Da un po’ di tempo è quasi un luogo comune dire che se dovesse scoppiare la
terza guerra mondiale, questa volta nucleare da entrambe le parti, sarebbe
l’ultima guerra dell’umanità. L’affermazione mi sembra più mitica che
realistica: presuppone uno scenario molto improbabile sul piano bellico, cioè
che le migliaia di ordigni a disposizione delle otto o nove potenze nucleari
scaricassero tutte insieme le loro potenzialità distruttive.
Più realisticamente verrebbero prima usate bombe tattiche, capaci di radere
al suolo intere città, poi alcune di maggiore potenza che devasterebbero
regioni più ampie; ma di fronte a una palese superiorità di una delle parti, o
all’entità delle perdite di entrambe, si arriverebbe a un armistizio dettato
dal terrore se non dalla ragione. Mettiamo che lo spaventoso risultato fosse di
duecento milioni di morti, più della somma di qualunque altra guerra finora
combattuta; sarebbe un 2,5 per cento della popolazione mondiale. L’altro 97,5
dovrebbe affrontare un terribile dopoguerra, con malattie a lungo termine,
pesanti strascichi economici, finanziari e informatici, difficoltà di
ricostruzione, odio incontrollabile; ma alla fine si arriverebbe comunque a una
pace, a solenni dichiarazioni di “mai più”, alla costituzione di una nuova e
più efficiente organizzazione mondiale delle nazioni.
La vita riprenderebbe, la resilienza della specie umana non può essere
sottovalutata; a meno che l’umanità non si dirigesse verso una soluzione
apparentemente più soft (l’autodistruzione per via di catastrofe climatica),
passerebbe un altro paio di secoli e a dispetto del concetto di deterrenza
scoppierebbe la quarta guerra mondiale. E poi la quinta eccetera, combattute da
uomini molto diversi dagli attuali. La Storia, scriveva Montale, «non è
magistra di niente/ che ci riguardi».
Perché allora si proclama come un dogma la visione apocalittica? Perché si
dà per scontato che non si possa dichiarare guerra a una nazione dotata di
arsenale nucleare? Solo il terrorismo è possibile contro quel tipo di nemico, o
il suo isolamento totale, o il suo peraltro dubbioso strangolamento economico?
Di fatto sono le soluzioni più ragionevoli e meno suicide, ma portano con sé
come corollario che si accetti un inevitabile e complesso reticolo di reciproci
ricatti, compromessi etici e materiali, ambiguo tradimento di alleanze.
Non so bene perché, ma la situazione così delineata mi pare parallela e
corrispettiva a un altro meccanismo psicologico che non cessa di stupirmi, cioè
il disperato bisogno di sperare e l’idea che si possa sempre ripartire per
costruire un mondo completamente rinnovato. Rinnovato, s’intende, da
un’ideologia consapevole e da qualche figura carismatica, non dalla cieca corrente
della Storia. Apocalisse e palingenesi.
CAMBIAMENTO “DA FUORI”
L’altro giorno, alla presentazione di un libro, si parlava del fatto che il
mutamento politico radicale, in occidente, risulta oggi impossibile; una
ragazza ha obiettato «forse lo faranno i ragazzi della seconda generazione» e
io come uno scemo non ho capito, ho chiesto «seconda rispetto a cosa?»
Si riferiva ai migranti di seconda generazione, a un cambiamento che si
spera possa venire “da fuori”, o meglio da dentro ma ad opera di chi del fuori
ha serbato un ricordo; ripartire da Ghali, o addirittura da Mahmood. Il
pensiero mi è corso a tutte le volte che la sinistra italiana ha indicato un
punto fuori dalla politica politicante da cui ricominciare per rigenerarsi:
Aboubakar Soumahoro come possibile nuovo segretario del Pd, ripartire da Giulia
Cecchettin, credere che la recente vittoria elettorale in Sardegna potesse
segnare un cambiarsi del vento. Ridare nuova centralità agli operai,
ricostruirsi dal basso, fidarsi dei giovani che stanno riscoprendo lo spirito
di comunità, rivalutare l’amore.
L’ultima e la penultima cosa valgono sia per la sinistra che per la destra,
qui magari con sfumature di rimpianto e di rivalsa; per la destra la
palingenesi è il ritorno alle “buone pratiche”, invertire di 180 gradi un mondo
che sta camminando al contrario, uscire dall’euro, ripristinare il servizio
militare obbligatorio, ritrovare l’amor di patria, Mameli, la bellezza italiana
tradizionale, la Sacra Famiglia, l’eroismo.
Il comun denominatore, mi sembra, è lo smarrimento di fronte a una
mutazione irreversibile dei costumi, dei rapporti di forza a livello mondiale,
del concetto stesso di umanità. La tecnologia col suo moto accelerato (anche se
non “esponenziale” come vorrebbero certi adepti più o meno neo-gnostici come
Ray Kurzweil) rende il futuro del tutto impredicibile; per questo riappaiono
termini a sfondo religioso, fughe in avanti o all’indietro.
La direzione che l’Occidente ha imboccato, mentre si espande e si
globalizza, sconta un peccato originale: dopo aver sottomesso per troppo tempo
molte parti del pianeta con la violenza, il richiamo a “adesso pace” sembra
egoista e arrogante a chi ha dovuto subire. Difficile immaginare che sul piano
geopolitico si possa arrivare a una “nuova Yalta” se prima non c’è stato un
vero, spietato conflitto. Ci si rifugia nell’illusione che bastino le “prese di
coscienza”, ma è un’illusione che ha sempre fallito, l’Illuminismo ne è
testimone.
PRONTI A MORIRE PER TALLINN?
È molto bello che i ragazzi della generazione Z affermino di preferire il
“noi” all’io; il problema è capire che cosa siano disposti a fare nel caso che
il “noi” richieda all’io dei sacrifici non formali. Se Putin, tanto per fare un
esempio, dopo aver vinto in Ucraina ed essersi impadronito della Transnistria
nonché della Moldova, attaccasse l’Estonia, varrebbe la pena di morire per
Tallinn? Quanti di loro (per non dire di noi, incancreniti nel benessere)
saprebbero rinunciare al loro tenore di vita e combattere per un ideale?
I padri della nostra democrazia l’hanno fatto, hanno sofferto fame, guerra
e prigionia; nemmeno loro lo volevano, avrebbero preferito studiare, godersi i
piaceri della giovinezza; il dominio della bruta forza li ha costretti. Sognare
le ripartenze non costa nulla, e nemmeno consolarsi attribuendo a se stessi
un’astratta disponibilità alla lotta; né è dignitoso rifugiarsi nella
convinzione di un’impotenza generalizzata.
L’orizzonte sembra chiudersi in un cupo circolo vizioso, a cui ci si
sottrae accontentandosi di miglioramenti settoriali, coltivare il giardino
delle nostre attenzioni verso gli altri e delle nostre brame di giustizia. La
guerra in Europa non ci sarà, siamo troppo civili per questo; la cultura ci
salverà? Hic Rhodus, hic salta.
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