Incredibile ! Impossibile ! Assurdo !
L’insinuazione che un nostro fedele alleato traffichi petrolio col DAESH ha
scatenato qualche giorno fa cori di incredulità e stupore.
Come si può, infatti, anche solo
concepire che la Turchia, un membro della NATO sia in combutta con il sedicente
Stato Islamico? Quella stessa Turchia il cui premier Davutoglu (primo a destra
nella foto) ha sfilato a Parigi per Charlie Hebdo? Un pilastro della Grande
Coalizione contro il terrorismo, che si appresta ad annientare gli accoliti di
Al-Baghdadi restituendoci serenità e vendetta !
C’è di che indignarsi di fronte alle
calunnie rivolte a questo grande paese amico, che si è impegnato a proteggere
le nostre frontiere dalla disperazione dei profughi in fuga, evitando alle
potenze europee di toccare con mano gli effetti collaterali della
destabilizzazione che loro stesse fomentano. Un grande paese a cui l’U.E.,
riconoscente, ha riaperto dopo lunga attesa il percorso di adesione. A patto
che i rifugiati se li tenga a casa sua, ma anche in considerazione dei suoi
altissimi standard democratici a cui la stessa Unione Europea aspira a
uniformarsi (dall’uso dell’esercito contro i propri popoli, all’arresto dei
giornalisti, all’esecuzione sommaria degli oppositori, ecc.).
Che dire dunque delle maldicenze che da
tempo ledono la reputazione della patria di Erdogan, accusandola di
‘intelligenza col nemico’? Facciamone una breve rassegna cronologica.
Partiamo dal 24 marzo 2013, quando il New York Times indicava
nell’aeroporto di Esenboga, vicino ad Ankara, l’hub di riferimento per il ponte
aereo di 160 cargo militari organizzato da Giordania, Arabia Saudita e Qatar a
sostegno dei ribelli anti Assad. Al governo turco l’onere della supervisione
del programma e del trasferimento su gomma delle attrezzature militari (3.500
tonnellate, secondo la stima del Stockholm International Peace Research
Institute) fino alla frontiera siriana. Il quotidiano newyorkese riportava come
l’operazione si fosse avvalsa di consulenze della C.I.A. per l’acquisto delle
forniture belliche dalla Croazia e per la scelta dei gruppi ribelli a cui
destinarle.
Scelta evidentemente poco oculata. Circa
un anno dopo Luca Susic scriveva su Analisi Difesa:
“Le armi croate acquistate l’anno scorso dall’Arabia Saudita per armare i
ribelli siriani che combattono il regime di Bashar Assad sono finite
“misteriosamente” nelle mani dei jihadisti dello Stato Islamico di Iraq e
Levante (ISIS) che le impiega nell’offensiva che ha portato in pochi giorni
alla conquista di quasi tutto il Nord Iraq e per l’attacco a Baghdad. Come
riportano alcuni media di
Croazia e Serbia, infatti, nella rete web è possibile
trovare foto di combattenti dell’ISIS armati di lanciagranate RBG-6, i
lanciarazzi anti-carro M79 Osa e il cannone senza rinculo M60, tutte forniture
croate a suo tempo fornite ai ribelli siriani”.
Ma ai tempi del ponte aereo chiunque
combattesse Assad veniva classificato fra i ‘combattenti per la libertà’, e
nessuno avrebbe potuto immaginare che alcuni di loro avrebbero cominciato a
tagliare le teste ….. degli occidentali.
Il fatto che tagliassero le teste degli
altri non sembrava fregare un gran che. Già nel marzo del 2012 Der Spiegel suggeriva
come i ribelli di Homs non fossero particolarmente ligi ai dettami della
Convenzione di Ginevra, e come la loro ‘Brigata sepoltura’ lavorasse a pieno
ritmo per la decapitazione di militari dell’esercito regolare siriano e di
traditori, veri o presunti, della rivoluzione. The Human Right
Investigation documentava con foto e video come nelle
esecuzioni di Homs venisse coinvolto, come boia, anche un bambino.
Intanto a Damasco ad Aleppo si
susseguivano le esplosioni delle autobombe di al-Nusra, braccio siriano di
al-Qāida. A dicembre il Daily Mail riportava
di gente decapitata e data in pasto ai cani, di 300.000 cristiani in fuga, di
rapimenti a scopo di estorsione ed uccisioni di ostaggi ad opera del Free
Syrian Army. A detta di Amnesty
International: “I cadaveri trovati ogni giorno nelle città e nei
villaggi siriani con i segni di esecuzioni e torture sono la sinistra evidenza
dell’aumento dei crimini di guerra e degli altri abusi commessi non solo dalle
forze governative, ma anche da gruppi di opposizione armati”.
Tutto questo non impediva al senatore
repubblicano John McCain di incontrare amichevolmente comandanti del Free
Syrian Army a Gaziantep, in Turchia, e ad Azaz (poco oltre il confine) e di
garantirgli il proprio interessamento per la fornitura di armi pesanti1. E visto che un ex candidato alla Casa Bianca si
scomodava di persona per venirli a benedire, perché mai la Turchia avrebbe
dovuto ostacolarne le attività?
Ci provò, in verità, la polizia della
provincia turca di Adana, quando procedette all’arresto di 12
membri del Fronte al-Nusra, beccati con due chilogrammi di sarin.
Due mesi prima, il 19 marzo 2013, il sarin era stato usato sulla cittadina
siriana diKhan Al-Assal,
e in seguito sarebbe stato usato nuovamente il 21 agosto a Ghouta.
Stragi che vennero subito attribuite ad Assad, rischiando di provocare un’altra
‘guerra umanitaria’ contro Damasco. L’intervento USA, secondo il premio
Pulitzer Seymour M. Hersh,
fu fermato all’ultimo momento dall’intelligence britannica, che aveva
verificato come il sarin usato sulle città siriane non fosse dello stesso tipo
di quello detenuto negli arsenali dell’esercito regolare2.
Intervistato da
Hersh, un ex funzionario dell’intelligence USA diede questa
ricostruzione dei fatti: “si è trattato di un’azione ideata da quelli di
Erdogan per spingere Obama ad intervenire. L’idea era di inscenare qualcosa di
spettacolare, un attacco con il gas a Damasco o dintorni quando gli ispettori
dell’Onu erano in Siria. I nostri vertici militari sono stati informati dalla
Dia e altre agenzie di intelligence che il sarin è arrivato attraverso la
Turchia — il che è possibile solo con il sostegno turco. I turchi hanno anche
fornito l’addestramento su come produrre e maneggiare il sarin”.
Comunque sia andata, i 12 jihadisti di
Adana, accusati di aver tentato l’acquisto di attrezzature e precursori chimici
per la produzione del gas, furono liberati dopo brevi detenzioni, fatto
singolare in un paese che non brilla per garantismo.
Il 18 gennaio 2014, sempre ad Adana,
vennero fermati tre Tir carichi di armi,munizioni
e razzi nascosti sotto aiuti umanitari. Durante gli interrogatori l’autista Murat Kislakci disse
che i mezzi erano stati caricati all’aeroporto di Esenboga, e, come molte altre
volte, li stavano portando a Reyhanli, alla frontiera siriana, dove agenti del
MIT (Milli Istihbarat Teskilati, i servizi turchi) li avrebbero presi in
custodia per la consegna ai gruppi ribelli. Per intervento diretto del
governatore di Adana le indagini vennero bloccate, diversi membri ed ufficiali
delle forze di polizia vennero posti in stato di accusa ed espulsi dal corpo, i
camion furono restituiti al personale del MIT. Oltre duemila camion carichi di
armi avrebbero percorso quella rotta. Per aver pubblicato questa notizia sul
quotidiano Cumhuriyet, sono stati
recentemente arrestati il direttore del giornale Can Dundar e
il caporedattore Erdem Gul, con l’accusa di spionaggio politico e militare,
divulgazione di informazioni coperte da segreto di stato e propaganda a favore
di organizzazioni terroristiche.
Ma questa è storia di oggi. Torniamo al
2014 e spostiamoci a sud est di Adana, nella provincia di Hatay, attraversata
da un fitto via vai di foreign fighters provenienti dal Golfo, dall’Europa e
dal Nord Africa. Un traffico notevole che doveva essere tutt’altro che ignoto
alle autorità di Ankara, visto che andava in onda anche sulla CNN. Né
tantomeno ne veniva ostacolato, a giudicare da una direttiva del
Ministro dell’Interno al governatore di Hatay: “In base ai nostri interessi
regionali, aiuteremo i militanti di al–Nusra contro il PYD, estensione
dell’organizzazione terroristica PKK… I mujaheddin di al-Nusra andranno
ospitati nelle strutture sociali delle istituzioni pubbliche … il trasferimento
e il supporto logistico a gruppi islamisti, l’addestramento, la cura dei feriti
e il passaggio dei mujaheddin sarà effettuata prevalentemente da qui.”
La direttiva suscitò la reazione degli
avvocati del Cumhuriyet Halk Partisi(CHP,
i nazionalisti turchi), che dimostrarono, foto alla mano come già ad aprile
l’ospedale pubblico di Hatay stesse assicurando l’assistenza sanitaria ai
feriti di al-Nusra e Daesh provenienti dal fronte siriano. Il CHP
denunciava l’ospitalità fornita agli jihadisti nelle strutture del Direttorato
per gli Affari Religiosi di Hatay sotto la supervisione dei servizi turchi. Si
chiedeva, inoltre, come fosse possibile che i seguaci di Al-Baghdadi tenessero raduni di massa
a Istanbul senza che nessuno l’impedisse.
Nell’agosto del 2014, con la
decapitazione di James Foley (primo fra gli ostaggi occidentali), anche dalle
nostre parti cominciò a serpeggiare il dubbio che forse con ‘i combattenti per
la libertà’ qualcosa non stesse andando per il verso giusto. Gli USA per
rappresaglia cominciarono i bombardamenti su Raqqa, la roccaforte del Daesh,
provocando feriti fra i miliziani che venivano subito ricuciti dall’ospedale
di Saliurfa, la città turca più vicina. Secondo il quotidiano
turco Taraf a Saliurfa venne curato
Ahmet El H’nin, braccio destro di Al Baghdadi, assieme ad altri 8
militanti, il tutto a spese del governo turco...
"Il nemico marcia in testa a te
RispondiEliminama anche alle tue spalle.
Il nemico marcia con i piedi
nelle tue stesse scarpe.
Quindi anche se le tracce non le vedi
è sempre dalla tua parte"
https://www.youtube.com/watch?v=r7Z3hKb50WM
EliminaChe nebbia, che confusione, che vento di tempesta.