giovedì 31 dicembre 2015

Non volevamo fare danni ambientali

Gli USA un anno fa hanno formato una coalizione per distruggere ISIS. Un mese fa  l’ex vice direttore della Cia Michael Morell ha dichiarato a  Charlie Rose sulla PBS che la ragione per cui gli Stati Uniti prima di novembre non hanno mai colpito le autocisterne e l’ infrastruttura petrolifera (vera linfa vitale per lo  Stato Islamico) è stato perché ”Non volevamo fare danni ambientali, e non volevamo distruggere tale infrastruttura“.
Solo dopo gli attacchi  terroristici nel mese di novembre in Francia sono cominciati anche gli attacchi della coalizione a guida USA. Questa nuova iniziativa e tuttora in corso ma non senza limiti e ambiguità  (come il lancio manifestini di avviso 45 minuti prima degli attacchi,  in alcuni casi il bombardamento anche delle forze siriane e irachene, rifornimento di armi ai ribelli jadisti).
In altre parole, la colpa delle recenti di attività terroristiche  è da ricercare nella posizione  di Obama di evitare di inquinare l’atmosfera con i residui tossici delle infrastrutture ISIS distrutte.
Morell ha anche detto che c’è un’altra ragione per cui le infrastrutture di estrazione e di raffinazione del petrolio non sono state distrutte: è per evitare che esse fossero definitivamente sottratte dall’utilizzo da parte del popolo siriano.
Onestamente, dopo un periodo di 5 anni di sedizione e annientamento messo in atto dagli USA e dai suoi alleati contro la Siria, sentire queste motivazioni fa letteralmente paura per la sorte del mondo: sembra governato da pazzi.
In realtà del funzionamento delle infrastrutture petrolifere ne ha beneficiato solo ISIS, la Turchia e occidente: non certo il governo siriano nelle cui mani non era previsto certo il ritorno…

Religiosi ultranazionalisti sionisti hanno preso il sopravvento in Israele - Gideon Levy

Possiamo già annunciare il vincitore. L'ultranazionalismo religioso che si nasconde dietro il nome logoro di "sionismo religioso", ha vinto,alla grande. Con la nomina del nuovo capo del Mossad e la nomina prevista del procuratore generale sono costituiti gli avamposti supplementari del potere decisionale . Ora l'intera leadership del sistema legale e parte della difesa sono nelle loro mani.
Con la vittoria arriva l' arroganza e l'ebbrezza del potere sempre più forte. Yoaz Hendel, uno di loro, anche senza una kippà dichiara : " La laica Tel Avivian è diventata irrilevante . Il sionismo religioso costituisce la nuova élite e non è più interessata a compromessi ". Hendel non mente Dobbiamo riconoscerlo. Il dibattito è ormai interno alla destra. In una trasmissione radio di questa settimana la discussione era tra un colono "moderato" di Bat Ayin e un colono "estremo" di Yitzhar. Il tema : la redenzione messianica dovrebbe essere portata avanti lentamente o velocemente Il "moderato" Motti Karpel è uno dei fondatori del movimento Hai Vekayam insieme al terrorista condannato Yehuda Etzion e di "Manhigut Yehudit" (Jewish Leadership) con Moshe Feiglin.
La conversazione è stata condotta con serietà. E' stato del tutto chiaro che i partecipanti rappresentano la corrente principale. Tutti gli altri pareri sono marginali e senza rilevanza .
Con il contributo trascurabile alla società, all' 'economia, alla cultura, alla scienza, alla letteratura e all' 'arte; con un denominatore comune basato principalmente sul messianesimo, su convenzioni religiose razziste e sull'odio per l'altro, in particolare diretto verso l'arabo;su un amore fittizio per la terra, sull' isolamento dal mondo e su una religione folcloristica, senza una visione pratica, con una guida spirituale che basa la sua forza sull' incitamento all'odio e alla approvazione del sangue; questo movimento con una arroganza intollerabile ha sfruttato il vuoto, l'apatia orribile che si è diffusa nella società laica,ed è arrivata al potere
Erano gli unici disposti a lottare per un obiettivo collettivo. Essi non hanno escluso qualsiasi mezzo. Hanno estorto e sfruttato le debolezze del governo, il senso di colpa e la confusione del campo laico, e hanno vinto. Lo hanno fatto in modo sistematico e intelligente: in primo luogo hanno stabilito il fondamento della loro esistenza, lo sviluppo degli insediamenti. Dopo che hanno raggiunto il loro obiettivo - l'uccisione di qualsiasi accordo diplomatico e la distruzione della soluzione dei due Stati - Ora sono pronti al controllo del dibattito pubblico in Israele per modificarne la struttura di potere,
Ora stanno iniziando a raccogliere i frutti della loro vittoria. Non c'è più nessuno che può fermarli. Coloro che sono andati in letargo presto si sveglieranno in un nuovo paese. Si possono cercare i colpevoli solo tra di loro.

Assassinato in Turchia il mediattivista Naji Jerf - Alessandro Di Rienzo

Un giornalista e filmaker viene ammazzato sulla strada dell’esilio. La notizia è dell’altro ieri e rimbalza su tutti i quotidiani occidentali. Si tratta Naji Jerf, 37enne che ha passato gran parte della sua vita a Damasco. Se avesse vissuto ancora avrebbe passato un altro pezzo della sua vita a Parigi, città che lo attendeva da esule con la moglie e le due piccole figlie. 
Ad ucciderlo una mano che tutti hanno imputato a Daesh. Un solo colpo alla testa nel pomeriggio di Gaziantep, città di un milione e mezzo di abitanti a 120 km da Aleppo. Poche ore prima, alle 13:48, Naji aveva postato sul proprio profilo facebook un saluto ad un amico più anziano, Marwan Abderrazak.
Quattro righe intrise di nostalgia a denunciare relazioni umane ridotte alla proscrizione, ai like e ai cuoricini per chi avrebbe preferito, godersele fino in fondo: Marwan: Che cosa è questo amore che mi hai piantato nel cuore? / Quale cuore sopporterà la nostra lontananza? / Abu Baher: Ti amo quanto le canzoni e l’alcol nel mio sangue.
Alle 18:57 la notizia della sua morte fa il giro del mondo, diramata dal profilo twitter del sito al quale collaborava: Raqqa is Being Slaughtered Silenty (RBSS), in italiano: Raqqa viene sterminata nel silenzio.

Un’esperienza necessaria di giornalismo. Un media rudimentale quanto indispensabile, nato dalla necessità di dire la propria nella quotidianità di una città che gli edificatori del califfato considerano capitale. La colonna di destra del sito sembra simile a quella di una qualsiasi pagina online di un qualsiasi gazzettino di provincia.
Vengono proposti video spesso girati dagli stessi mercenari di Daesh, ragazzi che con annoiata disinvoltura alternano nella mano la videocamera di uno smartphone Samsung ad un mitra Ak-47. Puoi vedere come una donna viene uccisa per un presunto adulterio nella pubblica via, un colpo perpendicolare sparato come fosse la climax a una breve predica.
Puoi vedere l’uccisione di un giovane ragazzo intento a supplicare aiuto al governatore della città, prima che un colpo di scimitarra gli faccia sobbalzare la testa lontano dal corpo. Piani sequenza senza regia, girati dai mercenari di Daesh per la propaganda interna, diffusi da RBSS all’opinione pubblica mondiale nel tentativo di preservare un solo medesimo concetto di umanesimo; per non cadere nella trappola mediatica di martiri a differente diritto di cittadinanza.
I video sono alternati a pezzi di analisi politica e geopolitica a loro volta alternati ad articoli di cronaca quotidiana: “Tutto sembra normale quando esci di casa, esattamente come prima […] ma dopo poco capisci che non potresti riconoscere nessuna donna, anche se è tua madre […] Da quando hanno come obbiettivo la liberazione della città la centrale elettrica è il posto più colpito, così da non avere più la corrente nemmeno all’ospedale nazionale, luogo che da cura a tutti i civili, e la calamità della morte diviene equiparabile alla calamità della mancanza di corrente”.

Gli autori di RBSS sono tutte donne e uomini rimasti sul posto, oppure esuli in terre da riparo. Alcuni sono giornalisti, filmaker, artisti, altri sono divenuti giornalisti loro malgrado assecondando un’urgenza narrativa. Per chi in Europa ha partecipato da noglobal al G8 di Genova 2001, RBSS ricorda straordinariamente l’esperienza di Indymedia.
Una produzione di senso collettiva e partecipata contro le interpretazioni forzate di tutte le propagande impegnate su quello spazio pubblico. Dieci giorni fa il quotidiano inglese The Independent pubblicava un lungo articolo di Kyle Orton sull’esperienza di RBSS: “Fin dall’inizio della rivolta siriana il regime di Bashar al-Assad e l’Isis sono stati uniti sul loro obiettivo strategico: eliminare l’opposizione moderata e fare della Siria una scelta binaria tra le loro opzioni”.
RBSS è quella voce moderata, è anche la nostra voce moderata. Naji Jerf è il terzo mediattivista del sito ammazzato nel 2015, prima di lui hanno perso la vita Fares Hamadi e Abd al Fares*.


*in realtà anche Ahmoud Mohamed al-Mousa

Facciamo economia - Alberto Masala

Facciamo economia
(bilancio consuntivo di fine anno in ricordo di Vittorio Arrigoni)

Se oggi la pietà non costa molto
e un venditore è abile a rivenderla cara
ci si può ricavare un buon guadagno.
Anche la commozione rende bene
se acquistata a buon prezzo.

La nostalgia, al contrario,
si deve accumulare con lunghi investimenti
a pochi soldi, certo,
ma la resa è più bassa.

Il rendimento della carità
ha un ritorno immediato.
È confortante, alto,
ma dura poco e non si reinveste.
Di solito il cliente
in seguito ricorda ogni carezza
e si emoziona.
Non serve a nulla
ma è pur sempre un ricordo… una memoria…

La compassione, intesa nel suo senso più alto,
è un buon risparmio
è stabile, sicuro, e senza rischio.
Però non verrà niente
perché il cambio è fissato uno a uno.

La speranza non rende.
Anzi… si perde.
Non è un investimento.
Spesso è un titolo tossico, una truffa,
o, come la bontà, una lotteria.
Ma se il colpo funziona…

Pena, indulgenza e misericordia
richiedono assai liquidità:
lacrime, commozione… Ma daranno profitto?
L’investitore normalmente è attratto
dal premio successivo, da godere nei cieli
in rivalutazione… Ma
chi vende questi bond
non fornisce mai dati di ritorno.

La civiltà è un fallimento certo.
Ne abbiamo dei riscontri in tutti i tempi.

S’investe inizialmente con un fondo
morale o di cultura.
Poi parte una campagna capillare
con la pubblicità e offerte di sistemi
sicuri e confortanti.
Persuadono il cliente
ad investire in privilegiate
azioni di Ragione e Verità.
Per non rischiare, con armi e le minacce
si crea l’indotto e si produce il bene.
Però la concorrenza è molto forte.

Infine
resta l’umanità.
Non è quotata
e ha bisogno di nuovi investimenti.
Si raccatta per strada.
E non si vende.


Ma oggi è l’umanità che rende.

da qui

mercoledì 30 dicembre 2015

La leva internazionale esaspera i palestinesi - Francesca Borri

Ma tu che sei esperta, mi chiede una svedese: quando l'esercito attacca, io come contrattacco? Ha settant'anni, la maglietta di Yoko Ono e un caschetto da ciclista. A una così, cosa puoi risponderle? Signora, non si preoccupi. Se l'esercito attacca, lei muore subito. E' arrivata a Bil'in, 12 chilometri da Ramallah, a bordo di un furgoncino dell'Alternative Tourism Group. Come ogni venerdì, all'una, dopo la preghiera, i palestinesi protestano in corteo contro il Muro, contro l'occupazione: e gli israeliani rispondono con lacrimogeni e proiettili di gomma. A volte proiettili veri. E' così dalla fine della Seconda Intifada. Ogni venerdì. Da quando Israele, per fermare gli attentati suicidi, ha iniziato a costruire il Muro, e i palestinesi, un po' per opporsi al Muro un po' per riorganizzarsi dopo il fallimento della resistenza armata, si sono convertiti alla non violenza. E nei primi anni ha funzionato - nei limiti in cui le cose funzionano, qui: il Muro, dichiarato illegale dal tribunale dell'Aja perché ingloba terra palestinese, e il suo obiettivo, più che garantire la sicurezza, è frantumare la West Bank, e complicare la vita, è stato appena spostato di tracciato. A tratti demolito. Ma adesso, le manifestazioni del venerdì non sono che un'attrazione turistica. Tra stranieri e giornalisti, siamo più dei palestinesi. 

Come un circo turistico
Bil'in, Ni'lin. Nabi Saleh sono nomi ormai famosi. Ogni venerdì, all'una, puntuale, una manciata di ragazzini tira pietre: gli israeliani rispondono, e i palestinesi arretrano, si disperdono, aspettano cinque, dieci minuti, poi ricominciano, di nuovo tirano pietre, e di nuovo i soldati rispondono, di nuovo i palestinesi arretrano - quando un proiettile di gomma colpisce qualcuno, un'ambulanza si precipita a sirene spiegate a medicare il graffio. Contribuire al dramma. Il resto del villaggio, intanto, dalle retrovie, suona spazientito il clacson. E' venerdì, l'equivalente della nostra domenica, vogliono passare: stanno tutti andando in gita fuori. Per la nuova guida di Ramallah, d'altra parte, il Muro è tra le cose da non perdere. "Deprimente", dice la didascalia, "ma affascinante". 
Sono settimane di Intifada, tra israeliani e palestinesi. Un morto al giorno. Ma i veri protagonisti sono invisibili alla cronaca: sono gli internazionali. Gli scontri, infatti, gli accoltellamenti restano casi isolati. Non si ha una rivolta generale - Hamas e Fatah, al solito, sono ai ferri corti, impegnate a trovare un successore all'80enne Mahmoud Abbas: e nessuno è disposto ad avventurarsi in un'Intifada senza leadership né strategia. E una delle ragioni per cui la società civile è così debole, e fino a pochi anni fa invece era il contrario, i palestinesi erano l'avanguardia degli attivisti arabi, è che sono arrivate le nostre Ong a rafforzarla. 

Furono una svolta 
"I primi internazionali sono stati una svolta. Erano quasi tutti specialisti di diritti umani, e hanno tradotto in termini giuridici l'occupazione, impostando il ricorso all'Onu, al tribunale dell'Aja. Le convenzioni di Ginevra sono diventate la nostra nuova arma. Una delle più efficaci", dice Jamal Juma, il coordinatore delle iniziative contro il Muro. "Ma poi sono arrivate Ong di altro tipo: quelle di aiuto allo sviluppo. E un po' alla volta, si sono trasformate in una forma di welfare", dice. Oggi le Ong, qui, sono centinaia. Nessuno sa più neppure il numero preciso. "E la maggioranza si dedica a progetti inutili, il cui solo obiettivo è offrire uno stipendio ai palestinesi. E tenerli buoni". Anche perché i direttori di progetto sono stranieri: i palestinesi sono chiamati semplicemente ad attuare progetti pensati altrove. Il risultato è stato lo sfibramento della società civile. E soprattutto, il passaggio dalla politica alla tecnica. Quando l'esercito confisca una strada, si ha subito una Ong pronta a costruirne una alternativa. "Ma l'obiettivo", dice Jamal Juma, "dovrebbe essere combattere l'occupazione, non aiutarci a conviverci". 
Il dibattito, in questi giorni, è tutto sul traffico di Qalandia, il checkpoint che separa Ramallah da Gerusalemme. E in cui si rimane imbottigliati per ore. Ed è un dibattito sulla viabilità: sui sensi di marcia, le carreggiate. Gli svincoli. "Ma il problema è che Qalandia è lo snodo da cui è costretto a passare chiunque. Ovunque sia diretto. Il problema non è che mancano i semafori. Il problema è che di mezzo, tra noi, c'è un Muro". Ma soprattutto, c'è poi un altro tipo di internazionali, verso cui l'insofferenza è ancora più forte: né attivisti né professionisti, ma semplici avventurieri. Ventenni che vengono qui per uno, due mesi, e scroccano la vacanza ospiti di un'associazione in cambio di una mano nella raccolta delle olive, di un paio di lezioni di inglese ai bambini. E sono cani sciolti che finiscono per radicalizzare il conflitto. "Agiscono di testa propria. Si scontrano con l'esercito a ogni occasione. Perché tanto poi partono, tornano a casa. Non vivono le conseguenze delle loro azioni", dice Murad Shtaiwi, un altro degli attivisti storici della West Bank. "E comunque", dice amaro, "poi nelle battaglie vere non si vedono mai". 

Ragazzini. E dannosi 
Come quella di Kafr Qaddoum, il suo villaggio. Oltre metà della terra è stata ormai confiscata per fare spazio a un insediamento israeliano. Erano famiglie di agricoltori: ora lavorano tutti in città. Tutti a Nablus. Ma la strada è stata chiusa. E quindi a Kafr Qaddoum, in questi mesi, si ha l'unica vera manifestazione del venerdì: perché diversamente dalle altre, l'obiettivo, qui, è specifico: è la riapertura della strada. Arrivi, attraverso sentieri sterrati e scoscesi, e trovi i bambini tutti pronti con la maschera antigas. Sono gli israeliani a iniziare, qui. I palestinesi, all'una, bruciano vecchi copertoni per proteggersi dietro una barriera di fumo nero. Ma all'improvviso, semplicemente, un ragazzo è centrato da un proiettile. E in pochi minuti, l'esercito invade tutto. Per ore è battaglia metro a metro, con le donne dai tetti, dietro le finestre, che indicano a chi è giù in strada in che direzione tirare pietre. Tutti partecipano, tutti aiutano come possono: tranne gli internazionali. "Qui che si rischia davvero, non viene nessuno", dice Murad Shtaiwi. Per la verità, qualcuno viene. Un australiano che sta addobbando da guerrigliero un bambino per scattargli una foto, con kefiah, fionda, maschera antigas, si scaglia contro degli attivisti israeliani che gli dicono di lasciarlo in pace a guardare i cartoni animati. Se davvero siete dalla parte dei palestinesi, urla l'australiano, restituite la terra e tornatevene in Europa. Un ragazzo si precipita a separarli. Ma a te che importa?, gli dice. Devo viverci insieme io, mica tu. Ed è così anche a Hebron, l'epicentro di questa Intifada. I palestinesi accusano l'esercito di reagire con un eccesso di forza: di sparare ad accoltellatori che potrebbe invece disarmare, per provocare ulteriore violenza, e procedere così a ulteriori confische, ulteriori demolizioni, ulteriori arresti in un momento in cui i palestinesi sono politicamente divisi, economicamente stremati - e il mondo è tutto concentrato sull'Isis. 
"Per gli israeliani Hebron ha un valore speciale, perché è la sede delle Tombe dei Patriarchi. Se le altre città della West Bank possono diventare un giorno parte di Israele come oggi Haifa, città della minoranza araba, Hebron, come Gerusalemme, deve essere ebraica", dice Issa Amro, il più noto degli attivisti. "Avremmo bisogno di più internazionali. L'abbiamo visto mille volte: in presenza di stranieri, l'esercito è costretto a rispettare un minimo di regole. Ma stanno tutti a Ramallah. Dicono che Hebron è pericolosa. Invece di venire qui, aprono nuovi uffici a Nablus, a Betlemme. A Jenin. E non capiscono che questa è esattamente la strategia di Israele: la normalizzazione. Aiutarci a vivere bene sotto occupazione". "E qui se non lavori in una Ong", dice, "lavori nell'Autorità Palestinese o in Israele. In entrambi i casi, hai bisogno di una sorta di certificato rilasciato dall'intelligence, con cui si attesta che non sei un soggetto pericoloso. E cioè che non sei impegnato politicamente". 

Guide d'occupazione 
"Così", dice, "non avremo mai un'Intifada". Un'alternativa, in realtà, esiste: lavorare come guida turistica dell'occupazione. Nella città vecchia di Hebron, infatti, ormai deserta, i militari a ogni angolo, possono entrare solo i residenti e gli stranieri. Cammini, tra gli sputi e le sassate dei coloni, e decine di palestinesi alla fame, laurea e inglese impeccabile, si offrono di organizzarti un giro ai checkpoint, agli insediamenti, piuttosto che all'ultima fabbrica di kefiah ancora in funzione. Sono tutte prodotte in Cina.

Pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 21-12-2015


martedì 29 dicembre 2015

Esercizi di immaginazione

1) Immaginate che un bel giorno i Carabinieri siano diventati una società per azioni e che in un secondo momento lo Stato abbia dismesso più del 90% delle azioni, che vengono acquisite da alcuni soci, chiamati partecipanti.
I Carabinieri hanno vari compiti, tra cui quello della Vigilanza su persone fisiche e giuridiche che hanno sede in Italia, tra cui i soci.
Pare che, a volte, alcune indagini su soggetti che sono partecipanti non vadano avanti, e che la Vigilanza in generale non riesca a ottenere dei risultati in fase ex-ante, quando i danni si possono evitare, ma solo ex-post, quando i danni sono avvenuti e sono già di dominio pubblico, i danneggiati non avranno giustizia e i colpevoli non verranno perseguiti.
Una sentenza ha deciso che i Carabinieri sono un servizio pubblico, anche se le assunzioni avvengono per chiamata diretta o attraverso commissioni concorsuali gestite dai soci. A qualcuno sorge il dubbio che il carattere pubblico dei Carabinieri stia nel fatto che gli stipendi dei dipendenti e tutte le altre spese gravano sul bilancio pubblico.

2) Immaginate che un bel giorno la Banca d’Italia sia diventata una società per azioni e che in un secondo momento lo Stato abbia dismesso più del 90% delle azioni, che vengono acquisite da alcuni soci, chiamati partecipanti.
La Banca d’Italia ha vari compiti, tra cui quello della Vigilanza su persone fisiche e giuridiche che hanno sede in Italia, tra cui i soci.
Pare che, a volte, alcune indagini su soggetti che sono partecipanti non vadano avanti, e che la Vigilanza in generale non riesca a ottenere dei risultati in fase ex-ante, quando i danni si possono evitare, ma solo ex-post, quando i danni sono avvenuti e sono già di dominio pubblico, i danneggiati non avranno giustizia e i colpevoli non verranno perseguiti.
Una sentenza ha deciso che la Banca d’Italia è un servizio pubblico. A qualcuno sorge il dubbio che il carattere pubblico della Banca d’Italia stia nel fatto che gli stipendi dei dipendenti e tutte le altre spese gravano sul bilancio pubblico, mentre gli utili vanno ai soci partecipanti.

Uno dei due esercizi di immaginazione è già realtà, leggi qui e qui (dove si potrà leggere che “tra i sottoscrittori della BCE, tre stati, Svezia, Danimarca ed Inghilterra, che non hanno adottato come moneta l’euro, ma che, in virtù delle loro quote, più del 20% del totale, possono influire sulla politica monetaria dei paesi dell’euro”, ma questo è un altro discorso, o forse no)

Qualcuno pensa che l’Arma dei Carabinieri, scusate, la Banca d’Italia si possa rinazionalizzare in modo semplice, chiedendo ai partecipanti al capitale sociale se preferiscono cedere gratuitamente le loro quote al Tesoro, farebbero una bella figura se scegliessero quest’opzione, oppure se preferiscono che le loro quote siano espropriate (per un interesse pubblico superiore), o ricomprate dal Tesoro, attraverso l’imposizione di una tassa sulle transazioni finanziarie a carico delle banche.

Chissà se una piccola proposta come questa è nell’agenda politica di qualche gruppo politico.

African Psycho - Alain Mabanckou

dopo Zitto e muori leggo il mio secondo libro di Alain Mabanckou.
sono la storia e le avventure di un piccolo uomo che ha un'ispirazione, vuole diventare un serial killer temuto e rispettato, come il suo mito Angoualima.
potrebbe essere un personaggio delle comiche , uno che le prova tutte, con il fallimento è dietro l'angolo.
Gregoire vorrebbe uccidere Germaine, che alla fine passa a miglior vita.
come dappertutto, anche nel quartiere di Chi-beve-l'acqua-è-un-idiota cosa non si fa per un quarto d'ora di celebrità.
non lasciatevi sfuggire Alain Mabanckou, conoscete Gregoire,non ve ne pentirete, promesso - franz




Ironia graffiante e una girandola di personaggi grotteschi fanno da sfondo alle avventure dell'aspirante serial killer Grégoire.
Alain Mabanckou racconta la storia di Gregorie, carrozziere onesto e gran lavoratore, che decide un giorno di diventare un serial killer. Ispirandosi al pluriomicida Angoualima, cerca invano di compiere assassinii e stupri, ma è troppo maldestro per portarli a termine. Il suo maestro “virtuale” Angoualima, dalla sua tomba nel cimitero dei Morti-cui-non-spetta-il-sonno, controlla il sottobosco criminale della città e si dispera del suo nuovo cadetto, perché troppo inetto per compiere certe brutalità. I suoi tentativi finiscono tutti con clamorosi fiaschi dai contorni grotteschi. Anche il suo piano diabolico per uccidere Germaine, una prostituta, si scontra con l’inaspettata reazione della donna al maldestro Gregoire.
Con un umorismo grottesco Alain Mabanckou crea un personaggio assolutamente geniale, bizzarro e curioso, animato da un insopprimibile desiderio di infrangere i confini di una vita anonima e fatta di stenti e privazioni, che si trascina nella cittadina di Chi-beve-l’acqua-è-un-idiota, popolata di criminali di ogni risma.

Grégoire, un jeune mécanicien congolais vit dans les bidonvilles de Brazzaville, dan le quartier «Celui qui boit de l'eau est un idiot».
Comme tant d'autres, il est pauvre et noit ses soucis dans l'alcool....
Ses soucis? Le mot mérite d'être souligné car ceux de Grégoire ne sont pas tout à fait ceux du commun des mortels: manger, boire, mettre de l'argent de côté, avoir sa propre maison, fonder une famille.
Chez Grégoire, les 4 premieres activités vont vers un tout autre but: devenir le digne héritier du héros de son adolescence et de son âge adulte, voire même de son enfance, le grand Angoualima.
Abandonné dans la rue et pris en charge par l'asistance publique, il est confié de famille en famille, d'une maltraitance à une autre..
Cette adversité, le jeune mécanicien en a fait sa force, de même que son admiration pour Angoualima, avec qui il partage un passé d'enfant ramassé.
De petits larcins en agressions ratées, d'apprenti à As de la mécanique auto, le garçon à la tête carré, qui se qualifie lui même de laid, est devenu un homme qui peut ne compter que sur lui -même … et sur le grand Angoualima, leitmotiv et fil conducteur de sa vie et de cette histoire.
Grégroire découvre les exploits d'Angoualima par presses et médias interposés dans son adolescence. Très vite, il est fasciné par le personnage, un tueur en série qui sème la terreur dansBrazzaville et règne sur le quartier de «Celui qui boit de l'Eau est un Idiot ».Angoualima est la terreur des commissaires, des journalistes et journaleux; gare au mot de travers sur lui, on pourrait retrouver la tête de l'auteur sur une plage.
Autant dire qu'il anime la rue congolaise entre horreur et fascination; Même les criminels de «Celui qui boit de l'Eau est un Idiot» arrettent leurs activités de peur qu'on n'accuse Angoualima et que celui ne se venge sur eux de la méprise (j'exagère à peine le texte).

Mais voilà, Angoualima finit par disparaître, suicidé. Grégoire désespéré décide de perpétuer en forme d'hommage l'oeuvre du maitre.
Le roman suit ses préparatifs aussi bien mentales que matérielles du jeune homme vers sa quête, celle de la victime parfaite pour rendre hommage à Angoualima et au quartier qui fut son domaine «Celui qui boit de l'Eau est un Idiot». Tuer une prostituée, symbole vivant de la corruption de la ville, lui apparaît comme le meilleur choix. Cette victime,il finit par la trouver un soir de beuverie, en la personne d'une pute d'un soir: Germaine.
Il s'ingéniera donc dès lors à la prendre dans son filet amoureux et à la ramener chez lui pour pouvoir mieux mettre à exécution son génial projet expliqué sur un chapitre entier du roman : «Tuer Germaine».
Y réussira-t-il et trouvera-t-ilgrâce aux yeux de son maitre ? Il faut attendre les dernières lignes du roman pour le savoir... Je vous laisse lire.

sabato 26 dicembre 2015

“Io jihadista, vi racconto la mia  guerra santa contro gli infedeli” – intervista di Domenico Quirico

Abu Rahman è un jihadista, un professionista della guerra santa. Sono gli uomini che nella violenza stanno scardinando un mondo, e che noi non conosciamo, riempiono i giornali le televisioni la Rete, e non li conosciamo. Ci prepariamo a combatterli, forse, e non li conosciamo. Abu Rahman mi ha portato la notizia della morte di un combattente che ho incontrato, Adel Ben Mabrouk, guardia del corpo di Bin Laden, otto anni a Guantanamo, ucciso accanto a lui in Siria. Non lo sentivo da due anni. La morte è un destino che non perdona questi uomini. Abu Rahman si nasconde, rischia la prigione nel Paese dove è tornato. Ha un solo amore, il suo dio inflessibile sottratto ad ogni dubbio, che gli offre trasparenza e semplicità, molti odi, gli sciiti prima di tutto, gli eretici e poi gli americani. Vive in una memoria ossessiva dove predomina una guerra di tutto contro tutti, e il tradimento. È il ritratto più vero della Siria di oggi che io abbia mai ascoltato: Bashar, i russi, l’America, il califfato, gli altri gruppi islamisti, nessuno è alleato con qualcuno, tutti sono nemici oggi o domani. 
Ecco il racconto della sua vita.  

«Sai, la sura dice: “recita, nel nome del tuo Signore, che ha creato, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue”. Un grumo di sangue: hai capito? E allora perché avrei dovuto provar paura quando sono partito per la Siria? Bisogna andare ad aiutare i fratelli musulmani, la religione del vero, che patiscono di fronte a quei cani di sciiti infedeli... E poi avevo già combattuto in Iraq contro gli americani, le armi le so maneggiare. Dicono che noi guerrieri di dio siamo degli affamati, gente che cerca denaro e belle case… Beh, io sono commerciante, ho soldi, quando non tornerò più dalla guerra santa la mia famiglia, mia moglie e due figli piccoli, avrà di che vivere. Rimarrà di me un buon figlio che invocherà la misericordia per suo padre. Di che altro c’è bisogno?  

Andarci... Non è difficile andare, ho preso l’aereo, Istanbul, poi Antalya, eravamo in tre o quattro, tunisini come me. Tutto è pronto sulla via che porta a Dio. C’era già il passeur, per entrare in Siria. Ma i poliziotti turchi ci hanno fermato. Dodici ore poi ci hanno lasciato andare, con tante scuse e sorrisi. Vedi? È Dio... All’inizio ero con un reggimento del gruppo Al Mouhajiroun, gli immigrati, turchi e arabi. Ci hanno dato le armi, ci hanno portato a combattere nella città di Selma, sulle montagne sopra Latakia. È un punto strategico quello, i soldati di Bashar non mollavano, stavano a duecento metri, non di più, da noi, ci si ammazzava guardandosi negli occhi. È un posto dove sunniti e alawiti vivevano insieme. Vivevano… Già. adesso non ci sono più alawiti, conoscevamo ad una ad una le case: qui un sunnita, qui un cane.. Qualcuno è scappato, gli altri…  

IL RICORDO DEL PRIMO UOMO UCCISO  
Che cosa provo ad uccidere? Vuoi sapere se ricordo chi ho ucciso per primo? In Iraq ho ammazzato il mio primo uomo, al tempo degli americani. Ho detto: grazie Dio, ti ringrazio perché hai guidato la mia mano. Continuo a ripeterlo. 
Dopo quattro mesi in Siria sono passato alle “katibe” di jabhat Al Nusra, gli uomini di Al Qaeda. Perchè? Che domanda stupida! Quelli sono veri combattenti, i loro emiri sono grandi uomini, ecco perché! Guerrieri puri, i migliori, e dotti nell’Islam. In Siria è pieno di gruppi di banditi, gente che dice di essere musulmano e in realtà cerca denaro e traffici. Non ci sono pensieri impuri in quelli di Al Nusra.  

DA MANGIARE SOLO ERBA  
La jihad: è dura la jihad! Non c’era nulla da mangiare, spesso per giorni, eravamo assediati lì, abbiamo mangiato l’erba come le bestie e i frutti verdi degli alberi. Uno di noi era un contadino, ha piantato un piccolo orto. Per bere raccoglievamo l’acqua piovana. Fa freddo su quelle montagne, le montagne dei curdi dannati, freddo da morire e non avevamo vestiti pesanti. C’era una televisione in tutto il villaggio e quando non cadevano bombe si andava a vedere Al Jazeera. E i mortai… Come erano grandi i mortai dei soldati: bestie da 120 millimetri, sparavano tutto il giorno, ci facevano vedere la morte e noi non avevamo nulla da opporgli, una mitragliera da 23 millimetri che si inceppava sempre! E poi gli elicotteri e gli aerei che sganciavano i bidoni pieni di esplosivo…  

IL TRADIMENTO CHE UCCIDE  
Ma questo è niente, resistevamo. Quello che è terribile è il tradimento. I nostri emiri si riunivano in una casa, dopo pochi minuti arrivava una bomba precisa precisa! Si usciva di notte per una operazione, i soldati erano già lì che ci aspettavano! Tra noi c’erano spie, gente che i servizi di sicurezza, i Mukhabarat, del regime avevano lasciato prima di ritirarsi o infiltrato come falsi combattenti. 
La zona di al Karrata... Lì sapevi che non potevi uscire vivo. Bombe bombe bombe. Quanti dei miei compagni sono morti! Nel loro cuore portavano una moschea splendente di Dio. Ali il Magrebino… lo amavano tutti, una granata gli ha portato via una gamba, così, di netto, mentre sparava stando in piedi, dritto, e il dolore gli ha spento il grido Allah akbar sulle labbra. È morto dissanguato, non avevamo garze, bende, nulla per tamponare la ferita. Usavamo erbe e rimedi tradizionali perché non c’erano medicine.  

E lì che è morto Adel Ben Mabrouk, il sopravvissuto di Guantanamo, accanto a me, a Durin, un villaggio che ci è costato tanti, troppi martiri, un posto maledetto, un pugno di case. Per niente, adesso l’hanno ripreso i soldati. Adel, lui che aveva baciato la mano allo sceicco Osama sulle montagne afgane, che aveva resistito otto anni a Guantanamo alle torture degli americani, lo ha preso un cecchino, in testa, in prima linea. Aveva appena annunciato che stava per sposarsi con una donna siriana, come molti di noi... Era felice.  

Seppellivamo i morti di notte a Durin, per sfuggire alle bombe, non potevamo nemmeno recitare la “fatiha’’ sulle tombe, sì la puoi recitare ovunque, lo so, ma sulle tombe assume un significato particolare… Abbiamo chiesto aiuto a quelli del gruppo di Ahrar el Cham, tutti siriani quelli, e hanno armi moderne, non vecchi kalashnikov. Ci hanno risposto no, ci hanno lasciato crepare, noi che siamo loro fratelli. Grazie a Dio ci siamo salvati.… Io so bene cosa è il tradimento… Quando sono andato in Iraq per battermi contro gli americani c’era ancora Saddam che comandava, volevano mettermi in una brigata che si chiamava «i martiri di Saddam». Noi sunniti siamo stati spediti a sud, a Karbala; gli americani avanzavano non c’era acqua né cibo, per Saddam dovevamo controllare gli sciti di cui non si fidava… quando tutto è crollato, in piccoli gruppi otto, dieci siamo scappati a Baghdad, ci hanno messi in un albergo, l’hotel Cedir, non si fidavano, tutto attorno crollava, ma attraverso le zone sunnite, Ramadi, Samara, Mosul, siamo riusciti ad arrivare in Siria. Chi vuole restare è libero, hanno detto i siriani e invece ci hanno spedito in Tunisia dove ci hanno arrestati. Mi ha liberato la rivoluzione contro Ben Ali.  

LA JIHAD PRIMA DEI FIGLI  
La jihad, la jihad sai per me è un dovere, non c’è scelta: la terra musulmana è in mano ai senza Dio, agli sciiti infami, la jihad viene prima dei figli del mangiare della casa del paese, devi combatterli con la parola i soldi le armi le leggi. Morire vivere... Parole, ci sono mujaheddin che combattono da 30 anni e sono ancora vivi altri che sono morti dopo un’ora… Decide Dio. Quello che voi occidentali non potete capire: avete perso la voglia di combattere per la fede, la religione per voi funziona come per me il commercio, ma quello che è importante per me, per noi, è essere puri nel momento in cui ci si separa da questo mondo, avere una fine felice. Tu saresti capace di avere una fine felice, rispondi? Io non sono sempre stato così pronto a Dio, ogni tanto la mia fede mi lascia, ma poi torna. E allora mi sento vivo e non più schiavo dell’occidente. Si combatte si uccide si muore. Voi occidentali siete più forti: per il denaro, i mezzi, le armi che avete. Ma proprio per questo avete paura di morire e volete vivere a tutti i costi. Noi no. Vedi la saggezza di Dio? Attraverso la debolezza lui ci rende più forti di voi.  

Nel giorno della resurrezione l’Onnipotente mi chiamerà a se: “Abu, hai assolto i tuoi doveri?”. “Mio dio, mi sono impegnato - gli risponderò - ho accettato di morire per te: tu sarai clemente allora...”. 
  
Perché sono venuto via, perché non sono rimasto là a morire come Adel e gli altri? Perché è arrivato Isis. Ed è entrato l’odio tra noi. I loro capi non sono veri musulmani come noi, sono ex funzionari del Baath iracheno, ex ufficiali dell’esercito di Saddam. Non vogliono concorrenti, è impossibile cambiare idea, lasciarli: ti uccidono. Vicino ad Aleppo noi di Al Nusra abbiamo ceduto loro ventun villaggi che controllavamo: loro li hanno lasciati a Bashar. I loro emiri non sanno nulla del Corano, sono ignoranti e anche i combattenti sono giovani ignoranti affascinati dalla loro propaganda. Abbiamo litigato con loro, poi abbiamo anche combattuto. Ecco perché sono venuto via dalla Siria, non posso stare in un posto, morire, dove i sunniti, la gente di Dio, combatte non contro gli sciiti e gli americani ma tra di loro. Non so se tornerò, forse da un’altra parte. Voglio combattere perché nasca un governo islamico in Siria e dopo andremo a liberare la Palestina dai giudei. Nascono nuovi gruppi, si uniranno a noi, Jaich al Fatah, per esempio, si battono bene, c’è speranza, ma occorre essere uniti. I russi dici? Bombardano? Che importa. Noi combattiamo per una fede, loro no, perderanno».  

venerdì 25 dicembre 2015

D'isco deo - La notte dei lunghi coltelli




D'ISCO DEO 

Zuro, no mi mancat nudda, a bois s'ateru. 
Non tenzo bisonzu de ischire cale sunt sas caras chi apo a biere in carrela cras, ant essere ateras, no tenzo bisonzu de iscusas po mi che annare. 

Timinne una bidda cun duas carrelas parides Unu muntone de tzilifricches, fuinne, 
su tempus pro portare sa bella cara d'azis tentu, ziranne in ogna logu cun sa bella cara bostra, s'aria bostra est cussa.

Azis aboghinadu, nanne ca custas carrelas sunt tumbas pro sa bostra passione, pro su bostru biere.
tzarranne in carrelas, in su bar, tzarranne in campusantu 
Ma d'isco deo commente bistaiat Ivan Ilic!

tzarranne in su bar, tzarranne in campusantu
Ma d'isco deo commente bistaiat Ivan Ilic! 

Caras faltzas, caras faltzas chi m'inghiriant!
Mancu s'onestade chi m'ispetada! Mancu s'onestade chi m'ispetada!

E commo puite non drommo prus? Primma su zigarru de su sero duraiat dies! 
Che da fino gasi? Cun in bratzos istrachidura de pitzinnia, ma chena paghe, chena paghe
E bois Inue sezis? bogadenne corzones! Balentes e galanos non depides pranghere! 
Peraulas, caras biancas e atitidos, ma prantu non bi nde at in sas feminas! 

E como intenno su pesu de sa presentzia mia, 
Puite mi che depo annare, e mi depo movere, 
Inue du at dolu t'inscresches fatzilmente 
E Che ruet totu su valore gualanzadu in una vida.
su valore gualanzadu in una vida.

Ultima mamma, beni a mi azuare, cun rampos de ulia o cun su cabidale, 
Chi s'umbra tua siat recoveru, sa matessi de sa mia.

giovedì 24 dicembre 2015

Regole di ingaggio – William Langewiesche

Una storia che sembra una replica in sedicesimo del massacro di My Lai (qui, dove il grande futuro statista Colin Powell, all'epoca giovane Maggiore dell'Esercito, fu incaricato delle investigazioni sul massacro. Powell scrisse: "A diretta refutazione di quanto ritratto, c'è il fatto che le relazioni tra soldati americani e popolazione vietnamita sono eccellenti". In seguito, la confutazione di Powell sarebbe stata chiamata un atto di "white-washing" (candeggiatura) delle notizie del massacro, e la questione avrebbe continuato a restare nascosta, senza la testardaggine di Seymour Hersh).
Dei soldati esasperati dalla guerriglia che colpisce e sparisce fa una strage di civili, ad Al-Haditha, in Iraq, nel novembre del 2005.
William Langewiesche aveva scritto la storia su Vanity  Fair, qui, un anno dopo i fatti.
E’ una storia di guerra, non si tratta di soldati pazzi, magari anche sì, ma è la guerra in sé che rende possibili queste stragi, che una volta scoperte portano alla condanna, una volta scoperte, se e quando.
Merita la lettura, sicuro – franz

qui una discussione interessante (o forse no), su Langewiesche, Saviano e cose varie.


Adelphi pubblica in volume un reportage che negli Usa ha fatto epoca: originariamente pubblicato sulle pagine del periodico Vanity Fair, il lungo e avvincente articolo dell'inviato William Langewiesche racconta uno degli episodi più infami dell'Operation Iraqi Freedom (a proposito, sapevate che originariamente l'invasione militare dell'Iraq del 2003 era stata battezzata dal Pentagono Operation Iraqi Liberation ma che il nome in codice è stato modificato in fretta e furia quando ci si è accorti che l'acronimo OIL, "petrolio", avrebbe causato - come minimo - l'ilarità generale?). Oltre a ripercorrere nei minimi dettagli col piglio delle grandi inchieste giornalistiche d'altri tempi i tragici eventi di quel maledetto 19 novembre 2005, il libricino (80 pagine da leggere tutte in una volta) analizza gli errori e le contraddizioni dell'approccio tattico-militare delle truppe Usa alla guerra irachena alla luce di questo e di altri fatti di sangue accaduti negli anni di occupazione. Il dibattito politico statunitense sulla questione-Iraq viene esposto, sbattuto sul tavolo autoptico con le sue lacerazioni in bella vista: "La destra sostiene che ogni accusa contro i militari è un attentato al patriottismo. La sinistra usa i soldati come simboli e pretesti nella sua lotta contro la guerra", accusa Langewiesche in una recente intervista. "Ora, se le due parti si sedessero un attimo a tavolino si renderebbero conto che le loro posizioni andrebbero cambiate, spostate di 180°. Se la destra vuole supportare Bush e la sua politica militare dovrebbe rifuggire da questo emozionalismo e dall'approccio troppo passivo e comprendere che un processo giusto e severo ai soldati che commettono crimini del genere potrebbe solo andare a favore degli Usa, senza mettere in discussione le scelte di politica estera. Alla sinistra che vuole quei soldati impiccati in pubblico sarebbe utile capire che forse non si tratta di criminali che vengono coperti da manovre occulte, ma che ciò che va messo al centro della discussione è lo svolgimento 'normale' della guerra". Postilla: il 18 settembre 2007 quattro dei marines coinvolti sono stati rinviati a giudizio con pesanti accuse: soprattutto il sergente Wuterich - l'unico che ha adottato una strategia di difesa processuale basata sull'assunto "Così deve agire un marine" - rischia l'ergastolo o addirittura la pena di morte per crimini di guerra.

Il libro di oggi è un gran bel libro, di William Langewiesche tra storie e reportage. Le regole di ingaggio sono quelle dei marines in Iraq, una storia vera, raccontata con una visione critica ma non sbracata, documentata e seria, narrativamente piuttosto coinvolgente, giornalisticamente prezioso… Una lettura veloce ma densissima e tragica, che può servire a comprendere le regole (o la mancanza di regole) della guerra ma che potrebbe essere anche un manualetto su  come si fa un reportage leggibile da tutti. La vicenda? Al-Haditha, Iraq, 25 novembre 2005. Per ritorsione contro un attentato subìto, una compagnia di marines, protetta da regole ambigue, massacra due famiglie di civili inermi. Imperdibile, le storie sono anche informazione.

Langewiesche penetra, in Regole d’ingaggio, nella sequenza di eventi che porta una compagnia di marines in Iraq a sterminare, il 19 novembre 2005 ad Al-Haditha, due famiglie di inermi civili. E di nuovo, a dispetto della distanza apparente tra il narratore e il narrato, siamo trascinati nel villaggio iraqeno, sentiamo il crepitare delle armi, le voci disperate dei familiari delle vittime. Siamo dentro la sconfitta della democrazia. Langewiesche è un descrittore di fenomeni: ma sa che ogni descrizione deve, per poter diventare oggetto reale, essere interpretata come sistema di segni e compresa come simbolo. Nel disporre i fenomeni davanti ai nostri occhi crea le condizioni perché il lettore svolga questo compito: ci trascina dentro la macchina pigra, e ci mette all’opera, proprio come faceva Michael Herr nel suo Vietnam, colto nel punto in cui gli oggetti reali si frantumano in schegge e ridiventano percetti, fenomeni la cui riconnessione è lasciata a noi (una lezione che Saviano ha metabolizzato negli anni in cui la sua scrittura da cronaca si faceva intelligenza dei fatti all’interno dei fatti stessi).,,
da qui

mercoledì 23 dicembre 2015

ricordo di Matteo Salvatore

UN PO' DI CHIAREZZA :  Alessio Lega

(Chi era Matteo Salvatore)
Se l’Italia avesse un minimo di dignità e d’onore l’alta Puglia non sarebbe il luogo del culto di Padre Pio ma di Matteo Salvatore. 
Matteo Salvatore è stato un miracolo vivente degli ultimi cinquant’anni, un grande poeta popolare, un cantante sopraffino di ineguagliabile musicalità, un ottimo chitarrista con una tecnica autodidatta ma di audace raffinatezza. 
Le origini della sua arte affondavano nella leggenda: le biografie lo vogliono, pressoché bambino, ad accompagnare un violinista cieco, tale Pizzicoli, portatore di serenate a pagamento. Sembra esserci una sorta di reincarnazione del mito d’Omero alla base della cultura profonda di questo aedo del ’900. 
La miseria nera che fa compagnia alla quasi totalità degli abitanti del paesino d’Apricena (in provincia di Foggia, dove Matteo era nato nel 1925) è il basso continuo che accompagna tutte le sue opere, il motivo che lo spinge ben presto, come tanti suoi conterranei, a spostarsi a nord. Roma (ma anche Milano, Torino…tutta la via crucis del poer crist emigrante) lo troverà a esercitare il nobile mestiere del posteggio nelle trattorie, dove attira l’attenzione di alcuni intellettuali. 
Sono gli anni che preludono la riscoperta del patrimonio popolare (quello che avrà la sua eclatante rivelazione nello spettacolo Bella Ciao del Nuovo Canzoniere, presentato al Festival dei due mondi di Spoleto nel ’64). Sono anni in cui Ernesto De Martino, Diego Carpitella e Alan Lomax battono la penisola nel timore (fondatissimo) che presto la televisione di lascia o raddoppia fagociti la cultura contadina. Gli spiriti più sensibili se ne sono già accorti. 
Matteo canta nelle trattorie romane le canzoni di Napoli, perché son quelle conosciute che fanno tintinnare la mancia, ma Giuseppe De Santis, Calvino gli dicono “Matteo, tu sei pugliese. Perché non canti le canzoni della tua terra?”. 
“Non ne conosco” dice Matteo. “Cercale!” gli ribattono. 
E allora, armato di registratore Matteo va ad Apricena a cercare tali melodie e, non trovandole, si mette a scriverne lui stesso. Torna e comincia a cantare queste canzoni spacciandole per repertorio anonimo.
MATTEO SALVATORE
Comporre cantando 
Bisogna riflettere a quest’ambiguità di cui lui si servì, ma a cui molti vollero credere: Matteo inizia a scrivere canzoni popolari su commissione, egli di suo è voce, canto; il termine “scrivere” sarebbe già del tutto improprio nel suo caso visto che compone cantando. La percezione che si avrà per anni di Matteo come portatore, cioè memoria vivente ed esecutore di materiale popolare, è una falsificazione. Troviamo il suo repertorio inserito nelle grandi collezioni di Folk anni ’70 (dai Dischi del sole in poi), ma Matteo è un poeta, un musicista, popolare certo, ma raffinatissimo sia nei versi che nelle melodie. 
Se le prime canzoni che registrerà conterranno stucchevoli ritornelli di becera comicità, ben presto avviene in lui una sorta di purificazione: Matteo Salvatore diventa il medium del dolore secolare di un popolo, la sua opera assume carattere di grande affresco. Non vi è riflessione, le canzoni non “parlano di”, nemmeno, per intenderci, attraverso l’umanissimo filtro dell’immedesimazione deandreiana; sono proprio i personaggi che, senza presentarsi, si esprimono per voce di Matteo, di modo che l’esperienza della miseria faccia da sfondo a un discorso che ha le parole della vita di tutti i giorni. Nella canzone Lu furastiero non viene raccontata in modo esplicito la tragedia degli stagionali: uomini che vagavano a piedi per i paesi del Gargano e del Tavoliere, prestandosi alla massacrante raccolta dei pomodori, riposando poche ore a terra sull’aia, guardati in cagnesco dai lavoratori del posto, i cui salari da fame venivano ulteriormente ribassati per l’enorme offerta di braccia; nella canzone tutto ciò è un non detto. Nient’altro che l’impressionistica descrizione di un notturno in cui il forestiero, stremato, dorme:
Lu furastiero dorme stanotte sull’aia 
Dorme sull’aia alla frescura 
E pe cuperta la raccanella 
E pe cuscino la sacchettola
La dolcezza struggente della melodia, la nettezza diamantina dei versi fa di questo, come di quasi tutti i canti di Matteo Salvatore, una specie di Lied dialettale, un concentrato inestimabile di concisione e follia. 
Le parole di queste canzoni non potevano, come abbiamo detto, essere scritte perchè Matteo non sapeva scrivere (se non con estrema difficoltà e già in età avanzata), dunque son canzoni che nascono senza mediazione letteraria, dal e per il canto. Questo, si sa, è un tratto della musica popolare o più in generale della cultura orale, ma la caratteristica specifica di Matteo sta nella misura, nel raccoglimento, nel controllo; l’arte tutta di Matteo Salvatore poggia su un carattere di forte astrazione, cosa tanto più rara nella tradizione meridionale o mediterranea. Le sue canzoni, da questo punto di vista, potrebbero essere accostate a certi canti del De André degli ultimi dischi (quello di da me riva, o di ho visto nina volare) e, un po’ più logicamente, le sue melodie accostate a certe melodie belliniane o para-belliniane (certamente Matteo conosceva Fenesta ca lucive).

UN GRANDE LIRICO
Matteo Salvatore possedeva e usava una vocalità particolarissima, in grado di passaggi vorticosi dai toni gravi al falsetto attraverso reminiscenze, si direbbe, arabe. Ne Lu pecurere (Lu pecurere pe li murge vaje / a pasculà le pecore) la voce si avvita in un melisma che fa pensare alla leggendaria nota blu. È sinceramente impressionante e distante anni luce dal vigore un po’ greve dei pur grandissimi cantori popolari del sud (Rosa Balistreri, Cicciu Busacca). Per dirlo in una parola Matteo Salvatore non è un cantastorie, egli è un grande lirico. 
Ecco, non vorrei fosse un’ennesima forzatura, ma a me piace pensare Matteo Salvatore come un bluesman leggendario, un Blind Lemmon Jefferson pugliese. Anche biograficamente: la maggior parte dei bluesman erano personaggi violenti e incontrollabili; la carriera di Matteo fu precocemente spezzata dagli anni passati in carcere in seguito all’assassinio della sua compagna Adriana Doriani nel 1973. 
Il silenzio che negli ultimi anni si fa intorno a questa vicenda è rivelatore di un atteggiamento moralistico e falsificante tipico dell’Italia, dove si tiene il parente strambo chiuso in cantina, anche se il parente è Van Gogh (o Ligabue), dove c’è sempre stata una particolare difficoltà nel confronto fra arte popolare e intellighenzia, dove si può accettare un cantore popolare come una curiosità antropologica, sociologica, dove si considera sempre la sua opera una sorta di materia grezza a cui attingere, ma dove si fa fatica ad ammettere che l’arte conosce strade che a volte passano lontanissime non solo dalle accademie, ma anche semplicemente dalle scuole elementari o dalle nostre vite “rispettabili”. 
L’America in questo senso è stato un porto più franco in cui nessuno si stupisce del rapporto strettissimo fra le figure leggendarie del Blues (Leadbelly, Robert Johnson) e i cantautori moderni (Dylan, Springsteen). 
Il 27 agosto di questo 2005 Matteo Salvatore è morto. 
Per quanto acciaccato ha voluto cantare fino all’ultimo: il 29 luglio scorso, a Loano, Enrico Deregibus e John Vignola gli avevano conferito un premio nell’ambito del festival della musica popolare, quella è stata la sua ultima esibizione. Prima di questa il Club Tenco, Otello Profazio, Eugenio Bennato, Daniele Sepe, Teresa De Sio, Vinicio Capossela e qualche altro avevano fatto il possibile per alleviare a questo maestro la durezza di una vecchiaia povera. 
È però mancata un’attenzione delle istituzioni culturali (l’unico documentario sulla sua vita è di produzione francese), mancano pubblicazioni serie su di lui, a parte un recente racconto/autobiografia della benemerita Stampa Alternativa, curata dall’ancor più benemerito Angelo Cavallo (che lo ha accudito come un fratello fino all’ultimo respiro); manca tuttora (vergogna!) una ristampa in CD della gran parte dei suoi dischi. 
Noi restiamo con il rimpianto di non aver parlato abbastanza e correttamente di questo meraviglioso artista. 
Io resto con il piccolo personale rimpianto di non aver fatto prima l’articolo su di lui, e sì che me l’ero ripromesso (e in parte l’avevo già scritto) dall’alba di questa rubrica. Invece, come nella peggiore tradizione, che vuole veder celebrati i grandi artisti in occasione o a partire dalla loro scomparsa, eccomi a versare le lacrime tipografiche del coccodrillo medio. 
Ma aldilà di ogni considerazione di carattere sociale, morale o personale, l’occasione è buona per cominciare a fare un po’ di chiarezza sul suo lascito. Matteo è stato un grandissimo poeta, portatore e rielaboratore di una cultura altra, che, nonostante i tentativi di sotterramento della nostra società globalizzata, giunge ancora a scuoterci dalla notte di Orfeo.

Daniele Sepe ricorda Matteo Salvatore: 




Matteo Salvatore in un film-documentario di Anne Alixe:





l'ultimo concerto di Matteo Salvatore:

martedì 22 dicembre 2015

Erdogan, cosa vuole (e perché non lo avrà) - Giulietto Chiesa

L’obiettivo primario di Erdogan è stato, ed è, quello di abbattereBashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di compiacere i neo-conamericani (che sono alleati di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia Saudita e Qatar. Da non dimenticare il“presidential order” con cui Obama, in fotocopia con l’analogo “order che costituiva la dichiarazione di morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una minaccia per gli interessi americani nell’area.
Erdogan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli interessi strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq.
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Quale avrebbe potuto essere il regime che veniva dopo Assad non gli importava molto. In primo luogo perché, con ogni probabilità, la caduta di Assad avrebbe coinciso con il crollo dello Stato siriano, con il massacro degli alauiti-sciiti, e lo smembramento del suo territorio. Cosa che sarebbe stata oltremodo gradita anche a Israele e all’Arabia Saudita. Insomma una ripetizione (ma in grande) della demolizione della Libia. A quel punto ci sarebbe stato solo il problema di tenere a bada gli agenti occidentali di Al Nusra/Al Qaeda. E di competere con Israele nella conquista dei territori rimasti. In primo luogo nel dare un colpo cruciale a Hezbollah e nel prendere il Libano sotto controllo.
Erdogan non è uno sciocco. Sapeva che, nei suoi calcoli, sarebbe entrato anche un altro problema. Quello dei curdi. Il suo secondo obiettivo, parallelo al primo, era quello di impedire la creazione di uno stato curdo. La distruzione dello Stato siriano, avrebbe aperto infatti, come non mai prima d’ora, una tale prospettiva. Per cui, quando — a luglio di quest’anno — decise di entrare apertamente in guerra in Siria con la sua aviazione, spiegò a Obama che lo faceva per combattere lo Stato Islamico. In realtà la mossa gli servì per andare a bombardare i kurdi turchi del Pkk (che avevano rispettato la tregua con il governo curdo negli ultimi quattro anni) e per annichilire i kurdi di Siria (quelli che puntano alla creazione dello Stato curdo, una prima parte, in attesa delle altre) su un pezzo del territorio siriano a ridosso della Turchia.
Ma questo stato kurdo di Siria già esiste in embrione. Si chiama Royava ed è stato costruito, pezzo per pezzo, anche con l’aiuto americano, lungo il confine turco. Washington ha contribuito all’operazione perché serviva a smantellare lo stato siriano, un pezzo per volta. I kurdi siriani, del resto, erano e sono l’unica forza sul campo che agiva simultaneamente contro Assad e contro lo Stato Islamico. E, su questo unico punto, gli interessi di Ankara e quelli di Washington non coincidevano.
Poi la Russia è arrivata a guastare il brodo. Putin si è mosso in modo molto pragmatico. Non soltanto per preservare il regime di Damasco, ma per difendere i propri interessi strategici (dare a tutto il Medio Oriente il segnale che la Russia è di nuovo interamente in campo) e anche quelli nazionali (colpire e sradicare sul nascere l’estremismo islamico di origine russa o dei territori ex sovietici).
La Russia ha messo in atto una strategia a largo raggio, i cui effetti sarebbero stati tutti negativi per i piani turchi. Obiettivo: impedire il crollo dello Stato siriano e portare Assad al tavolo negoziale per una soluzione futura dopo un cessate il fuoco. Liquidare definitivamente lo Stato Islamico, senza mettere un solo piede russo a terra in Siria. A quel punto i curdi siriani sarebbero un ottimo interlocutore per una pace duratura. In cambio verrebbe data loro quella parte del territorio siriano che si sono guadagnata. Certo, questa parte del ragionamento russo non piacerà ad Assad, ma questi avrà avuto salva la vita e il potere, e potrà accontentarsi.
Erdogan, da quasi vincitore, si trova ora nella posizione di chi ha quasi perduto tutto (salvo i soldi del petrolio trafugato) . E nessuno dei suoi alleati ha potuto impedire che avvenisse. Ha pensato che poteva rilanciare, come in una partita a poker, abbattendo il Sukhoi russo e trascinando la Nato ad uno scontro con la Russia. Il fatto è che Putin non sta giocando a poker, ma a scacchi. E “punire” la Russia non è faccenda tanto semplice. Adesso dovrà pagare un prezzo economico molto alto (perché Putin ha di fatto chiuso le frontiere al turismo russo e ai lavoratori turchi e ai capitali turchi in Russia). E un prezzo politico non meno alto. Perfino molti alleati della Nato hanno capito di avere a che fare con un tipo poco affidabile. Erdogan sarà piaciuto a Varsavia e a Tallinn, Riga e Vilnius, ma certamente non è piaciuto a Parigi e a Berlino.