È appena passato l’8 marzo e vorrei dedicare qualche riga a un’invenzione linguistica (ne parlo dopo), a un lavoro prettamente (e ingiustamente) femminile, a una proposta per uscire dalle secche di una scuola asfittica, presa tra delirio valutativo, istanze disciplinari, distopia tecnocratica e – attenti! – “educazione all’affettività”!
Pochi giorni fa un mio amico, un insegnante ancora giovane che, dopo aver
sperimentato le brume nordiche è riuscito ad ottenere il trasferimento nella
sua città natale in Sicilia, mi ha finalmente fatto ridere parlando di scuola.
Mi riferiva di fatti realmente accaduti e appena coloriti dalla sua narrazione
vivace. Insomma – dice – siamo a febbraio e parecchi dei miei piccoli
studenti di scuola media non hanno ancora i libri di testo. La riluttanza
verso l’acquisto dei libri di testo è ben conosciuta da tanti insegnanti;
maglioncino firmato sì, smartphone alla moda pure ma come
sprecare denaro per acquistare l’inutile libro di testo? In questa scelta, che
riguarda l’impiego delle risorse economiche della famiglia, hanno voce in
capitolo soprattutto i genitori. Supponendo però (bella ingenuità!) che la
madre di certa Hillary dodicenne fosse ignara della necessità che la figlia
possedesse l’atlante e il libro di geografia, l’amico insegnante, solerte,
telefona alla suddetta madre. Il nome “Hillary” è evidente stigma
dell’estrazione di classe; se ci trovassimo più su nella scala sociale
parleremmo della piccola Camilla o del piccolo Enea, nomi che si trovano adesso
in certi strati socio-culturali con una tal frequenza da far pensare a un
improvviso amore collettivo verso il grande poeta Virgilio. Ma questo importa
poco e andiamo avanti nel racconto.
Appena saputo che la chiamano dalla scuola la madre ha un soprassalto:
«Matri…. chi fu? (per quelli del Nord: «Mamma mia, che cosa è successo?»)». «Niente
signora, non si preoccupi. La chiamavo soltanto per chiederle come mai a metà
febbraio Hillary non ha ancora il libro di geografia etc.». Ma il bello
viene adesso: dopo aver ribadito che in famiglia di soldi ne hanno pochi, la
madre si rivolge all’insegnante per giustificarsi ed esordisce così: «Ma
professoresso…». Professoresso! Meglio di un trattato di
sociologia, meglio di quella cosa da salotto che è lo “schwa”! Ecco d’un
sol colpo superato il binarismo di genere con un brillante conio
linguistico, in cui la realtà delle cose imprime il suo marchio sul linguaggio,
in cui – evviva – il femminile domina il maschile, lasciando indelebile
impronta. Penso che persino qualche accademico della Crusca potrebbe apprezzare
il mirabile “professoresso”, così aderente allo stato delle cose. In
fondo, otto insegnanti su dieci alle scuole medie (secondaria di primo
grado, pardon – ecco qui la verbosità inutile. La scuola media
è sempre quella nata a cavallo del 1962-63, ma adesso l’appelliamo con quattro
parole al posto di una. Inutile spreco) sono donne. La mamma di
Hillary non conosce questa percentuale preoccupante. Ma di insegnanti maschi ne
vede pochi, anche lei è giovane e non ha fatto le scuole alte e allora
“professoresso” le viene più spontaneo che non “professore”.
A me questo guizzo linguistico è piaciuto molto e mi ha dato modo di
mettere a fuoco un altro importante aspetto: ma perché a scuola non si ride
quasi mai o, se si ride, si ride “per settori”? Gli studenti ridono tra di loro
(spesso dei loro insegnanti), gli insegnanti ridono degli errori dei loro
studenti e dei tic di dirigenti e colleghi ma mai che si rida
insieme – a meno che qualcuno non proponga un “esperto” di didattica della
risata (non ridete! Non sto inventando). Plumbea, tetragona, irrimediabilmente
seria la scuola genera noia. In questi nostri tempi infelici e regressivi
qualcuno (per esempio, un ministro) pensa di poter rimediare al crollo
verticale di autorevolezza dei docenti con il ritorno alla disciplina, quella
seria – che sarebbe come dire che la scuola può riportare le lancette
dell’orologio ai primi anni Cinquanta a forza di note, sospensioni e lavori
socialmente utili. Qualcun altro vuole invece adeguarsi ai tempi con un uso
intensivo dei media digitali, che sono una delle concause del disastro
scolastico generalizzato. C’è chi vuole coinvolgere le famiglie, c’è chi le
vuole tenere lontano dalla scuola. In comune, queste mezze soluzioni, hanno un
dato: l’anacronismo, l’essere lontane dalla comprensione almeno parziale del
nodo gordiano che oggi rende educazione ed istruzione ambiti così
problematici. Le radici dei molti problemi della scuola stanno nel
tessuto sociale, nelle troppe disuguaglianze, nel prevalere di un non-pensiero
tanto rapido quanto superficiale; e questo non è che l’inizio di un lungo
elenco. Ma, come primi passi verso una soluzione almeno parziale, un
po’ di senso dell’umorismo e qualche risata in più non guasterebbe. Purché
non si rida gli uni degli altri ma tutti quanti insieme verso le balzane e
miracolistiche “ricette” che dovrebbero salvare la scuola.
Il riso, come l’amicizia, è «la colla cordiale per cui l’uno s’attacca
all’altro»: spieghiamo questa frase ai nostri studenti, riveliamo
loro la fonte e poi passiamo, d’un balzo, da La notizia attorno a
Didimo Chierico (fonte della citazione) a quel
testo sarcastico e spiritoso che è Il Guerriero, l’Amazzone e lo
Spirito della Poesia nel verso immortale del Foscolo di Carlo Emilio
Gadda. Persino di Foscolo si potrà ridere – il che significa che
qualcuno dei nostri studenti avrà accesso agli altissimi versi de I
Sepolcri e non li troverà per niente noiosi. Se dovessi
dire qual è stata la più grave carenza della scuola italiana (intendo
parlare dell’istituzione e del personale) dell’ultimo quarto di secolo non
avrei dubbi: l’assenza di senso dell’umorismo, che ha generato una
scarsissima capacità di mandare collettivamente al diavolo, con una risata,
proposte didattiche strambe, inefficaci e regressive.
Nessun commento:
Posta un commento