(intervista di Giulia Bertotto a Gisella Trincas)
Gisella Trincas è presidente UNASAM, Unione Nazionale delle Associazioni
per la Salute Mentale, la quale “sollecita l’attuazione, su tutto il territorio
nazionale, di piani di intervento per la realizzazione dei servizi territoriali
di salute mentale aperti sulle 24 ore sette giorni su sette. Sollecita il
superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e di tutti i luoghi di
internamento. Svolge, su tutto il territorio nazionale, attraverso le
Associazioni aderenti, una azione di prevenzione attraverso dibattiti pubblici
e la pubblicazione e diffusione di agili dispense informative. L’UNASAM non
vuole nuove leggi, ma l’applicazione urgente delle buone leggi che in Italia
sono state fatte”.
L’abbiamo intervistata per parlare della controversa figura
dell’Amministratore di sostegno, ma anche di alcune zone d’ombra più profonde
nella questione del disagio psichico: la carenza strutturale della prevenzione
e del ruolo dei mezzi di informazione nella criminalizzazione della sofferenza
interiore.
GISELLA TRINCAS E LA FIGURA DELL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO
Gisella Trincas, cos’è e come nasce l’amministrazione di sostegno?
L’istituto dell’amministrazione di sostegno nasce con la Legge 6 del 2004,
dopo decenni di dibattito parlamentare, su proposta del giurista Paolo Cendon
impegnato per l’eliminazione dell’interdizione e della inabilitazione, con la
modifica del codice civile e l’introduzione di altro istituto giuridico
(appunto l’amministrazione di sostegno) col compito di sostenere le persone con
sofferenza mentale o disabilità nel loro progetto di vita senza togliere loro
il diritto di scelta. Infatti anche dopo la Legge 180 tantissimi pazienti
ancora internati negli ospedali psichiatrici erano interdetti. Queste persone
erano dunque ridotte esclusivamente alla loro patologia, impedite nell’agire
per i propri interessi, impossibilitate a gestire i propri beni. Noi come Unasam
abbiamo subito appoggiato la proposta di Cendon in quanto ritenevamo gravemente
discriminante l’interdizione. Crediamo infatti nell’emancipazione del paziente
psichiatrico e nel miglioramento delle sue condizioni di salute, nella sua
autodeterminazione e non nella privazione della sua libertà e capacità
decisionale.
Questa figura nasce come una sorta di accompagnatrice volontaria, per
offrire appunto accompagnamento e sostegno nell’esclusivo interesse della
persona affetta da disturbo psichico o fragilità sociale; bisognosa di sostegno
nel prendere le proprie decisioni ed effettuare le proprie scelte di vita.
Abbiamo assistito invece, già dai primi anni successivi alla approvazione della
Legge che non pochi amministratori di sostegno si sostituivano sempre più alla
volontà della persona beneficiaria. I giudici iniziavano a scegliere persone
estranee al nucleo familiare o di fiducia della persona beneficiaria. La
scelta, in tante situazioni, ricadeva su persona totalmente estranea alla vita
della persona beneficiaria con disturbo mentale, e questo cozza con il percorso
riabilitativo/emancipativo che invece si dovrebbe sempre garantire alla persona
che vive una condizione di sofferenza mentale. Nella provincia di Cagliari
venne stilato un albo di candidati amministratori di sostegno da cui i
tribunali attingevano per nominare gli amministratori. Si sono così costituite
reti di professionisti come avvocati, commercialisti, operatori socio sanitari
che lavoravano nelle cooperative e che consideravano “più redditizio” assumere
tale incarico, associazioni di amministratori di sostegno. Tanti familiari
conviventi venivano e vengono spesso tagliati fuori, e questo acutizza
situazioni già difficili.
Sembra molto vischiosa e pericolosa questa situazione...
Lo è. Soprattutto considerando che spesso questi professionisti hanno campo
libero nel gestire i beni ed eventuali patrimoni della persona, dal conto in
banca del beneficiario con esclusiva gestione dell’amministratore. Con limiti
mensili stabiliti dal Giudice Tutelare ma non totale discrezionalità nella
gestione. Alcuni, non pochi, amministratori di sostegno assumono il controllo
totale della gestione economica di centinaia di pazienti ma ci sono tanti
aspetti della vita quotidiana e della vita sociale che passano in secondo
piano. Tuttavia questo non è un sostegno nel percorso di responsabilizzazione
della persona con disturbo psichico, ma di fatto si tratta di un’interdizione
sotto altro nome, se vogliamo dirlo sinteticamente. Accade anche che sanitari
ospedalieri o delle RSA sottopongano a amministratori di sostegno la firma per
la contenzione fisica. E in presenza dell’amministratore di sostegno esterno
alla famiglia, i familiari (pur conviventi) non abbiamo alcuna voce in capitolo
per quanto riguarda i percorsi di cura dei loro cari.
Ci sono molte segnalazioni e testimonianze che ho potuto appurare in prima
persona e che provano questo tipo di realtà e di degenerazione nella gestione
di questo istituto giuridico che nasce per sostenere la persona in difficoltà e
non per renderla incapace di provvedere a sé. Assistiamo ad abusi gravissimi
della legge, ad esempio quando un amministratore di sostegno controlla gli
accessi delle visite di parenti e amici durante le degenze in RSA, le strutture
ospedaliere o le comunità terapeutiche. Tutto ciò in barba alla legge, la quale
non stabilisce che la persona chiamata a svolgere tale incarico debba essere un
professionista specifico, ma una persona (la cui prima scelta deve ricadere sui
familiari per ovvie ragioni a meno che ci siano situazioni di grave conflitto
con la persona beneficiaria che non consente tale scelta) che supporti la
persona beneficiaria tenendo conto dei suoi desideri, delle sue aspirazioni,
delle sue possibilità, in un rapporto di assoluta fiducia e condivisione
evitando azioni e decisioni che possano danneggiarla. Deve agire quindi con la
massima cura e rispetto prestando attenzione a non limitarne la libertà e la
capacità di compiere le sue scelte.
L’altro nodo critico è la questione della “indennizzo” di cui le persone
beneficiarie e le loro famiglie si lamentano. Questo indennizzo è mensile e si
aggira tra le 250/300 euro. Non è obbligatoria e infatti tanti amministratori
di sostegno di nostra conoscenza svolgono la loro funzione senza rivendicare
alcun indennizzo. Accade che amministratori di sostegno chiedano la quota di
indennizzo anche quando la persona percepisce unicamente la pensione di
invalidità civile e l’indennità di accompagnamento.
In una formula si tratta di amministratori senza sostegno.
Cosa sta facendo l’Unasam per arginare questi abusi?
La convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità e fragilità
sociali non permette che vi siano delle leggi, nei Paesi che hanno sottoscritto
la Convenzione, che sottraggono autodeterminazione alle persone. Per questo
parliamo anche di violazione dei diritti umani. Oltre a sostenere le persone e
le loro famiglie nella segnalazione di abusi ai Tribunali, le sosteniamo anche
per quanto riguarda l’istanza di sostituzione dell’amministratore di sostegno
inadempiente. Col nostro Comitato Scientifico (composto da giuristi,
psichiatri, psicologi, sociologi, persone esperte per esperienza), raccogliendo
le tante segnalazioni, abbiamo presentato ai Ministeri competenti e al
Consiglio Superiore della Magistratura dei documenti in cui evidenziamo le
criticità esistenti e proponiamo il loro superamento attraverso l’emanazione di
Linee Guida che aggiustino queste storture giuridiche ed etiche. Tuttavia, a
differenza di altre associazioni, non chiediamo l’abolizione dell’Istituto
dell’Amministrazione di Sostengo ma la regolamentazione della figura e la
modifica di alcuni passaggi anche nel testo di legge se necessario per
migliorarne l’applicazione, coinvolgendo principalmente i familiari.
Naturalmente laddove la persona beneficiaria sia d’accordo e non abbia leso o
possa ledere gli interessi e la sua libertà.
LA PREVENZIONE
Un’altra importante criticità è la questione prevenzione in salute «La
salvaguardia della salute mentale si attua intervenendo sui determinanti
sociali, politici, economici, ambientali, che producono benessere (casa,
lavoro, istruzione, contesti di vita, relazioni sociali). La prevenzione
però ha a che fare con i primi imprinting anche non verbali che si ricevono in
famiglia e con l’educazione emotiva precoce, anche neonatale. Questo non può
essere oggetto di controllo sociale pubblico. Il sostegno sociale però può
indirettamente intervenire per metterla in condizione di limitare e almeno non
aggravare le sofferenze e le dinamiche del nucleo familiare?
La violenza non nasce nel momento episodico, ma ha radici nella vita della
persona fin dalla più tenera età, dunque è chiaro che si deve lavorare su
questo. Altrimenti sarà inutile fare proclami contro la violenza domestica, e
anche contro l’ingiustizia e la guerra. Servono luoghi di opportunità e
comunità dove si possa chiedere aiuto ed esprimere la propria personalità. Come
dice lei, è evidente che non possiamo e non dobbiamo controllare i
comportamenti intimi delle famiglie, ma è sul piano sociale e nel tessuto
collettivo che dobbiamo scegliere cosa fare per a arginare la sofferenza
psichiatrica.
SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO DI SOSTEGNO PSICHICO
Abbiamo dimenticato ciò che ci ha insegnato Basaglia e siamo tornati più
indietro che mai in merito ai metodi di cura e sostegno e in merito al profilo
etico della psichiatria. Pensa che il problema sia anche politico e che ci sia
l’intenzione di dirottare la cittadinanza verso il settore privato?
Sì, credo ci sia l’intenzione di dirottare la cittadinanza verso il privato
mentre viene smantellata la sanità pubblica; il denaro pubblico deve essere
speso per scuole e finanziare aiuti sociali, servizi di studio e
intrattenimento per adolescenti, oratori per i bambini in periferia, invece di
guadagnare sulle armi e far fare profitti alle case farmaceutiche. Più che
centri diurni spesso squallidi servono centri sociali aperti, facoltativi e non
prescrittivi, di integrazione e non di ghettizzazione, dove persone con disagio
psichico e non, possano incontrarsi. Piccole comunità sul territorio,
all’interno dei paesi e delle città, frequentate da massimo otto persone, in
cui le persone si mettono in gioco ricostruendosi e ricongiungendosi con la
società. Questo può dare luogo, ad un passaggio successivo, alla vita autonoma
o a case in condivisione, supportate se e quando serve. Ovviamente tutto questo
deve essere valutato in base alle condizioni della persona, al suo percorso di
ripresa individuale, al livello di autonomia raggiunto, alla possibilità di
lavorare o meno, e ad altri fattori materiali ed emotivi della vita della
persona.
COSA DICE LA LEGGE
Ricordiamo che la Legge 180 è la prima e
unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi, stabilendo
che di norma i trattamenti ospedalieri devono essere volontari e regolamentando
il trattamento sanitario obbligatorio come estrema ratio. Affidando ai servizi
di salute mentale territoriali diffusi sul territorio nazionale la prevenzione,
la cura e la riabilitazione delle persone con disturbo mentale senza imposizione
alcuna. Ciò ha fatto dell'Italia il primo paese al mondo (finora l'unico)
ad abolire gli ospedali psichiatrici e gli ospedali psichiatrici giudiziari.
I rappresentanti delle istituzioni devono prendere una posizione chiara,
non ambigua e non ideologica in merito. Esiste la legge 180 e questa va
totalmente applicata. Mentre invece abbiamo due modi di agire e pensare la
“malattia mentale”: da una parte la posizione basagliana, che considera la
persona umana sofferente, il suo contesto di vita e la sua storia prima della
patologia e lavora per costruire una relazione di fiducia e comprendere
dove nasce la sofferenza, in un rapporto dialogico e di reciprocità; dall’altro
la visione biologista che presta attenzione ai sintomi attraverso i quali
stabilire la diagnosi e la cura appropriata, generalmente con i farmaci, anche
in misura massiccia, generalmente per tutta la vita considerandola una assoluta
necessità
Basaglia insegnava a mettere la malattia tra parentesi, a sospendere il
giudizio, senza ignorarla, e a fare un lavoro di analisi come si fa con tutti
noi, nevrotici “nella norma”. Non si può quindi affermare che la 180 abbia
fallito, quando la società e la psichiatria non è stata messa nelle condizioni
di applicarla.
IL RUOLO DEI MEDIA
A proposito dell’omicidio della dottoressa Barbara Capovani, lei ha
denunciato anche quella che sembra una sorta di complicità mediatica nel
criminalizzare la patologia dell’interiorità[1]: «Si punta sempre sul sensazionalismo, sul creare nell’opinione
pubblica un senso di opposizione e di ribellione, è questo il motivo per cui
vengono fuori i commenti agghiaccianti che sentiamo negli ultimi giorni, come
“Rinchiudeteli tutti” o “Riaprite i manicomi”[2]. Come per molte
questioni di interesse collettivo la politica e la stampa sembrano fomentare la
contrapposizione da stadio, la polarizzazione con tanto di tifo invece di
affrontare temi complessi come questo con l’onestà intellettuale e la lucidità
che imporrebbero.
La stampa tira fuori casi eclatanti e drammatici come questo senza
contestualizzarli, senza conoscere o comprendere i retroscena biografici,
sanitari, emotivi, della storia. Ho conosciuto personalmente Gianluca, nella
visione di questa persona esisteva un complotto planetario contro di lui e
l’umanità e come altri pazienti affetti da mania di persecuzione aveva fatto
decine e decine di denunce contro vicini, ignoti e altri. A questa persona è
stato impedito di avvicinarsi al centro di salute mentale di Pisa. Ma questo è
assurdo, dove e a chi altro avrebbe dovuto rivolgersi? Questa tragedia ci deve
far invece riflettere sulle falle del sistema sanitario psichiatrico italiano.
Sui numeri insufficienti di operatori e i modi di agire per contenere le crisi,
per prevenirle laddove possibile, infatti era stato anche legato durante un
TSO, cosa che aveva confermato, a suo modo di vedere, i deliri persecutori.
Molti lettori forse non sanno che l’elettroshock viene usato ancora in molti
servizi psichiatrici di diagnosi e cura e Cliniche private. E che la
contenzione fisica (legare la persona al letto, anche per giorni) è ancora una
pratica disumana utilizzata.
Tuttavia non si può neanche affermare che ogni omicida o chiunque
trasgredisca la legge non debba riparare la collettività con la detenzione -al
fine- naturalmente, di un reinserimento sociale. Non si deve
criminalizzare il disagio psichico né scambiare ogni reato con un problema di
salute mentale, ma distinguere le situazioni; è un compito multidisciplinare
complesso, ma per questo ci sono figure professionali specifiche. Penso che
occorra svolgere una analisi approfondita del profilo psicologico e psichico e
della vita della persona, col tempo che serve, e non in una o due sedute, per
comprendere appieno il significato di quel gesto, e restituire alla persona la
responsabilità di quel gesto. Non si tratta certo di giustificare, ma
comprendere che occorre cambiare la narrazione della semplificazione e della
demonizzazione.
[1] A proposito
di Gianluca Paul Seung, 35enne che uccise la dottoressa Barbara
Capovani, responsabile dell'unità funzionale Servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura di Pisa, colpendola alla testa con un corpo contundente: https://www.pisatoday.it/cronaca/perizia-psichiatrica-gianluca-paul-seung-omicidio-capovani-pisa.html.
[2] http://www.conferenzasalutementale.it/2023/05/03/applicate-la-legge-basaglia-altro-che-riaprire-i-manicomi-gisella-trincas-unasam-intervistata-da-vita/
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