoro e dell’economia
in generale.
Il trasferimento delle attività industriali al Sud, al di là dei vantaggi
di relativamente ristrette oligarchie, ha avuto al Nord effetti alquanto
negativi. Interi settori industriali sono emigrati dal Nord al Sud e oggi è
l’Asia a essere al centro dello sviluppo industriale.
Oggi i paesi del Terzo Mondo controllano il 60% del PIL mondiale con
tendenza alla crescita; fra qualche anno saremo probabilmente al 70%. Di più, i
paesi del Sud hanno appreso a governare le tecnologie più innovative; il caso
più emblematico è quello dei chip, la produzione dei quali, in particolare di
quelli più avanzati, oggi è controllata per la gran parte da Taiwan e Corea del
Sud, mentre più del 50% del mercato mondiale si colloca in Cina.
Parallelamente abbiamo assistito a una rilevante desertificazione
industriale in diversi paesi del Nord, dagli Usa alla Francia alla Gran
Bretagna; in Italia, come al solito, la cosa si è manifestata più tardivamente,
ma dal 2008 a oggi il nostro paese ha visto svanire i due quinti del suo sistema
industriale (Bricco, 2023). Negli Stati Uniti, milioni di addetti hanno perso
il lavoro e una parte della classe media è entrata in crisi, mentre il
tentativo degli ultimi tempi per riavviare un processo di reindustrializzazione
del paese si scontra con la mancanza di know-how e di una
manodopera adeguata, nonché con costi esorbitanti (produrre chip in Usa costa
oggi dal 50 al 60% in più che nei paesi asiatici). E’ aumentata la povertà, si
sono diffusi alcolismo, droga, suicidi, negli strati più bassi della
popolazione.
Anche in seguito a tali processi si è registrata nei paesi del Nord del
mondo una rilevante perdita di peso e di forza delle organizzazioni sindacali,
in particolare in Europa. Tale processo di degrado si è svolto con la
complicità, spesso attiva, della gran parte dei governi, come abbiamo già
accennato, da Reagan alla Thatcher, sino al nostro Renzi, con il suo
terrificante jobs act, forse il punto più basso di un partito
“progressista” in un paese rassegnatosi al declino.
La spinta dei processi di globalizzazione ha contribuito a ribaltare anche
l’ordine internazionale uscito dalla fine della seconda guerra mondiale e a
mettere al centro dei processi economici e tendenzialmente politici in
particolare l’Asia, mentre l’Occidente riesce sempre meno a imporre la sua
volontà al mondo.
L’impatto dell’innovazione tecnologica sul mondo del lavoro
Un’altra grande forza che influenza il mondo del lavoro è costituita
ovviamente dall’innovazione tecnologica, oggi sotto la doppia veste digitale ed
energetica. Ricordiamo, preliminarmente, che le trasformazioni tecnologiche non
sono neutrali, ma sono sospinte dagli interessi di chi le controlla, in
particolare da pochi gruppi oligarchici a livello mondiale, in collegamento con
un mondo politico al loro servizio e che tali processi, d’altra parte,
interagiscono con quelli ricordati sopra di globalizzazione-outsourcing.
Ripercorrendo in estrema sintesi la storia del dopoguerra, abbiamo
assistito, già alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta
del Novecento, a un primo sviluppo dei processi di automazione, mentre anche in
Europa si diffondevano le metodologie di organizzazione del lavoro
tayloristiche, portando tra l’altro a quello che uno studioso dell’epoca,
Georges Friedmann, chiamò le travail en miettes (in un testo
la cui prima edizione risale in Francia al 1956). Più recentemente arrivarono i
computer e l’informatica, che porteranno poi alla rivoluzione digitale, tra
l’altro con lo sviluppo di internet e derivati, mentre parallelamente avanzerà
un nuovo livello di automazione nelle fabbriche.
Oggi registriamo lo sviluppo folgorante dell’IA, ma ci sono anche delle
altre importanti novità; intanto per quanto riguarda i processi di automazione,
si stanno sviluppando robot più leggeri e più flessibili, più veloci e meno
cari. Poi c’è la stampa a 3D, che avanza e di cui si parla ancora poco. In
alcuni impianti americani e cinesi si può ormai fabbricare una vasta gamma di
oggetti, dalle parti per aerei alle pareti degli edifici, passando da una
produzione all’altra in pochi minuti cambiando quasi soltanto il software.
Ricordiamo infine come il settore agricolo tenda a essere investito da
un’ondata di innovazioni che potrebbero portare a un suo drastico
ridimensionamento; si va dalla carne, dal latte e dai formaggi prodotti in
laboratorio, alle fabbriche verticali di frutta e verdura, mentre gli
scienziati cinesi hanno annunciato qualche tempo fa la sintesi dell’amido in
laboratorio, scoperta che potrebbe portare alla produzione anche dei cereali in
fabbrica. Tale trasformazione comporterà inevitabilmente anche grandi mutamenti
nel lavoro agroindustriale.
La qualità del lavoro: l’uberizzazione
Mentre gli studiosi dibattono sulle conseguenze dell’innovazione
tecnologica in merito alla quantità di lavoro disponibile, sulla dimensione
qualitativa del problema ci sono pochi dubbi. L’innovazione tecnologica e la
globalizzazione, nonché il rifiuto di governarla da parte dei governi, se
favoriscono in Occidente una ristretta minoranza di privilegiati, comportano
contemporaneamente una degradazione della condizione di gran parte dei
lavoratori e questo su molti versanti.
Intanto siamo da tempo di fronte a un vasto processo che qualcuno ha
chiamato di “uberizzazione” del lavoro. Le attività di società come Uber e
altre operanti nel settore della cosiddetta sharing economy non
rappresentano tanto un’innovazione vera e propria sul mercato del lavoro,
quanto il punto culminante di un trend di lungo periodo. Già prima della
fondazione della società sopra citata, l’economia degli Stati Uniti si stava
nella sostanza “uberizzando”, con decine di milioni di americani coinvolti in
qualche forma di lavoro precario. In un paese come la Gran Bretagna, poi, circa
il 15% della forza lavoro è oggi impiegata nel settore.
Le principali imprese della sharing economy, nella loro
politica verso gli addetti alle varie attività, sostengono il principio di base
che il loro ruolo è di semplici intermediari tra i clienti e i fornitori dei
servizi e che quindi questi ultimi sono a tutti gli effetti lavoratori
autonomi. Così le persone non possono che contare su sé stesse in caso di
infortunio, malattia, gravidanza, ecc.; quindi niente contributi sociali,
niente servizio sanitario, niente pensione, niente vacanze pagate, ma solo una
feroce concorrenza tra individui atomizzati, in una gara verso il baratro.
Siamo di fronte, insomma, a un precariato generalizzato. La disponibilità di
sofisticati programmi informatici permette ai padroni di controllare a ogni
istante le prestazioni dei lavoratori e di esercitare pressioni molto forti sul
loro comportamento.
In diversi paesi alcuni tribunali sono intervenuti contestando la visione
delle imprese e assicurando a una parte dei lavoratori del settore i loro
diritti o almeno alcuni di essi. Ma per la gran parte delle persone i problemi
restano.
Molti lavori anche impiegatizi sono sempre più suddivisi in decine di
mansioni singolari, attribuiti per ogni singola componente a lavoratori
volenterosi che operano in qualsiasi parte del mondo e capaci di offrire il
prezzo più basso. Il sito più noto a questo proposito è il Mechanical
Turk di Amazon, che offre costantemente la possibilità di svolgere una
miriade di piccole attività di livello quantitativo estremamente ridotto. Basta
possedere un collegamento internet. Il lavoro praticamente è fatto
letteralmente a pezzi (Comito, 2023). Ne “approfittano” soprattutto i
lavoratori poveri dell’Africa e dell’Asia.
Per quanto riguarda la qualità del lavoro in Francia il CNIL, la
commissione nazionale dell’informatica e delle libertà del paese, ha sanzionato
la filiale Amazon incaricata dei depositi logistici locali del
gigante americano, condannandola a un’ammenda di 32 milioni di euro per il
fatto che società ha messo in funzione un sistema di sorveglianza elettronico
dell’attività e delle prestazioni dei salariati della società eccessivamente
intrusivo e che esercita una pesante pressione continua sui lavoratori. Il CNIL
rimprovera anche alla società il fatto che, contrariamente alle norme in vigore
nel paese, essa conserva per più di 31 giorni i dati riguardanti ogni salariato
(Dèbes, Boone, 2024).
Sempre facendo riferimento al caso transalpino, quasi una persona su cinque
nel settore non agricolo del paese è remunerata con il salario minimo (oggi
uguale a 11,65 euro), contro soltanto il 12% agli inizi del 2021 (Madeline,
2024).
In Francia come in diversi altri paesi europei sta inoltre crescendo il
numero dei lavoratori poveri, che hanno cioè molte difficoltà ad arrivare alla
fine del mese. Sempre in Francia diverse organizzazioni, dall’Agenzia per il
miglioramento delle condizioni del lavoro (Anact), all’Istituto nazionale di
ricerca e di sicurezza (INRS), all’Associazione per l’impiego dei quadri
(Apec), studiano il futuro del lavoro all’orizzonte 2050 (Rodier, 2024). In
generale tali centri prefigurano un quadro a tinte scure del futuro,
individuando un’intensificazione della “ripetibilità” dei compiti, una
ulteriore destabilizzazione dell’impiego salariale, una distruzione di posti di
lavoro, nonché una fragilizzazione della dignità del lavoro.
Intanto si torna indietro anche su qualche altro aspetto delle condizioni
di lavoro. Il primo ministro francese annuncia in queste settimane un altro
giro di vite inflitto alle indennità di disoccupazione, dopo che i diritti dei
lavoratori sono stati ristretti in passato diverse volte a seguito dell’arrivo
al potere nel paese di Macron.
Bisogna comunque ricordare che il degrado della qualità del lavoro con
l’avanzamento delle tecnologie non appare per alcuni aspetti un processo del
tutto inevitabile. Si ricordano a questo proposito gli esempi di Germania e
Svezia, paesi dove in certi casi i poteri pubblici hanno impostato programmi di
intervento che permettono di salvaguardare la qualità del lavoro e di
conservare molte attività a rilevante qualificazione anche in presenza dello
sviluppo delle tecnologie.
Ma il degrado delle condizioni di lavoro non è da collegare soltanto allo
sviluppo delle tecnologie. Ricordiamo che già da decenni abbiamo assistito
all’introduzione dei metodi in senso lato tayloristici anche nel settore
impiegatizio e anche nel campo dei servizi. Si va in direzione
dell’eliminazione di tutti i “tempi morti” e dei “costi inutili”, si
intensificano i ritmi, si aumentano i controlli; il “dimagrimento” degli
effettivi e altri tipi di “compressione” dei posti di lavoro riducono gli
effettivi, mentre delle grandi porzioni di attività vengono trasferite in outsourcing e
mentre le fusioni e le riorganizzazioni cercano anch’esse i “doppioni”
(Magnette, 2024).
Si ridurrà la quantità di lavoro?
Le ricerche francesi sopra citate ci introducono anche al tema della
quantità dell’offerta di lavoro. Si può ricordare l’esistenza di due scuole di
pensiero, una, maggioritaria, che pensa che le conseguenze dello sviluppo tecnologico
saranno quelle di una progressiva riduzione del numero dei posti di lavoro e di
una forte polarizzazione tra una fascia ridotta di lavori molto qualificati e
una maggioritaria di lavori dequalificati; l’altra impostazione minoritaria,
che pensa invece che a fronte dei posti di lavoro che scompariranno ne saranno
creati altrettanti in nuovi settori.
Anche considerando l’ipotesi ottimistica, ricordiamo che al tempo della
prima rivoluzione industriale la contestazione delle macchine da parte dei luddisti
per la paura di perdere posti di lavoro sia stata smentita dai fatti. In
effetti, l’evento alla fine procurò nuovo lavoro in misura almeno eguale se non
maggiore di quello che andò perduto, il processo non fu comunque indolore e il
passaggio non fu certo istantaneo; per arrivarci infatti ci vollero molti
decenni di sofferenze per i soggetti interessati. E comunque la situazione oggi
appare più problematica di allora, essendo gli attuali sviluppi tecnologici
molto più pervasivi (Comito,2023).
Incidentalmente va ricordato che, in un testo diventato presto un classico
sul mondo del lavoro, E.P. Thompson (Thompson, 1963) sottolinea come i luddisti
non erano, come è stato invece tramandato, dei ciechi oppositori
all’introduzione delle macchine, ma che essi lottavano invece contro la libertà
dei capitalisti di distruggere la condizione lavorativa, in termini di salari
come di pratiche tecniche e organizzative in fabbrica.
Naturalmente, il problema della riduzione anche drastica dei posti di
lavoro sarà in futuro attenuato in qualche misura dai nuovi tipi di attività
che potranno nascere; comunque per riorientare i lavoratori verso i nuovi
mestieri ci vorrà un rilevante sforzo di formazione.
La via per cercare di ridimensionare gli sviluppi più dirompenti dei processi
descritti passa per la riduzione dell’orario di lavoro, processo che qualcuno
sta tentando, mentre bisognerebbe poi considerare che le trasformazioni sopra
descritte saranno lente nel tempo e che questo faciliterà l’opera dei poteri
pubblici per governare in qualche modo la questione. Nel prossimo futuro la
riduzione dei posti di lavoro indotta dalla tecnologia sarà contrastata dalla
caduta del tasso di natalità della popolazione, in particolare nei paesi
ricchi.
Il caso più rilevante e più immediato a questo proposito riguarda il
Giappone, paese dove la situazione appare difficile, poiché la caduta della
natalità si è manifestata con maggiore forza che in altri paesi (Inagaki,
2024). Qui non si riesce più ad assicurare i servizi essenziali su cui contare
per mantenere lo stile di vita delle persone e le infrastrutture sociali.
Secondo l’RWI (Recruit Work Institute) si prevede che nel 2040 mancheranno nel
paese 11 milioni di persone rispetto a quanto sarebbe necessario per far girare
l’economia. Dopo aver aumentato il ricorso all’impiego delle donne e al
prolungamento dell’età di lavoro delle persone, misure che si sono rivelate
insufficienti, si sta ora cercando di ricorrere, tra l’altro, alla robotica e
all’IA, nonché per la prima volta all’ingresso nel paese in maniera massiccia
dei lavoratori di altri paesi asiatici. Si è superato, alla fine del 2023, il
numero di due milioni di stranieri nella forza lavoro locale, un record
nazionale. Rimanendo in Asia, potrebbe succedere che a un percorso simile sia
destinata in un prossimo futuro anche la Cina.
Il lavoro al tempo dell’IA
Una particolare attenzione viene rivolta in questo momento più in generale,
non a torto, allo sviluppo dell’IA e alle sue conseguenze.
Un recente studio del Fondo Monetario Internazionale mostra che almeno il
40% dei lavori attuali saranno toccati da tali processi, ma con la differenza
che nei paesi sviluppati si raggiungerà il 60% degli stessi, mentre in quelli
più poveri il 26%. Sempre secondo l’FMI, l’IA abbassa i salari e anche la
domanda di lavoro, mentre peggiora le già elevate diseguaglianze. Uno studio
parallelo di Goldman Sachs indica che l’IA può sostituire l’equivalente di 300
milioni di posti di lavoro a tempo pieno nel mondo e che comunque saranno
avvantaggiati i lavori ad alta remunerazione e quelli dei giovani, mentre
saranno penalizzati i lavoratori a basso reddito e quelli più anziani (Rodier,
2024).
Sembra in ogni caso essersi delineata una specie di divisione del lavoro
tra la robotica e l’intelligenza artificiale. La prima attacca soprattutto,
anche se non solo, i lavori operai, la seconda prevalentemente quelli
impiegatizi, dei quadri anche ad alta qualificazione, nonché dei professionisti
autonomi. Le innovazioni organizzative, nel frattempo, toccano invece tutti i
mestieri.
Mentre scriviamo, leggiamo sulla stampa internazionale (Steiwer, 2024) che
la società europea più grande nel settore del software, la tedesca SAP, si sta
ristrutturando per concentrarsi sul cloud e sull’IA, ciò che
tende a mettere in discussione 8.000 posti di lavoro.
Un aspetto particolare della questione riguarda poi il ruolo delle donne.
Esse non rappresentano che il 12% degli impieghi nel settore e la loro pratica
assenza è una delle ragioni chiave del sessismo degli algoritmi concepiti e sviluppati
dagli uomini e in un universo maschile (Caulier, 2024).
Negli Stati Uniti è dell’80% la percentuale delle donne i cui impieghi sono
esposti in maniera significativa all’introduzione dell’IA, contro una
percentuale del 60% per gli uomini (Caulier, 2024).
Un altro rischio è quello della soppressione di impieghi che potrebbe
toccare più fortemente i mestieri più femminilizzati, come il marketing, il
settore giuridico, il servizio clienti.
La sfida dell’auto elettrica
Si può in generale avere pareri discordi sulle conseguenze dell’innovazione
tecnologica per quanto riguarda il livello dell’offerta del lavoro, ma è
difficile contestare quello che emerge dall’esame di una attività particolare
molto importante, quella dei veicoli. In Europa esso è ancora oggi il settore
industriale più importante; è stato calcolato che in Germania esso occupa, tra
diretti e indiretti, 15 milioni di persone, una cifra enorme. Ma anche in
Italia esso è ancora quello principale.
L’arrivo della vettura elettrica e prossimamente quello dell’auto a guida
autonoma avrà enorme influenza sui livelli di occupazione.
Per quanto riguarda la prima, bisogna considerare che una vettura elettrica
richiede molte meno componenti che una a energia classica. Questo comporta
inevitabilmente una riduzione importante delle necessità di manodopera in sede
di montaggio delle vetture e della logistica che sta dietro, ma soprattutto ha
come conseguenza una drastica riduzione delle necessità di lavoratori nel
settore della componentistica; inoltre, mentre si va verso una trasformazione
molto profonda dei mestieri relativi, si registrerà anche una minore necessità
di officine di riparazione e manutenzione delle vetture. La cosa si
presenta come ancora più grave per il fatto che oggi una vettura elettrica vede
la batteria pesare per il 40% del suo costo totale e il software per un altro
40%, lasciando alla parte meccanica più complessa pochi spazi.
Proprio in queste settimane, dopo i casi di Bosch e Continental, la ZF, la
società di componentistica tedesca che è anche la terza al mondo come
dimensioni nel settore dopo le prime due appena citate, annuncia l’esigenza di
spingere sulla rivoluzione elettrica e di delocalizzare contemporaneamente una
parte della produzione verso paesi con costi più bassi, Cina, India, Europa
dell’Est, prevedendo alla fine 12 mila licenziamenti (Ansa, 23 gennaio 2024).
Secondo alcune stime, il passaggio all’elettrico metterebbe a rischio a breve
nel paese teutonico un quinto della forza lavoro tra case dell’auto e componentistica.
Per quanto riguarda la seconda bisogna considerare che alla lunga, tra
l’altro, sparirà progressivamente il mestiere di autista, che oggi costituisce
all’incirca il 10% della forza lavoro a livello mondiale. Un altro problema
deriverà dal fatto che l’introduzione dell’auto a guida autonoma comporterà una
riduzione anche sostanziale nella produzione di vetture, cosa che aggraverà
ancora la scena.
Testi citati nell’articolo
– Bricco P., Pmi leader
d’Europa, ma la capacità produttiva crolla, Il Sole 24 Ore, 31
dicembre 2023.
– Caulier S., Femmes et hommes
sont-ils égaux face à l’avènement de l’IA dans les entreprises ?, Le
Monde, 25 gennaio 2024.
– Comito V., Come cambia
l’industria, Futura, Roma, 2023.
– Dèbes F., Boone J., Amazon va
trop loin dans la surveillance des salariés selon la CNIL, Les
Echos, 24 gennaio 2024.
– Inagaki K., Japan turn to
avatars, robots and AI to tackle labour crisis, www.ft.com, 22 gennaio 2024.
- Madeline B., En France, la
grande « smicardisation », Le Monde, 23 gennaio 2023.
- Magnette P., L’autre moitié du
monde, La Découverte, Parigi, 2024.
- Rodier A., Quel travail
désirable à l’horizon 2050 ?, Le Monde, 25 gennaio 2024.
- Steiwer N., Une
restructuration chez SAP affecte 8.000 postes, Les Echos, 25
gennaio 2024.
- Thompson E. P., The making of
the english working class, Vintage books, Londra, 1963.
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