Credo
sia importante e giusto raccontare ciò che sta accadendo in un pezzo
di periferia di Napoli in questi ultimi mesi, densi di avvenimenti.
Cronaca di una resistenza
Tutto comincia domenica 6 settembre con l’uccisione, alle quattro del
mattino, in piazza Sanità, di un ragazzino di diciassette anni, Genny Cesarano. A ucciderlo una banda di otto giovanotti
su moto: sparano all’impazzata, colpiscono Genny alla schiena mentre fugge.
Sono le bande che terrorizzano il territorio per il controllo del mercato della
droga.
Avevo
sentito nella notte quegli spari, ma mi sembravano i soliti botti da fuochi
d’artificio, piuttosto frequenti nel rione. Al mattino, quando scendo in piazza,
mi dicono che Genny è stato ucciso. Avviso subito il parroco, don Antonio
Loffredo. È domenica, dovrei celebrare la messa delle
nove. Quando arrivo, gli dico: ”Non mi sento di celebrare la messa in chiesa,
con il sangue ancora fresco sulla piazza…”. Nonostante le proteste dei
fedeli, non celebro. “Sarebbe meglio – dico al parroco – che noi preti
celebrassimo un’unica eucaristia in piazza Sanità, antistante la Chiesa, dov’è
stato ucciso Genny”. Don Antonio accetta la sfida, ma non la polizia.
Ci pedinano per tutto il mattino, ci fanno capire che non possiamo
celebrare in piazza. Chiedo alla dirigente perché il questore ha posto il veto.
“Il questore ha paura – mi dice – Se voi celebrate in piazza, la gente del
Rione scenda in piazza…”. Le rispondo seccamente: ”Magari scendesse in piazza!
Glielo dica al questore!”.
Per la
messa che celebriamo a mezzogiorno in chiesa, scelgo dei testi biblici
appropriati, presi dal libro di Daniele (”Noi abbiamo peccato”), dal profeta
Isaia (”Le vostre mani grondano sangue”) e dal vangelo di Luca (”Se non vi
convertite, perirete tutti”). Una parola forte che scuote l’assemblea cristiana
in piazza. “Le nostre mani grondano sangue – ripeto durante l’omelia –
Siamo tutti responsabili, chiesa inclusa, per la morte di Genny. Abbiamo tutti
peccato. E se non cambiamo strada, periremo tutti. Non verrà nessuno a
salvarci. Noi, Popolo della Sanità, dobbiamo alzare il capo e urlare “Basta!”“.
Dopo la
celebrazione, la dirigente della polizia mi consegna il
decreto del questore che proibisce la celebrazione in piazza…Sorrido. Con stupore invece vediamo una decina di donne del Rione
arrivare in sacrestia. “Noi non possiamo accettare che i nostri figli finiscano
così. Noi vorremmo organizzare una fiaccolata di protesta per le strade del
Rione. Voi preti, potreste aiutarci?”. Era la prima volta che delle donne della
Sanità osano tanto. “Siamo pronti ad aiutarvi,” rispondiamo. Prepariamo la
fiaccolata il giorno dopo con un’affollata assemblea in chiesa. Decidiamo
di portare uno striscione ”No Camorra!” e di piantare un ulivo in piazza (al
posto di un albero tagliato dai ragazzini del Rione).
Il
giorno dopo, l’8 settembre, poco prima di far partire il corteo, mi accorgo che
nessuno ha preparato lo striscione. Recupero
a casa un rotolo di carta e scriviamo ”No Camorra!”. Dietro a quella scritta, sfila un lungo corteo con migliaia di
persone. Sono commosso. Per la prima volta accade una cosa del genere alla
Sanità. Le tensioni durante
il corteo sono evidenti.
Giovedì 10
settembre: il questore, dopo tante nostre pressioni, permette il funerale
pubblico di Genny, ma lo fissa alle 7,30 del mattino. Di nuovo il parroco mi
chiede di presiedere l’eucaristia. In una chiesa, Santa Maria della Sanità,
strapiena, ricordo a tutti che che siamo lì a celebrare il Dio della Vita, un
Dio che non può accettare la morte di un diciassettenne, conseguenza di quella
bomba sociale che è la Napoli
malamente. Già, perché in questa metropoli esistono due città, quella
“malamente” e la “Napoli bene”, due città che non vogliono incontrarsi. Chiedo alla gente della
Sanità di avere il coraggio di alzare la testa contro le camorre e la
criminalità “disorganizzata” tipica di Napoli. Con altrettanta forza chiedo
alle autorità di non abbandonare il quartiere, ma di sostenere quelle piccole
iniziative sociali che cominciano a sbocciare nel Rione.
Una folla immensa vive con commozione quella celebrazione che si conclude
alle nove. L’ordine perentorio del questore era che doveva finire per le 8,20. Il popolo poi sfida nuovamente il
questore portando la bara di Genny a spalla attraverso la Sanità, in un
silenzio surreale, fino a piazza Cavour (fuori dalla Sanità).
Pochi
giorni dopo il funerale, il papà di Genny e i rappresentanti della cittadinanza
attiva di Napoli, vengono a proporre a noi preti di organizzare una marcia
cittadina per chiedere i diritti di coloro che vivono nelle periferie e nel
centro degradato (a Napoli siamo in clima elettorale ed è facile essere strumentalizzati).
A nome dei preti della Sanità rispondo che tenteremo di accompagnare una tale
marcia, solo se i parroci che operano nelle zone a rischio, sia del centro come
delle periferie, decidono di essere a fianco di un popolo che vuole alzare la testa.
Così
lentamente noi preti della Sanità iniziamo
a contattare i parroci che operano nei quartieri popolari. Questa idea comincia a contagiare tanti di loro. Riusciamo
anche a trovare un parroco che accetta di essere il portavoce di questo popolo
in movimento, don Enzo Liardo.
Intanto, un altro fatto grave alla Sanità, rafforza le nostre motivazioni. Il 14 novembre, alle quattro del pomeriggio, di nuovo in piazza
Sanità, piena di gente, due giovanotti in moto, sparando all’impazzata,
colpiscono uno dei boss della droga nel rione, Pierino Esposito, pure lui in
moto (padre di Ciro, ventunenne, ammazzato il 6 gennaio 2015, sempre alla
Sanità). Ferito, cadde a terra, ma i killer lo raggiungono e gli spararono un
colpo alla nuca. Sentiti i colpi, insieme a Felicetta e Arcadio, francescano
che ora opera con noi, corriamo in piazza e ci troviamo davanti a un’altra
tragedia. Copro il corpo di Pierino con un lenzuolo. Nella sparatoria, un altro
giovane che stava lavorando, Giovanni, si è beccato una pallottola in pancia.
Viene portato subito all’ospedale, si salva per miracolo, ma la pallottola
resta in pancia, non potrà ritornare a lavorare. Giovanni è sposato con un
bimbo di otto anni.
Due
giorni dopo questo tragico evento, viviamo un momento forte, programmato
da tempo, che ci dà forza e coraggio per continuare il cammino: il
Patto delle Catacombe. Il 16
novembre molti sacerdoti, religiosi e laici impegnati di Napoli e fuori,
vengono nelle Catacombe di san Gennaro dei Poveri, situate nel Rione Sanità,
per pregare e firmare un documento di impegni seri per far sbocciare una chiesa
povera e dei poveri. In quella stessa data, cinquant’anni fa, una cinquantina
di vescovi che partecipano al Concilio (tra i quali il vescovo Luigi Bettazzi,
presente con noi quella sera) sono scesi nelle catacombe di Santa Domitilla a
Roma impegnandosi a uno stile di vita povero. Noi a Napoli abbiamo riformulato
quell’antico Patto delle Catacombe per risvegliare in questa metropoli la fame
e la sete di una chiesa povera capace così di camminare con gli impoveriti, gli
“scarti” del Sistema. “Ci impegniamo, in solidarietà con i poveri – così recita
uno degli impegni – a rimettere in discussione il nostro Sistema
economico-finanziario, i cui effetti devastanti tocchiamo con mano in questo
Sud così martoriato e impoverito: sostenendo in maniera nonviolenta nell’azione
pastorale, i movimenti popolari che si impegnano a favore dei diritti
fondamentali:lavoro, casa, terra!”.
E oggi?
In
questi mesi, negli incontri con i preti abbiamo lentamente focalizzato i
bisogni più urgenti della nostra gente, sempre più emarginata. In primo
luogo quelli della scuola pubblica che ha bisogno di essere potenziata in
termini qualitativi e quantitativi, una scuola di qualità, a
tempo pieno fino a sera. È questo il vero bastione contro le camorre. Poi
la sicurezza, non solo sulle strade (vigili, presidi di polizia), ma
soprattutto sicurezza sociale con politiche serie per gli esclusi, per gli
scarti della società. Infine un’attenzione particolare ai giovani (il 70 per cento
dei giovani qui è disoccupato) con inedite e nuove possibilità di lavoro. In
questi incontri come preti abbiamo anche maturato l’idea che non potevamo
essere capopopolo o preti anticlan, ma semplicemente camminare con un popolo
che aveva deciso di reagire. La lettera, infatti, che abbiamo poi scritto al
governo, porta il titolo ”Un popolo in cammino”. È quanto ci ha incoraggiato a
fare papa Francesco nei due discorsi ai movimenti popolari.
Su questo documento si sono ritrovate le realtà di base napoletane, dai
movimenti studenteschi a Libera, dai centri sociali ai comitati delle
“periferie” di Napoli. È con
questo coordinamento che abbiamo deciso la manifestazione del 5 dicembre. Quel
giorno sono scese in piazza Dante per marciare fino a piazza Plebiscito,
sette-ottomila persone, accompagnate da una cinquantina di preti dietro un
grande striscione: ”Un popolo in cammino, per la giustizia sociale, contro le
camorre”. Era la prima volta che i preti di tre zone a rischio della città
scendevano a fianco della loro gente. Con una splendida giornata di sole è
stata una gioia marciare per il centro di Napoli fino alla prefettura,
gridando: ”No alle Camorre”, ma anche chiedendo giustizia per il popolo che
vive nelle periferie. Come piccolo gruppo siamo saliti poi dal prefetto per
consegnargli la lettera, firmata dai parroci delle periferie e dalle
organizzazioni civili, “Un popolo in cammino.”
Il
prefetto, che ha riconosciuto che a Napoli si vive una “bomba sociale”, ha
promesso di inviare la lettera al consiglio dei ministri per chiedere un
intervento strutturale del governo, soprattutto per la scuola, la sicurezza e
per i giovani. Il prefetto ci ha promesso una risposta del governo entro fine
gennaio. Nel frattempo abbiamo deciso di promuovere un’assemblea cittadina
il 30 gennaio nella chiesa Santa Maria alla Sanità. Un cammino il nostro che continua ad essere funestato dal sangue. Il 31 dicembre sera è stato ucciso a Forcella, un altro rione a
rischio del centro, un giovane, Maikol, padre di due bimbi, mentre aspettava il
fratello che terminasse il suo lavoro da barista. Un altro innocente,
facilmente scambiato per un altro, Luigi Di Rupo, un pregiudicato, che è stato
poi ucciso il 5 gennaio in un negozio dove si vendevano ‘calze’ di dolciumi per
la befana È un massacro: 52 omicidi a Napoli lo scorso anno. Una faida senza
fine per mano delle camorre.
Noi siamo decisi a camminare con questo nostro popolo “scartato”. “Queste radicali verità della fede
diventano realmente vere – diceva il vescovo, martire del Salvador, monsignor
Oscar Romero -e verità radicali, quando la Chiesa si inserisce nel cuore
della vita e della morte del suo popolo. Si presenta dunque alla Chiesa, come a
ogni uomo, l’opzione fondamentale per la sua fede: essere in favore della vita
o della morte. Vediamo con grande chiarezza che, in questo, la neutralità è
impossibile. O serviamo la vita del popolo o siamo complici della sua morte. E
qui si dà la mediazione storica dell’aspetto fondamentale nella fede: o
crediamo in un Dio di vita o serviamo gli idoli di morte”.
È
questa la nostra missione oggi in questo Rione Sanità, in questa Napoli malamente, che ha tanta voglia di vivere.
Conosco da una vita p.Alex Zanotelli, da quando - negli anni '90 - era direttore di "Nigrizia", ottima rivista dei missionari comboniani. Poi l'ho seguito (metaforicamente) nella baraccopoli di Korogocho, periferia di Nairobi; infine l'ho conosciuto personalmente a Palermo, dove speravo rimanesse dopo Korogocho. Invece eccolo a Napoli, a fianco dei poveri e degli ultimi, a dire no alla camorra e sì alla giustizia sociale e al diritto a una vita dignitosa per tutti. Ce ne fossero mille di preti così ...
RispondiEliminabasterebbero anche la metà :)
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