lunedì 29 febbraio 2016

Le arti, le scienze, i popoli originari e i bassifondi del mondo


ESERCITO ZAPATISTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE
MESSICO
Febbraio 2016
Per: Juan Villoro Ruiz:
Fratello:
Sono lieto che il resto della famiglia giurata stia bene, e ti ringraziamo di essere il messaggero per far giungere loro i nostri saluti ed ossequi (anche se sono convinto che cravatte e posaceneri o un mazzo di fiori sarebbero stati un’opzione migliore).
Mentre cercavo di proseguire con queste parole, ho ricordato il tuo testo “Conferencia sobre la lluvia” (editore Almadía, 2013) scritto, credo, per il teatro, e che lessi immaginando, di sicuro malamente, la scenografia, i gesti e i movimenti dell’interprete del monologo che sente l’interpellanza più che mostrare di accoglierla. L’inizio, per esempio, è una sintesi della mia vita: il laconico “Ho perso le carte!” della prima riga, vale un’enciclopedia se lo lego ai calendari e geografie di questo continuo cadere e ricadere che sono stato.
Perché, invariabilmente, in un’epistola, dopo il saluto di apertura perdo le idee (“la tonelada” [la “metrica“, N.d.T.] dicono i compas quando si riferiscono al tono di una canzone). Voglio dire, l’obiettivo concreto della lettera. Vero che l’aver chiaro chi sia il ricevente può aiutare, ma non poche volte il destinatario è un ascolto fratello al quale non si richiede necessariamente una risposta, ma sempre un pensiero, un dubbio, un interrogativo, ma non che paralizzi, ma che motivi altri pensieri, dubbi, domande, eccetera.
Allora, forse come al bibliotecario-conferenziere protagonista dell’opera, vengono fuori parole che non si sono cercate di proposito, ma erano lì, nascoste, aspettando una disattenzione, una crepa nel quotidiano, per assaltare la carta, lo schermo o quel foglio sgualcito che dove-diavolo-l’ho-messo-ah-eccolo-qua!-ma-quando-ho-scritto-questa-idiozia? Le parole allora smettono di essere scudo e barricata, lancia e spada, e diventano, con nostro sommo dispiacere, specchio di fronte al quale ci si rivela e svela.
Certo, il bibliotecario può ricorrere alle sue pareti colme di scaffali, con il loro ordine alfabetico e numerico, con calendari e geografie che disegnano una mappa di tesori letterari; cercare quindi alla “O” di “oblio” e vedere se lì trova quello che ha perso. Ma qua, in questo continuo trasloco, l’idea di una biblioteca, pur se minima e portatile, è una chimera. Credimie, ho accolto con vane speranze i libri elettronici (in una “USB” – o “pendrive” o “memoria esterna” – si potrebbe caricare se non la biblioteca di Borges, almeno una minima: Cervantes, Neruda, Tomás Segovia, Le Carré, Conan Doyle, Miguel Hernández, Shakespeare, Rulfo, Joyce, Malú Huacuja, Eduardo Galeano, Alcira Élida Soust Scaffo, Alighieri, Eluard, León Portilla ed il mago della parola: García Lorca, tra gli altri). Ma niente, se il bibliotecario perde le carte, ed io i dispositivi usb, chissà dove vanno a finire.
Ma non credere, ognuno ha le sue vergognose fantasie. Nelle usb degli e-book normalmente mettevo una miscellanea di autori, pensando che se li avessi persi sarebbero stati insieme e, forse, non so, dopo tutto la letteratura è il genere dell’impossibile che si concretizza in lettere, avrebbero potuto “condividersi” tra loro.
La letteratura è il luogo in cui piove”, hai fatto dire al conferenziere in disgrazia, obbligato a denudarsi, senza l’abito dei suoi appunti, per mostrarsi come è: vulnerabile.
Quindi immagina una usb con questi o altri artisti della parola. Immagina che inizi a piovere. Immagina quello di cui parlano tra loro mentre cercano di fare in modo che una goccia d’acqua non rovini il codice binario nel quale vivono, ed allora cominciano gli equivoci: 0-1-0-macchia-1-macchia-0-0-macchia-1 o quello che sia, e così parte il “come osa!” e da una parte all’altra volano i “fuck you“, “ti spacco la faccia“, “sono sciocchezze“, “al diavolo“, “siete pazzi“, “vaffanculo“, mentre Alcira diffonde la sua “Poesía en Armas” ciclostilata, cosa che non credo riappacifichi gli animi belligeranti. Insomma, tutte le promettenti aspettative rovinate… dalla pioggia.
Indubbiamente, mutatis mutando, nelle tue lettere è un gatto l’esiguo auditorium del conferenziere, e qua è un gatto-cane con la sua lucina che ugualmente resta sconcertato da quello che scrivo, come se non fossero di per sé sconcertanti un gatto-che-è-cane-che-è-gatto-che-è-cane ed una luce accoccolata nell’ombra.
Sto divagando? Questo è sicuro. Dopo tutto, questa condivisione impossibile dentro una usb che confida che la pioggia non rovini il colloquio, non è altro che una fantasia.
Ma se per il conferenziere è la pioggia, per questa missiva il tema è… la tormenta.
Consentimi dunque di approfittare di queste righe per proseguire il nostro scambio di riflessioni sulla complessa crisi che si avvicina, secondo alcuni, che già c’è, secondo altri.
Qualcuno da quelle parti ha detto che la nostra visione (plasmata ora nella stampa del libro “Il Pensiero Critico di fronte all’Idra Capitalista. Partecipazione della Commissione Sexta dell’EZLN“), è apocalittica e più vicina a Robert Kirkman ed il suo “The Walking Dead” (il fumetto e la serie televisiva ispirata o no, a lui), che a Milton e Rose Friedman ed il loro “Liberi di Scegliere” (il libro e le politiche economiche che trovano lì il loro alibi). Che ci sbagliamo per non essere ortodossi, o che ci sbagliamo per essere troppo ortodossi. Che non succederà niente, che svegliandoci ogni mattina ci sarà sempre il necessario per la colazione, che il cane del vicino continuerà ad abbaiare al camion della spazzatura, che dal rubinetto del bagno continuerà ad uscire acqua e non un rumore d’oltretomba. Che siamo solo uccellacci del malaugurio che, in aggiunta, non abbiamo alcun impatto mediatico o accademico (anche se sempre più spesso sono la stessa cosa).
Infine, che la macchina funziona ed ognuno sta dove deve stare. Le scosse sono sporadiche e sono solo questo, scosse, e che le turbolenze sono passeggere e dovute a qualcuno che si rifiuta di stare dove deve stare. Come si smonta un orologio se un ingranaggio o una molla escono dal loro posto e lo Stato è “l’orologiaio” che elimina il pezzo rotto e lo sostituisce con un altro.
LApocalisse (tutto incluso)? Il diluvio universale? L’umanità prigioniera nel treno apparentemente eterno e immortale di Snowpiercer (il film del sudcoreano Bong Joon-ho, intitolato “Rompighiaccio” nel dvd di “produzione alternativa” che mi è arrivato – e che adesso non trovo -) che riproduce al suo interno la stessa disumanità che, volendo risolvere il riscaldamento globale, ha indotto il raffreddamento del pianeta?
Niente di più lontano dal nostro pensiero. Noi, zapatisti, zapatiste, non crediamo che il mondo finirà. Ma pensiamo che quello che conosciamo attualmente collasserà, e che la sua implosione provocherà una miriade di disgrazie umane e naturali.
Se questa implosione sia già in marcia o si stia definendo, della sua durata e termine si può dibattere, argomentare, discutere, affermare o negare. Ma per quando ne sappiamo, non c’è chi osi negarla. Lassù tutti ammettono che la macchina sta cedendo e provano una soluzione dietro l’altra sempre all’interno della logica della macchina. Ma c’è chi vuole rompere con questa logica ed afferma: l’umanità è possibile senza la macchina.
Tuttavia, per quello che siamo, non ci preoccupa tanto la tormenta. Dopo tutto, sono stati secoli di tormenta per i popoli originari e i diseredati del Messico e del mondo, e se c’è una cosa che si impara in basso, è vivere in condizioni avverse. La vita dunque, ed in qualche caso la morte, è una lotta continua, una battaglia scatenata in tutti gli angoli dei calendari e delle geografie. E non parlo qui delle battaglie mondiali, ma di quelle personali.
Come si può evincere da una lettura attenta della nostra parola, il nostro è un messaggio che va oltre la tormenta e le sue sofferenze.
È nostra convinzione che la possibilità di un mondo migliore (non perfetto né finito, lasciamo questo ai dogmi religiosi e politici) sia al di fuori della macchina e la sua possibilità si regge su un tripode. O meglio, nell’interrelazione tra tre colonne che hanno resistito e perseverato, con i loro alti e bassi, le loro piccole vittorie e le loro grandi sconfitte, durante la breve storia del mondo: le arti (eccettuando da queste ultime la letteratura), le scienze ed i popoli originari con i bassifondi dell’umanità.
Forse ti chiedi, un po’ per curiosità e molto per la domanda diretta che ti suscita, perché metto in un comparto esclusivo la letteratura. Permettimi di spiegarlo più avanti.
Noterai che, abbandonando i classici, non ho messo la politica tra le vie di salvazione. Conoscendoci un po’ (anche se non compariamo nemmeno nelle pagine interne dei media, c’è un’abbondante bibliografia dedicata per chi nutre un onesto interesse a conoscere lo zapatismo), è chiaro che ci riferiamo alla politica classica, alla politica “di sopra”.
Juan, fratello, lo so che per questo ci vorrebbe non un’altra lettera, ma una biblioteca, quindi permettimi di lasciare questo punto in sospeso. Non perché sia meno importante o trascendente nella tormenta, bensì perché “ho preso la strada“, come dicono i compas, e se seguo le biforcazioni con le quali mi tenta la parola, corri il rischio che questa lettera non ti arrivi mai, non per la pioggia, ma perché incompiuta.
Ho messo “le arti” perché sono loro (e non la politica) che scavano nel profondo dell’essere umano e riscattano la sua essenza. Come se il mondo continuasse ad essere lo stesso, ma con esse e attraverso di esse riuscissimo a trovare la possibilità umana tra tanti ingranaggi, dadi e molle che stridono rumorosamente. A differenza della politica, l’arte dunque non cerca di riparare o sistemare la macchina. nInvece, fa qualcosa di più sovversivo ed inquietante: mostra la possibilità di un altro mondo.
Ho messo “le scienze” (e mi riferisco qui in particolare alle cosiddette “scienze formali” ed alle “scienze naturali”, considerando che quelle sociali devono ancora definire alcune cose – attenzione: senza che questo implichi una domanda ed esigenza -) perché hanno la possibilità di ricostruire sulla catastrofe che già “opera” in tutto il territorio mondiale. E non parlo di “ricostruire” nel senso di riprendere quanto crollato e rifarlo di nuovo ad immagine e somiglianza della versione precedente la disgrazia. Parlo di “rifare”, cioè, “fare di nuovo”. E le conoscenze scientifiche possono riorientare la disperazione e darle il suo senso reale, cioè, “smettere di sperare”. E chi smette di sperare, potrebbe cominciare ad agire.
La politica, l’economia e la religione dividono, lottizzano. Le scienze e le arti uniscono, gemellano, trasformano le frontiere in ridicoli punti cartografici. Certamente, né le une né le altre sono esenti dalla feroce divisione in classi e devono scegliere: o contribuire al mantenimento e riproduzione della macchina, o contribuire a mostrare la sua necessaria soppressione.
Come se invece di ri-etichettare la macchina, abbellendola o perfezionandola, l’arte e la scienza piantassero, sulla superficie cromata del sistema, un’insegna laconica e definitiva: “CADUCO”, “Scaduto”, “per continuare a vivere, aspettare un altro mondo”.
Immagina (alla tua generazione deve essere rimasto qualcosa di John Lennon, alla mia poco più che soneshuapangos [musiche e balli folk – N.d.T.]), immagina se tutto quello che si spende in politica (per esempio, per le elezioni e per le votazione per la guerra, così antidemocratiche sia le une che le altre – “la politica e l’economia sono la continuazione della guerra con altri mezzi”, avrebbe detto Clausewitz se fosse partito dalla scienza sociale), fosse dedicato alle scienze e alle arti. Se invece di campagne elettorali e militari ci fossero laboratori, centri di ricerca e divulgazione scientifica, concerti, esposizioni, festival, librerie, biblioteche, teatri, cinema, e campi e strade dove regnassero le scienze e le arti, e non le macchine.
Certo, noi, zapatisti, zapatiste, siamo convinti che questo è possibile solo al di fuori della macchina. E che bisogna distruggerla. Non ripararla, non abbellirla, non renderla “più umana”. No, distruggerla. Se qualcosa dei suoi resti serve, che sia come dimostrazione che non bisogna ripetere l’incubo. Come se fosse solo un riferimento al quale si guarda dallo “Specchietto Retrovisore” mentre si lascia indietro la strada.
Ma non dubitiamo che ci sia qualcuno che pensi o creda che sia fattibile dentro di essa, senza alterare il suo funzionamento, cambiando macchinista o redistribuendo la ricchezza dei vagoni più sontuosi (non troppa, non bisogna esagerare) ai vagoni in coda. Ovvio, sempre rimarcando che ognuno sta dove deve stare. Ma il candore, fratello, normalmente è uno degli abiti della perversione.
Ho menzionato i popoli originari e i bassifondi del mondo, perché sono quelli che hanno più opportunità di sopravvivere alla tormenta e gli unici con la capacità di creare “un’altra cosa”. Qualcuno domani deve rispondere alla domanda “C’è qualcuno sulla Terra?”. E qui la parola presenta, non senza civetteria provocatoria, un’altra biforcazione che, per il bene di questa missiva, evito con la mia nota modestia.
Prima ho detto, beffardo e provocatorio, le arti, ad eccezione della letteratura. Bene, perché credo (e questo è personale) che toccherebbe alla letteratura creare i legami tra quei 3 piedi e rendere conto del processo, fortunato o no, della sua interrelazione. Gli tocca essere “Il Testimone”. Sicuramente mi sto sbagliando, oppure in questo gioco di carte ho scoperto il “Jolly” per chiedere “Perché così seri?”.
-*-
Che cosa vogliamo? La chiave per capire il messaggio sotterraneo dello zapatismo sta nei piccoli racconti che appaiono nel libro “Il Pensiero Critico di fronte all’Idra Capitalista“, sulla bambina indigena che si auto definisce “Difesa Zapatista“.
Immaginare quello che, pur necessario ed urgente, sembra impossibile: una donna che cresca senza paura.
Indubbiamente ogni geografia e calendario aggiunge le sue catene: indigena, migrante, lavoratrice, orfana, profuga, illegale, desaparecida, violentata sottilmente o esplicitamente, violata, assassinata, condannata sempre ad aggiungere pesi e condanne alla sua condizione di donna.
Che mondo sarebbe quello partorito da una donna che potesse nascere e crescere senza la paura della violenza, della minaccia, della persecuzione, del disprezzo, dello sfruttamento?
Non sarebbe terribile e meraviglioso quel mondo?
Quindi, se chiedessero a me, ombra spettrale dal naso impertinente, di definire l’obiettivo dello zapatismo, direi: “fare un mondo dove la donna nasca e cresca senza paura”.
Attenzione: non sto dicendo che in quel mondo non ci sarebbero più quelle violenze a minacciarla (soprattutto perché il pianeta si può distruggere molte volte, ma non il peggio della nostra condizione di maschi).
Nono sto nemmeno dicendo che non ci siano più donne senza paura. Che con il loro impegno ribelle abbiano ottenuto questa vittoria nella battaglia quotidiana, e che sappiano di vincere le battaglie. Ma non la guerra. No, fino a che ogni donna in ogni angolo delle geografie e calendari mondiali cresca senza paura.
Parlo della tendenza. Potremmo affermare che la maggioranza delle donne nascono e crescono senza paura? Credo di no, e probabilmente mi sbaglio e sicuramente arriveranno numeri, statistiche e dimostrazioni che mi sbaglio.
Ma nel nostro limitato orizzonte, percepiamo la paura, paura perché piccola, paura perché grande, paura perché magra, paura perché grassa, paura perché bella, paura perché brutta, paura perché incinta, paura perché non incinta, paura perché bambina, paura perché giovane, paura perché matura, paura perché anziana.
Vale la pena impegnare il passo, la vita e la morte per tale chimera?
Noi, zapatisti, zapatiste, diciamo di sì, vale la pena.
E ci mettiamo la vita che, benché sia poca cosa, è tutto quello che abbiamo.
-*-
Sì, hai ragione, non mancherà chi ci taccerà di “ingenui” (nel migliore dei casi, perché in tutte le lingue ci sono sinonimi più crudi). / Questo word processor, un software libero e con codice aperto, mi piace perché ogni volta che voglio scrivere “caso” o “casi“, il correttore mi propone “caos“. Credo che il software libero ne sappia più di me di devastanti tormente/.
Dove eravamo rimasti? Ah! Le parole perse, il loro naufragio in fogli o bites, i popoli originari e i bassifondi dell’umanità trasformati in arca di Noè, le scienze e le arti come isole salvatrici, una bambina senza paura come bussola e porto…
Che cosa? Sì, concordo con te che il risultato di tutto questo sa più di caos che di caso, ma questa è solo una lettera che, come dovrebbe essere per tutte le lettere, si trasforma in un aereoplanino di carta con la minacciosa scritta “Forza Aerea Zapatista” disegnata di lato, e che cerca il suo destinatario. Perché chissà dove sei Juan, fratello giurato. Come dicevano prima le nonne (non so adesso), “fermati ragazzino“, e mettiti la giacca o un abbraccio perché fa freddo e “la questione, lo sai, è la pioggia”.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
Subcomandante Insurgente Galeano
Messico, febbraio 2016

Traduzione “Maribel” – Bergamo


Hadeel - Rafeef Ziadah

domenica 28 febbraio 2016

Lavo i tuoi piatti America - Thomas Rain Crow

America,
ho trascorso la vita
come un servo
a raschiare i tuoi pavimenti
a portare fuori la spazzatura …
In un’epoca di senzatetto & disoccupati
quando i ricchi si arricchiscono, i poveri impoveriscono
lavo i tuoi piatti
America.
America lavo i tuoi piatti
Banchieri e strozzini lavo i vostri piatti
Ruffiani al governo e signori della droga lavo i vostri
piatti
Giudici lavo i vostri piatti
Docenti, professori lavo i vostri piatti
Politici lecco i vostri piatti
Medici e dentisti scrosto le vostre pentole
Yuppies lucido la vostra argenteria
Redattori lavo i vostri piatti
Editori lavo i vostri piatti
Bardomaniaci lavo i vostri piatti
Proprietari di ogni centimetro quadrato di terra buona
lavo i vostri piatti
Bellissime arrampicatrici hollywoodiane lavo i vostri
piatti
Malelingue, calunniatori lavo i vostri piatti
Arrivisti, ritrattatori lavo i vostri piatti
Lavo i tuoi piatti, America.
Mi ustiono le mani con l’acqua bollente
affinchè tu possa mangiare con stile.
Mi passo la paglietta Brillo sulle dita fino all’osso
per mantenerti in carne.
Gratto rutti insipidi dai vassoi della tua avidità.
Hai occhi più grandi dello stomaco e
lavo i tuoi piatti, America.
Ma sono stanco della tua spazzatura,
delle promesse e delle bugie – una forchetta diversa ad ogni
boccone.
Lavo i tuoi piatti, America, lustro le tue scarpe.
Lavo i tuoi piatti, America, aro i tuoi campi.
Lavo i tuoi piatti, America, poso la tua ferrovia.
Lavo i tuoi piatti, America, raccolgo la tua uva.
Lavo i tuoi piatti, America, costruisco le tue case.
Lavo i tuoi piatti, America, trivello il tuo petrolio.
Lavo i tuoi piatti, America, estraggo il tuo carbone.
Lavo i tuoi piatti, America, riparo il tuo tetto.
Lavo i tuoi piatti, America, stampo i tuoi libri.
Lavo i tuoi piatti, America, senza ricevere né un grazie,
né amore.
Stati Uniti d’America, in uno stato unito di ignoranza e avidità,
lavo i tuoi piatti.
Ma dentro, sto piangendo.
Quando laverai e asciugherai queste lacrime?
(traduzione di Alessandra Bava)

Thomas Rain Crowe, classe 1949, è poeta, traduttore ed editore. Vissuto a Parigi negli anni Settanta e poi a San Francisco, vive attualmente nella Carolina del Nord. Ha scritto un libro di memorie sui quattro anni di vita trascorsi in solitudine sui Monti Appalachi e oltre una decina di testi.

Qualcuno ha suonato - Izet Sarajlic

sabato 27 febbraio 2016

"Sette bambine ebree - un dramma per Gaza" di Caryl Churchill



(grazie a Rosella per avermene parlato)

L'opera teatrale di Caryl Churchill Seven Jewish Children (Sette bambini ebrei), scritta e messa in scena nel 2009 alla luce della devastante campagna militare israeliana a Gaza, punta i riflettori sulla confusione che permea l'identità ebraica. Si tratta di un viaggio storico dalla condizione di vittima a quella di aggressore, un viaggio in cui le premesse non trovano una corrispondenza logica nel finale.
Attraverso un continuo “Ditele” e “Non ditele”, si percorrono le condizioni e la coscienza di un popolo. E' un atto di accusa si, ma non contro Israele, piuttosto contro la guerra e la sopraffazione, il calcolo e l'interesse.
Assistiamo a un percorso che parte dagli orrori della Shoah e si delinea come passaggio dall'innocenza alla spietata barbarie,  è una lettura recente della storia ebraica che non rappresenta una novità, ma il messaggio viene comunicato da Churchill in maniera profonda e sensibile.
Nell'opera di Churchill c'è uno strato ancora più profondo che viene raramente discusso o affrontato. Churchill, come molte altre persone coinvolte in discussioni sull'identità ebraica, è molto attenta alla qualità elastica dell'identità, della storia e della realtà ebraiche. Gli ebrei sono tutto ciò che vogliono, nella misura in cui serve a una causa o un'altra. Il popolo ebraico non è mai esistito come “razza-nazione” e non ha mai condiviso un'origine comune. È invece un variegato insieme di gruppi che in varie fasi storiche hanno adottato la religione ebraica.
Churchill rivela in maniera eloquente il livello zero di integrità della causa nazionale, del pensiero e della versione della storia ebraici. Nella versione ebraica della storia non si tratta di dire la verità. Si tratta invece di inventare una “verità” che rientri nelle necessità tribali attuali.
Nel descrivere gli effetti distruttivi provocati dalla politica identitaria ebraica nel suo trasformare lo Stato ebraico in un omicida a sangue freddo,“Dille che non mi importa se il mondo ci odia, dille che noi odiamo meglio”,  Churchill mostra grande perspicacia. E tuttavia ci si potrebbe chiedere chi è quella bambina innocente cui si riferisce Caryl Churchill. Chi è la protagonista all'altro capo del testo, chi è quella “lei” nascosta di cui si parla in ogni battuta di questa interessante opera?
L'immagine della giovane vittima femminile innocente è uno dei pilastri dell'identità ebraica e dell'immagine che gli ebrei hanno di sé dopo la Shoah.
“Non spaventarla,” dice Churchill. A essere onesti, la bambina ha un ottimo motivo per essere spaventata. Se avesse mai il coraggio di guardarsi allo specchio ne sarebbe profondamente devastata.


Tra fine 2008 e inizio 2009 la cosiddetta "Operazione Piombo Fuso" ha visto un violento attacco alla Striscia di Gaza, con bombardamenti aerei e poi con mezzi di terra e la penetrazione in territorio palestinese di forze israeliane. Quando esse si ritirarono, Gaza appariva un campo di rovine: tra 1166 e 1417 i morti, milleottocento i bambini feriti; distrutte abitazioni civili, edifici commerciali e pubblici, interi quartieri rasi al suolo; gravemente danneggiate le infrastrutture essenziali. Turbata e indignata 
Churchill scrisse questo breve testo, ora disponibile in rete a chiunque voglia rappresentarlo, senza pagamento di diritti, con la sola condizione che si faccia una sottoscrizione a favore di Medical Aid for Palestinians. Sette bambine ebree nasce dunque a caldo, per rispondere all'emozione umana e politica di un evento sanguinoso; "è un dramma 'per' Gaza, non a proposito di Gaza, pregnante di rabbia, empatia e condanna, e dunque ancor più stupisce "il modo incredibilmente economico e distillato" la compressione lucidamente poetica con cui Churchill tratta argomenti dolorosi e complessi.
da qui

Sette adulti suggeriscono cosa dire, e cosa non dire, a sette bambine ebree di epoche differenti. Dall'Olocausto ai fatti di Gaza. L'opera è un viaggio storico di un popolo, dalla condizione di vittima a quella di aggressore, l'attenzione si focalizza sulla confusione che permea l'identità ebraica, attraverso un continuo “Ditele” e “Non ditele”, si percorrono le condizioni e la coscienza di un popolo.

 “Non dirle che la uccideranno, dille che importante che stia buona.” “Dille che è un gioco, dille che è una cosa seria”. “Dille ancora una volta che questa è la nostra Terra Promessa”. “Dille che i palestinesi ora sono animali che vivono tra le macerie, che non mi importerebbe se li annientassimo, dille cosa provo quando guardo una delle loro bambine coperta di sangue. Dille che quello che provo è felicità, perché quella bambina non è lei.”.

Il testo della Churchill vuole scuotere, far discutere, mettere in dubbio, avviare pensiero e azione critica. E' un atto di accusa si, ma non contro Israele, piuttosto contro la guerra e la sopraffazione, il calcolo e l'interesse. L'autrice ha rinunciato ai diritti d'autore su quest'opera.
da qui

Come ho imparato ad innamorarmi delle sanzioni - Shlomo Sand

I media la definiscono l’intifada dei singoli. Ma tutti noi sappiamo che è innanzitutto un’ intifada dei giovani. La classe politica israeliana è convinta che [i giovani] vengano sobillati, ma chiunque voglia essere onesto con sé stesso sa che le ragioni reali della recente ondata di attacchi sono la persistente occupazione, le umiliazioni quotidiane, il vuoto esistenziale e la percezione di non avere nessuna via di uscita.
Poco distante dalle nostra vita quotidiana a Tel Aviv e a Haifa, un popolo privo dei diritti umani e privo dei più fondamentali diritti civili ha vissuto per circa mezzo secolo. Noi, gli israeliani, lavoriamo, studiamo e viviamo agiatamente e liberamente, mentre non lontano da noi un popolo è alla mercé dei soldati e della smisurata avidità per la terra dei coloni appoggiati dal governo.
Ogni volta che sento le notizie di un ragazzo o una ragazza palestinese che hanno buttato la loro vita per ammazzare degli israeliani, sono costernato per il gesto, ma allo stesso tempo non posso esimermi dal ricordare le dure parole di Alexander Penn [poeta israeliano di origine russa membro del partito comunista, ma anche sionista. ndt]: “Ed egli è stato incendiato, sta fiammeggiando e sacrifica se stesso per incenerire l’amara offesa della schiavitù”.
Naturalmente la resistenza armata non è di per sé qualcosa di nobile e di virtuoso. E’ difficile e spesso orrendo. Donne innocenti e bambini sono colpiti e persino uccisi.
Ma quelli che lo stanno perpetrando non sono nati assassini. In altre circostanze storiche, quei bambini e quei giovani che prendono un coltello da cucina, un’accetta o una vecchia auto e li trasformano in armi letali, avrebbero potuto finire i loro studi, diventare degli onesti professionisti, essere delle madri e dei padri, crescere dei bambini e invecchiare pacificamente.
Ma nella loro storia è stato danneggiato qualcosa che sta provocando disastri e che nella nostra storia israeliana sta diventando mostruoso.
Quando incontro all’estero dei colleghi , spesso mi chiedono come possa succedere che i discendenti degli ebrei perseguitati possano trasformarsi in così brutali persecutori. Io rispondo che la persecuzione non ha mai prodotto un automatico vaccino contro l’arbitrarietà e la cecità verso il destino dell’altro.
Tuttavia se l’insediamento dei profughi [ebrei] cacciati dall’Europa può essere considerata come una giustizia storicamente discutibile ( dopo tutto, i nativi non avrebbero dovuto pagare per quello che la civiltà cristiana ha fatto ai nostri genitori e ai nostri nonni) il continuo insediamento dei figli dei profughi che hanno già acquisito una sovranità è un male privo di qualsiasi giustizia.
La maggior parte della società israeliana sostiene i mali dell’occupazione o indifferente riguardo ad essi. Alcuni pensano che è il prezzo da pagare per la lenta liberazione dell’immaginaria patria che la bibbia ha promesso loro. Altri traggono un beneficio da generosi finanziamenti e da beni reali; per la maggior parte di essi è semplicemente più comodo ignorare tutto quello che li circonda.
Le ferie incombenti, la carriera che è così difficile da preservare e sviluppare, le difficoltà economiche e gli ostacoli e altri simili cose ci impediscono di vedere e comprendere perché dei ragazzini diventano degli assassini. Perché tredicenni, quattordicenni, quindicenni hanno apparentemente perso interesse verso la loro vita e sono di conseguenza disposti a prendersi la vita di altri in un’esplosione di odio.
Non scrivo per convincere i coloni e i loro fanatici sostenitori. Non provo a cambiare il pensiero dei politici populisti che nuotano in un oceano di manipolazione del potere.
Cerco di rivolgermi a coloro che sono apatici o forse pigri, o semplicemente perché gli conviene non saperne niente. L’ondata di terrore degli ultimi mesi non ci ha ancora impedito dal condurre una vita normale. È ancora possibile vivere un’esistenza illusoria, nella convinzione che alla fine tutto in qualche modo si aggiusterà.
Se noi israeliani siamo riusciti fino ad ora a cavarcela da tutte le guerre e dalle intifade , sicuramente riusciremo a superare tutti i guai futuri.
Io, in dissenso con costoro, penso che la vita oggi in un Medio Oriente instabile e in un Paese ebraico in continua espansione è simile a una corsa senza speranza e condannata [in partenza]. Non solo stanno crollando i valori fondamentali, ma con loro è stata erosa anche la logica politica dei nostri stessi presunti interessi.
Penso che i miei contributi ingenui possano servire? Non proprio. Sono sempre più persuaso che la possibilità di un’opposizione politica capace di modificare la tendenza generatasi in Israele – che annunci che Israele non è interessato a nessuna sovranità oltre i confini del 1967 e che intenda rimandare indietro nelle loro precedenti patrie tutti i coloni; che i luoghi santi non devono essere sotto il controllo esclusivo di Israele e che Gerusalemme può essere la capitale dei due Stati – la probabilità che ciò avvenga sia prossima allo zero.
È possibile che, se il terrorismo aumenta e se, dio non voglia, gli assalitori suicidi più anziani si uniscono ai giovani di oggi, se non ora in futuro, più e più israeliani si stancheranno concretamente dell’occupazione. Ma se questo triste scenario si concretizzasse, ciò avverrebbe dopo dopo che ancora più sangue venga versato da entrambe le parti.
Proprio perché mi oppongo all’occupazione e alla negazione dei diritti degli altri, detesto anche il terrorismo e lo ripudio. Per questa ragione, sono sfortunatamente arrivato a una conclusione che precedentemente avevo rifiutato di fare o di esprimere pubblicamente. Non posso più continuare a criticare le pressioni sul governo israeliano.
Per anni mi sono opposto al boicottaggio e alle sanzioni, ma sono sempre più convinto che, come le sanzioni hanno funzionato quando sono state applicate contro il Sud Africa e contro l’Iran, possono essere efficaci se applicate contro Israele.
Le sanzioni non hanno distrutto il Sud Africa o l’Iran. Né distruggeranno Israele. Io, ovviamente, mi oppongo per principio a sanzioni il cui obiettivo sia quello di cambiare il regime e lo stile di vita in Israele. Nessuno se non gli israeliani ha il diritto di farlo.
Ma le sanzioni che sono intese a impedire il continuo controllo di Israele sulla vita degli altri, il che ha impedito a costoro di possedere la propria terra e gestire il proprio destino negli ultimi 50 anni, non contraddicono il principio democratico di autodeterminazione. È vero il contrario. Lo ampliano.
Questa è un’opportunità, e non piccola, che tali sanzioni salvino sia i ragazzi che commettono attacchi suicidi che le loro vittime. E oltretutto, potrebbero togliere Israele dalla trappola da cui, come dimostra ogni giorno che passa, non è in grado di uscire da solo. A mio modesto parere chiunque ami il Paese e si opponga al terrorismo non può più permettersi di continuare a protestare contro le pressioni e le sanzioni che divengono via via sempre più legittime
Il prof. Sand insegna nel dipartimento di storia dell’università di Tel Aviv. Il suo ultimo libro “History in the Shadows” [titolo originale “Crépuscule de l’histoire”, sull’insegnamento della storia, ndtr.] è stato pubblicato nel 2015.
Fonte: Haaretz
Traduzione di Carlo Tagliacozzo per Zeitun

Parlando di poesia e di poeti - Erri De Luca

venerdì 26 febbraio 2016

Ancora sui profughi – Guido Viale


Poiché considero la questione dei profughi centrale per il futuro nostro e dell’Europa, cerco di chiarire e riassumere qui per punti le posizioni che sono andato definendo approfondendo il problema nel corso dell’ultimo anno e mezzo.
1. Migrazioni ed esodo di profughi sospinti in larghissima maggioranza dalla guerra o dalla fame – all’origine delle quali c’è quasi sempre un deterioramento ambientale o una contesa per il petrolio, che è il principale responsabile della crisi ambientale in corso – sono la questione principale intorno a cui si svilupperà il conflitto sociale, la lotta politica e il destino stesso dell’assetto istituzionale dell’Italia, dell’Europa e del mondo (su questo tema l’Unione europea, che aveva resistito compatta a politiche micidiali di austerity, si sta ora dividendo profondamente. Cosa che mette all’ordine del giorno una sua eventuale rifondazione su basi radicalmente cambiate; ma non necessariamente più favorevoli a ciò che molti di noi vorrebbero che fosse).
2. Le politiche di respingimento, sia quelle effettuate in maniera brutale, con guerre, campi di concentramento o lasciando annegare sempre più persone, sia quelle affidate ai cosiddetti rimpatri, non hanno avvenire. E non per mancanza di appoggio da parte di un’opinione pubblica largamente manipolata e di popolazioni infastidite o incattivite, che già sono e saranno sempre più favorevoli a questa scelta. Bensì per una ragione pratica. Perché, anche a prescindere dalle sue implicazioni etiche, il respingimento non è una soluzione praticabile. Dove respingerli? Rigettarli tra le braccia dell’Isis, o di suoi emuli, ormai presenti in quasi tutti i paesi da cui si originano quei flussi, accrescendo del pari le loro forze sia là che, per solidarietà, tra gli immigrati nei paesi europei? Non farebbe che moltiplicare sia i fronti di guerra fuori e dentro i confini dell’Europa, sia nuove e più consistenti migrazioni. Stringere accordi con i governi dei paesi di origine perché li riaccolgano o li trattengono in patria? Non sono disposti a farlo nemmeno a caro prezzo (e il prezzo è comunque destinato a salire, e di molto, mentre i paesi europei meno esposti non sono assolutamente disposti a condividerlo). Lo ha dimostrato il vertice di La Valletta e lo dimostra la fragilità del cinico patto stretto dalla Commissione europea con Erdogan sotto la supervisione di Angela Merkel. Costruire e gestire più o meno direttamente (anche se sotto il velo di un coinvolgimento dei governi locali) dei campi di concentramento – e, in buna misura, di sterminio – in cui rinchiudere tutte le persone in fuga o sbandate che cercano di effettuare o stanno intraprendendo un viaggio verso l’Europa? Quei campi raggiungerebbero presto dimensioni smisurate, e sempre più difficili da gestire.
3. La prima conseguenza di queste politiche sarebbe comunque un irrigidimento autoritario e razzista di tutti i governi dell’Unione Europea, posto che questa sopravviva a scelte del genere, cosa che non credo. La seconda conseguenza sarebbe l’instaurazione di fatto di un controllo paramilitare dell’UE o di alcuni dei suoi Stati membri su tutti o gran parte dei paesi di origine o di transito di quei flussi, per lo meno in Africa; il che, per l’Europa, vorrebbe dire portarsi la guerra in casa. Ma l’esito più probabile di una politica di respingimento è quello di scaricare sui paesi di primo accesso che non possono erigere barriere fisiche ai confini (sostanzialmente Grecia e Italia) tutto il peso dei nuovi arrivi, chiudendo nei loro confronti le frontiere interne del resto d’Europa. Inutile dire che questo porterebbe rapidamente alla saturazione delle capacità di accoglienza (per quanto sommaria e mal gestita) di questi due paesi; ma anche delle loro capacità di respingimento: i rimpatri diventerebbero ben presto “affar loro”, mentre gli altri paesi membri “se ne lavano le mani”, come sta già succedendo con le ridotte quote di riallocazioni definite dalla Commissione europea. E’ ciò che di fatto sta già succedendo con il cosiddetto “decreto di espulsione differita”: si abbandonano per strada senza soldi, senza documenti, senza riferimenti, senza la conoscenza della lingua, persone a cui è stato ingiunto di lasciare il paese a loro spese entro una settimana E’ come consegnarli alla clandestinità, alla criminalità, allo stupro, alla disperazione e alle mafie. Ma se è ancora possibile fare questo giochetto con alcune centinaia di profughi, è evidente che non lo sarà più con le decine di migliaia che arriveranno. L’Italia non ha una politica su questa questione, perché nonostante le (molto recenti) uscite di Renzi sul tema, non ha mai posto il problema in sede Europea nella sua dimensione e drammaticità effettive. Ma una prospettiva del genere corrisponde alla dissoluzione dell’Unione.
4. Vediamo ora le cose in un’altra prospettiva. Di qui al 2050 l’Europa, senza immigrazione, avrà perso 100 milioni di abitanti: un quinto della sua popolazione attuale. Ma i 400 milioni restanti saranno sempre più vecchi. Il che vuol dire un peso insopportabile su chi lavora e una drammatica stagnazione economica (che non è la decrescita felice). Il maggior dinamismo dell’economia statunitense, infatti, è riconducibile, più che alle politiche economiche adottate, al continuo flusso di immigrati dall’America centrale e meridionale, in linea di principio tutti o quasi illegali, e perciò più facilmente sfruttabili; ma proprio per questo di fatto tollerati sia a destra che a sinistra. Per colmare questo vuoto demografico l’Europa dovrebbe “importare”, di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi che sono arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche economiche che quelle sociali. Peraltro, fino al 2008, arrivava in Europa un milione di nuovi migranti economici all’anno, cioè quanti sono stati i profughi quest’anno. Sono le politiche di austerità che, oltre a creare in Europa milioni di nuovi disoccupati, hanno trasformato in un problema l’assorbimento di nuove forze di lavoro proveniente da altri paesi. D’altronde, tra il 1945 e la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, UK compreso, avevano assorbito circa 20 milioni di profughi e di immigrati: 10 milioni dall’Est e 10 milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa e dal Maghreb. La minaccia di un sovraffollamento è dunque esclusivamente il frutto di politiche economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide.
5. Naturalmente, per accogliere una massa così sterminata di profughi e migranti i paesi europei dovrebbero attrezzarsi con politiche sociali ed economiche radicalmente diverse da quelle attuali; le stesse, peraltro, necessarie per assorbire la disoccupazione endogena e il disagio sociale (leggi povertà) create dall’austerità. Ne deriverebbe comunque uno sconvolgimento di tutti gli assetti sociali, in particolare della vita quotidiana di tutti i cittadini europei; il che richiede una svolta nel modo di pensare il “diverso da noi” che la cultura dominante non è assolutamente in grado di produrre, ma che sarebbe urgente elaborare, mettere alla prova e promuovere, se non vogliamo accettare senza contrastarla la deriva autoritaria, razzista, guerrafondaia e, in ultima analisi, votata allo sterminio, implicita nelle politiche di respingimento adottate, ancorché sotto la veste di varie quanto ipocrite coperture umanitarie, da tutte le autorità europee.
6. E’ evidente che né il mercato né gli Stati sono in grado di assorbire – e includere – un numero così alto di nuovi arrivati. Bisogna ricorrere ad altri strumenti perché non c’è solo da trovare casa e lavoro per milioni di persone, ma soprattutto da promuovere il loro inserimento nel tessuto sociale con progetti personalizzati, in modo che non siano di peso per l’economia nel suo insieme, ma anzi vengano valorizzati come una risorsa aggiuntiva (e indispensabile) e non suscitino quei sentimenti di ripulsa che oggi la loro presenza non programmata, ma soprattutto la loro inattività e il loro isolamento, provocano tra la popolazione. Progetti personalizzati di questo tipo sono l’ambito privilegiato delle attività del terzo settore (quello che in Europa viene chiamata economia sociale e solidale). In Italia abbiamo ottimi esempi di questo lavoro, ma anche clamorose prove della sua degenerazione in organizzazioni come quelle di Buzzi (mero strumento o braccio armato della corruzione e della criminalità che alligna nelle alte sfere della politica e dell’amministrazione pubblica). Il 28 gennaio di questo mese si terrò a Bruxelles il primo Forum europeo dell’economia sociale e solidale (SSE). E’ stato proposto che, tra le altre cose, venga messo all’ordine del giorno il ruolo che la SSE può e deve assumere nei confronti del problema profughi, lanciando un grande piano europeo per creare lavoro nei settori decisivi ai fini della conversione ecologica (agricoltura, edilizia, energie rinnovabili, mobilità, riassetto del territorio e assistenza alle persone). Un piano da affidare alle imprese – esistenti o da costituire – della SSE, in modo che l’inserimento lavorativo venga accompagnato da programmi personalizzati di inclusione sociale. Questa proposta è stata ascoltata con interesse ma non è stata sviluppata in modo adeguato. Nonostante tutto, nella maggioranza dei paesi europei, per lo meno nell’ambito della cosiddetta sinistra che fa capo al GUE, promotore del Forum, la centralità del problema dei profughi non viene ancora avvertita con l’urgenza che meriterebbe. Aggiungo che un piano di questo genere potrebbe avere un risvolto di grande interesse anche nell’ambito delle politiche di cosiddetto rientro, di cui parlerò in seguito.
7. Questo non vuol dire ovviamente accettare l’irreversibilità dei processi migratori verso l’Europa, anche se nel breve periodo non vedo alternative all’accoglienza se non nella moltiplicazione delle stragi affidate al mare, alla fame e alle intemperie. La prospettiva di creare le condizioni per ridurre le spinte all’emigrazione dai paesi colpiti dalla miseria e dalla guerra non deve essere abbandonata. Il che vuol dire innanzitutto battersi e mobilitarsi per evitare il moltiplicarsi delle guerre, “umanitarie” o no, nei paesi che oggi ne sono investiti e in quelli che rischiano di esserlo domani. Ma il problema centrale è quello di creare dei circuiti in base ai quali agli arrivi possano corrispondere, anche se in misura minore, ma non irrilevante, dei ritorni volontari e delle motivazioni forti per farlo. Occorre considerare l’Europa e i paesi africani, ma anche quelli mediorientali, da cui provengono oggi i profughi e i migranti come un’unica grande area attraversata da interscambi non solo economici (necessariamente squilibrati per molto tempo ancora), ma anche culturali, sociali e civici. Quei confini dell’Europa che l’Unione vorrebbe allargare riducendo i paesi di origine dei flussi migratori in avamposti della sua trasformazione in fortezza, occorre invece riuscire a farli percepire e vivere, innanzitutto nella coscienza dei cittadini europei, dei profughi e dei migranti di prima, seconda e terza generazione, come il perimetro di una nuova comunità euromediterranea ed euroafricana. Ma come? Dire che occorre “bonificare l’Africa” per fermare quei flussi è davvero troppo poco.
8. Possiamo interpretare lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” in tre modi. Il primo è quello delle politiche di cooperazione allo sviluppo attuali, peraltro sempre più tirchie (non solo da parte italiana) quanto a stanziamenti, e destinate in larghissima parte (non solo da parte italiana) a far ingrassare imprese europee con finalità predatorie, a corrompere le classi dominanti locali (o addirittura a crearle e farle esistere come classi predatorie; “compradore” si diceva una volta) e a disperdere il resto in mille rivoli scarsamente efficaci. Anche quando i progetti di cooperazione sono ben fatti e ben condotti (non è la maggioranza dei casi, ma ci sono anche quelli; e a volte le ragioni del loro fallimento vanno ricercate nelle scelte di chi li governa, aprendo e chiudendo senza alcuna logica che non sia l’interesse personale i rubinetti dei finanziamenti), quei progetti sono comunque sempre iniziative di nicchia, che non incidono sulla dimensione effettiva dei problemi che stanno alla radice dell’esodo, e soprattutto non si confrontano con la dimensione del disastro ecologico che i cambiamenti climatici stanno già provocando in molti paesi dell’Africa e del Medioriente. Il secondo modo è quello invocato da Salvini (ma, ahimè, sostenuto anche dalla Merkel) per cui stanziamenti anche molto più consistenti, posto che si trovino, vanno destinati prioritariamente a trattenere (e internare) profughi e migranti in strutture appositamente costituite nei paesi di origine o di transito dei flussi. Che ciò significhi nient’altro che dichiarare guerra ai migranti si è già detto. Il terzo modo è tutto da costruire perché mira a rendere le comunità espatriate in Europa, cioè i profughi e i migranti (di prima, ma anche seconda e terza generazione) protagonisti di una politica di ricostruzione di un tessuto sociale ed economico in grado di offrire delle prospettive di maggior benessere anche agli abitanti dei paesi di origine. Profughi e migranti sono in gran parte la componente più istruita, più giovane, più intraprendente (quelli che hanno avuto la forza e l’iniziativa di affrontare un viaggio così pericoloso) della popolazione da cui provengono: un apporto che l’economia, la cultura e le società dell’Europa potrebbero valorizzare molto, mentre oggi lo svalutano, lo disprezzano e lo degradano. Ma soprattutto sono una risorsa strategica per la costruzione di una grande comunità euroafricana ed euromediterranea. Sono persone che ancora intrattengono forti legami con le loro comunità di origine, o che possono facilmente riattivarli; che in Europa possono costruirsi o affinare delle competenze, delle conoscenze, delle professionalità, delle esperienze da mettere a disposizione dei loro paesi di origine con grande vantaggio per tutti, qualora se ne creino le condizioni. Non solo per reinserirsi nei loro paesi di origine, andando a occupare posizioni già esistenti, ma per creare opportunità e modalità di produzione di reddito e di ricchezza completamente nuove.
9. Condizione indispensabile perché ciò avvenga è che le comunità nazionali espatriate presenti in Europa possano organizzarsi, anche politicamente, siano libere di muoversi, siano aiutate a fare esperienza non solo di lavoro, ma anche di relazioni sociali nuove nei paesi e nei territori che le ospitano. Perché solo così si può innescare un circuito che renda desiderabile e praticabile un ritorno in patria anche mentre nuove leve la stanno abbandonando per mettersi anche loro alla prova dell’emigrazione. Prima ancora di pensare ai finanziamenti, o anche a progetti di cooperazione allo sviluppo – in gran parte pensati e progettati dall’esterno – occorre lavorare con le comunità di profughi e migranti nella prospettiva di aiutarli a rendersi attori e protagonisti di un nuovo processo di integrazione delle economie e delle società dei paesi di origine e di quelli di arrivo. Non credo che esistano alternative a una prospettiva del genere che non siano quelle prospettate nella prima parte di queste note; anche se realizzarla, soprattutto nel clima di ostilità crescente nei confronti degli immigrati che stiamo vivendo, sarà sempre più difficile.

Antepasados (Antenati) - Juan Carlos Mestre

L'autismo secondo me - Gianluca Nicoletti

giovedì 25 febbraio 2016

Modi di vedere - John Berger

Se non si hai mai letto niente di John Berger, “Modi di vedere” può essere un buon inizio, per apprezzare la ricchezza e la profondità dei temi che interessano John Berger. Pochi meglio di lui fanno propria la frase di Terenzio: “Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.
Nel libro, curato da Maria Nadotti, si parla dei premi letterari e cosa fare dei soldi che li accompagnano, dèll’utilità e umanità delle prigioni (sotto forma di una lettera a Raymond Barre), di un viaggio di Palestina, di un libro di foto di lavoratori, della sua esperienza di scrittore per il cinema insieme ad Alain Tanner, di un pilota in difficoltà, di Nazim Hikmet e della sua poesia, di Tiziano, il pittore, in un colloquio con la figlia Katya, su Caravaggio, su Hieronymus Bosch e la resistenza degli zapatisti.


Il libro inizia così:
Discorso di accettazione del «Booker Prize per la letteratura»
Dal momento che mi avete assegnato questo premio, forse vi interesserà sapere, in breve, che cosa esso significhi per me. Trovo ripugnante la competitività dei premi. E, nel caso di questo specifico premio, la pubblicazione della lista dei finalisti, la suspense pubblicizzata ad arte, la speculazione sugli scrittori coinvolti, neanche fossero cavalli, l'enfasi complessiva su vincitori e vinti, tutto è falso e fuori posto, visto che si tratta di letteratura. Tuttavia i premi agiscono da stimolo: non tanto per gli scrittori, ma per gli editori, i lettori e i librai. Di conseguenza il valore culturale di fondo di un premio dipende da ciò che sa stimolare. Un premio può stimolare il conformismo del mercato e il consenso dell'opinione comune; oppure l'indipendenza dell'immaginazione tanto del lettore quanto dello scrittore. Se si limitano a stimolare il conformismo, i premi non fanno che assicurare il successo nel senso convenzionale del termine. Non sono che l'ennesimo capitolo di una storia di successi. Se stimolano l'indipendenza dell'immaginazione, incoraggiano invece la voglia di cercare alternative. O, per dirla molto semplicemente, incoraggiano a porsi delle domande…
da qui


In rete si trova una trasmissione del 1972, della BBC, di John Berger, intitolata “ Modi di vedere”, una di quelle cose che avresti voluto vedere e non sapevi che esistevano: