L’obiettivo primario di Erdogan è stato, ed è, quello
di abbattereBashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane,
il suo islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque
anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di compiacere i neo-conamericani
(che sono alleati di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo
principale alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate).
Lo spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele,
Arabia Saudita e Qatar. Da non dimenticare il“presidential order” con
cui Obama, in fotocopia con l’analogo “order che costituiva la dichiarazione di
morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una
minaccia per gli interessi americani nell’area.
Erdogan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli interessi
strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto
di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è
l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del
petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq.
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Quale avrebbe potuto essere il regime che veniva dopo Assad non gli
importava molto. In primo luogo perché, con ogni probabilità, la caduta di Assad
avrebbe coinciso con il crollo dello Stato siriano, con il massacro
degli alauiti-sciiti, e lo smembramento del suo territorio. Cosa che sarebbe
stata oltremodo gradita anche a Israele e all’Arabia Saudita. Insomma una
ripetizione (ma in grande) della demolizione della Libia. A quel punto
ci sarebbe stato solo il problema di tenere a bada gli agenti occidentali di Al
Nusra/Al Qaeda. E di competere con Israele nella conquista dei
territori rimasti. In primo luogo nel dare un colpo cruciale a Hezbollah e nel
prendere il Libano sotto controllo.
Erdogan non è uno sciocco. Sapeva che, nei suoi calcoli, sarebbe entrato
anche un altro problema. Quello dei curdi. Il suo secondo obiettivo, parallelo
al primo, era quello di impedire la creazione di uno stato curdo. La
distruzione dello Stato siriano, avrebbe aperto infatti, come non mai prima
d’ora, una tale prospettiva. Per cui, quando — a luglio di quest’anno — decise
di entrare apertamente in guerra in Siria con la sua aviazione, spiegò a Obama
che lo faceva per combattere lo Stato Islamico. In realtà la mossa gli servì
per andare a bombardare i kurdi turchi del Pkk (che avevano
rispettato la tregua con il governo curdo negli ultimi quattro anni) e per
annichilire i kurdi di Siria (quelli che puntano alla creazione dello Stato
curdo, una prima parte, in attesa delle altre) su un pezzo del territorio
siriano a ridosso della Turchia.
Ma questo stato kurdo di Siria già esiste in embrione. Si chiama Royava ed
è stato costruito, pezzo per pezzo, anche con l’aiuto americano, lungo il
confine turco. Washington ha contribuito all’operazione perché serviva a
smantellare lo stato siriano, un pezzo per volta. I kurdi siriani, del resto,
erano e sono l’unica forza sul campo che agiva simultaneamente
contro Assad e contro lo Stato Islamico. E, su questo unico punto, gli
interessi di Ankara e quelli di Washington non coincidevano.
Poi la Russia è arrivata a guastare il brodo. Putin si è mosso in
modo molto pragmatico. Non soltanto per preservare il regime di Damasco, ma per
difendere i propri interessi strategici (dare a tutto il Medio Oriente il
segnale che la Russia è di nuovo interamente in campo) e anche quelli nazionali
(colpire e sradicare sul nascere l’estremismo islamico di origine russa o dei
territori ex sovietici).
La Russia ha messo in atto una strategia a largo raggio, i
cui effetti sarebbero stati tutti negativi per i piani turchi. Obiettivo:
impedire il crollo dello Stato siriano e portare Assad al tavolo negoziale per
una soluzione futura dopo un cessate il fuoco. Liquidare definitivamente lo
Stato Islamico, senza mettere un solo piede russo a terra in Siria. A
quel punto i curdi siriani sarebbero un ottimo interlocutore per una pace
duratura. In cambio verrebbe data loro quella parte del territorio siriano che
si sono guadagnata. Certo, questa parte del ragionamento russo non piacerà ad
Assad, ma questi avrà avuto salva la vita e il potere, e potrà accontentarsi.
Erdogan, da quasi vincitore, si trova ora nella posizione di chi ha quasi
perduto tutto (salvo i soldi del petrolio trafugato) . E nessuno dei suoi
alleati ha potuto impedire che avvenisse. Ha pensato che poteva rilanciare,
come in una partita a poker, abbattendo il Sukhoi russo e
trascinando la Nato ad uno scontro con la Russia. Il fatto è che Putin non sta
giocando a poker, ma a scacchi. E “punire” la Russia non è faccenda tanto
semplice. Adesso dovrà pagare un prezzo economico molto alto
(perché Putin ha di fatto chiuso le frontiere al turismo russo e ai lavoratori
turchi e ai capitali turchi in Russia). E un prezzo politico non meno alto.
Perfino molti alleati della Nato hanno capito di avere a che fare con un tipo
poco affidabile. Erdogan sarà piaciuto a Varsavia e a Tallinn, Riga e Vilnius,
ma certamente non è piaciuto a Parigi e a Berlino.
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