Poiché considero la questione dei profughi centrale
per il futuro nostro e dell’Europa, cerco di chiarire e riassumere qui per
punti le posizioni che sono andato definendo approfondendo il problema nel
corso dell’ultimo anno e mezzo.
1. Migrazioni ed esodo di profughi sospinti in larghissima maggioranza
dalla guerra o dalla fame – all’origine delle quali c’è quasi sempre un
deterioramento ambientale o una contesa per il petrolio, che è il principale
responsabile della crisi ambientale in corso – sono la questione principale
intorno a cui si svilupperà il conflitto sociale, la lotta politica e il
destino stesso dell’assetto istituzionale dell’Italia, dell’Europa e del mondo
(su questo tema l’Unione europea, che aveva resistito compatta a politiche
micidiali di austerity, si sta ora dividendo profondamente. Cosa che mette
all’ordine del giorno una sua eventuale rifondazione su basi radicalmente
cambiate; ma non necessariamente più favorevoli a ciò che molti di noi
vorrebbero che fosse).
2. Le politiche di respingimento, sia quelle effettuate in maniera brutale,
con guerre, campi di concentramento o lasciando annegare sempre più persone,
sia quelle affidate ai cosiddetti rimpatri, non hanno avvenire. E non per
mancanza di appoggio da parte di un’opinione pubblica largamente manipolata e
di popolazioni infastidite o incattivite, che già sono e saranno sempre più
favorevoli a questa scelta. Bensì per una ragione pratica. Perché, anche a
prescindere dalle sue implicazioni etiche, il respingimento non è una soluzione
praticabile. Dove respingerli? Rigettarli tra le braccia dell’Isis, o di suoi
emuli, ormai presenti in quasi tutti i paesi da cui si originano quei flussi,
accrescendo del pari le loro forze sia là che, per solidarietà, tra gli immigrati
nei paesi europei? Non farebbe che moltiplicare sia i fronti di guerra fuori e
dentro i confini dell’Europa, sia nuove e più consistenti migrazioni. Stringere
accordi con i governi dei paesi di origine perché li riaccolgano o li
trattengono in patria? Non sono disposti a farlo nemmeno a caro prezzo (e il
prezzo è comunque destinato a salire, e di molto, mentre i paesi europei meno
esposti non sono assolutamente disposti a condividerlo). Lo ha dimostrato il
vertice di La Valletta e lo dimostra la fragilità del cinico patto stretto
dalla Commissione europea con Erdogan sotto la supervisione di Angela Merkel.
Costruire e gestire più o meno direttamente (anche se sotto il velo di un
coinvolgimento dei governi locali) dei campi di concentramento – e, in buna misura,
di sterminio – in cui rinchiudere tutte le persone in fuga o sbandate che
cercano di effettuare o stanno intraprendendo un viaggio verso l’Europa? Quei
campi raggiungerebbero presto dimensioni smisurate, e sempre più difficili da
gestire.
3. La prima conseguenza di queste politiche sarebbe comunque un
irrigidimento autoritario e razzista di tutti i governi dell’Unione Europea,
posto che questa sopravviva a scelte del genere, cosa che non credo. La seconda
conseguenza sarebbe l’instaurazione di fatto di un controllo paramilitare
dell’UE o di alcuni dei suoi Stati membri su tutti o gran parte dei paesi di
origine o di transito di quei flussi, per lo meno in Africa; il che, per
l’Europa, vorrebbe dire portarsi la guerra in casa. Ma l’esito più probabile di
una politica di respingimento è quello di scaricare sui paesi di primo accesso
che non possono erigere barriere fisiche ai confini (sostanzialmente Grecia e
Italia) tutto il peso dei nuovi arrivi, chiudendo nei loro confronti le
frontiere interne del resto d’Europa. Inutile dire che questo porterebbe
rapidamente alla saturazione delle capacità di accoglienza (per quanto sommaria
e mal gestita) di questi due paesi; ma anche delle loro capacità di
respingimento: i rimpatri diventerebbero ben presto “affar loro”, mentre gli
altri paesi membri “se ne lavano le mani”, come sta già succedendo con le
ridotte quote di riallocazioni definite dalla Commissione europea. E’ ciò che
di fatto sta già succedendo con il cosiddetto “decreto di espulsione
differita”: si abbandonano per strada senza soldi, senza documenti, senza
riferimenti, senza la conoscenza della lingua, persone a cui è stato ingiunto
di lasciare il paese a loro spese entro una settimana E’ come consegnarli alla
clandestinità, alla criminalità, allo stupro, alla disperazione e alle mafie.
Ma se è ancora possibile fare questo giochetto con alcune centinaia di
profughi, è evidente che non lo sarà più con le decine di migliaia che
arriveranno. L’Italia non ha una politica su questa questione, perché nonostante
le (molto recenti) uscite di Renzi sul tema, non ha mai posto il problema in
sede Europea nella sua dimensione e drammaticità effettive. Ma una prospettiva
del genere corrisponde alla dissoluzione dell’Unione.
4. Vediamo ora le cose in un’altra prospettiva. Di qui al 2050 l’Europa,
senza immigrazione, avrà perso 100 milioni di abitanti: un quinto della sua
popolazione attuale. Ma i 400 milioni restanti saranno sempre più vecchi. Il
che vuol dire un peso insopportabile su chi lavora e una drammatica stagnazione
economica (che non è la decrescita felice). Il maggior dinamismo dell’economia
statunitense, infatti, è riconducibile, più che alle politiche economiche
adottate, al continuo flusso di immigrati dall’America centrale e meridionale,
in linea di principio tutti o quasi illegali, e perciò più facilmente
sfruttabili; ma proprio per questo di fatto tollerati sia a destra che a
sinistra. Per colmare questo vuoto demografico l’Europa dovrebbe “importare”,
di qui al 2050, tre milioni di immigrati all’anno: il triplo dei profughi che
sono arrivati nel 2015. Potrebbe anzi assorbirne anche il doppio senza subire
alcun tracollo; ma cambiando ovviamente in modo radicale sia le sue politiche
economiche che quelle sociali. Peraltro, fino al 2008, arrivava in Europa un
milione di nuovi migranti economici all’anno, cioè quanti sono stati i profughi
quest’anno. Sono le politiche di austerità che, oltre a creare in Europa
milioni di nuovi disoccupati, hanno trasformato in un problema l’assorbimento
di nuove forze di lavoro proveniente da altri paesi. D’altronde, tra il 1945 e
la metà degli anni ’60 quattro paesi dell’Europa centrale, UK compreso, avevano
assorbito circa 20 milioni di profughi e di immigrati: 10 milioni dall’Est e 10
milioni dai paesi mediterranei dell’Europa, dall’Africa e dal Maghreb. La
minaccia di un sovraffollamento è dunque esclusivamente il frutto di politiche
economiche restrittive e, sul lungo periodo, suicide.
5. Naturalmente, per accogliere una massa così sterminata di profughi e
migranti i paesi europei dovrebbero attrezzarsi con politiche sociali ed
economiche radicalmente diverse da quelle attuali; le stesse, peraltro,
necessarie per assorbire la disoccupazione endogena e il disagio sociale (leggi
povertà) create dall’austerità. Ne deriverebbe comunque uno sconvolgimento di
tutti gli assetti sociali, in particolare della vita quotidiana di tutti i
cittadini europei; il che richiede una svolta nel modo di pensare il “diverso
da noi” che la cultura dominante non è assolutamente in grado di produrre, ma
che sarebbe urgente elaborare, mettere alla prova e promuovere, se non vogliamo
accettare senza contrastarla la deriva autoritaria, razzista, guerrafondaia e,
in ultima analisi, votata allo sterminio, implicita nelle politiche di
respingimento adottate, ancorché sotto la veste di varie quanto ipocrite
coperture umanitarie, da tutte le autorità europee.
6. E’ evidente che né il mercato né gli Stati sono in grado di assorbire
– e includere – un numero così alto di nuovi arrivati. Bisogna ricorrere ad altri
strumenti perché non c’è solo da trovare casa e lavoro per milioni di persone,
ma soprattutto da promuovere il loro inserimento nel tessuto sociale con
progetti personalizzati, in modo che non siano di peso per l’economia nel suo
insieme, ma anzi vengano valorizzati come una risorsa aggiuntiva (e
indispensabile) e non suscitino quei sentimenti di ripulsa che oggi la loro
presenza non programmata, ma soprattutto la loro inattività e il loro
isolamento, provocano tra la popolazione. Progetti personalizzati di questo
tipo sono l’ambito privilegiato delle attività del terzo settore (quello che in
Europa viene chiamata economia sociale e solidale). In Italia abbiamo ottimi
esempi di questo lavoro, ma anche clamorose prove della sua degenerazione in
organizzazioni come quelle di Buzzi (mero strumento o braccio armato della
corruzione e della criminalità che alligna nelle alte sfere della politica e
dell’amministrazione pubblica). Il 28 gennaio di questo mese si terrò a
Bruxelles il primo Forum europeo dell’economia sociale e solidale (SSE). E’
stato proposto che, tra le altre cose, venga messo all’ordine del giorno il
ruolo che la SSE può e deve assumere nei confronti del problema profughi,
lanciando un grande piano europeo per creare lavoro nei settori decisivi ai
fini della conversione ecologica (agricoltura, edilizia, energie rinnovabili,
mobilità, riassetto del territorio e assistenza alle persone). Un piano da
affidare alle imprese – esistenti o da costituire – della SSE, in modo che
l’inserimento lavorativo venga accompagnato da programmi personalizzati di
inclusione sociale. Questa proposta è stata ascoltata con interesse ma non è
stata sviluppata in modo adeguato. Nonostante tutto, nella maggioranza dei
paesi europei, per lo meno nell’ambito della cosiddetta sinistra che fa capo al
GUE, promotore del Forum, la centralità del problema dei profughi non viene
ancora avvertita con l’urgenza che meriterebbe. Aggiungo che un piano di questo
genere potrebbe avere un risvolto di grande interesse anche nell’ambito delle
politiche di cosiddetto rientro, di cui parlerò in seguito.
7. Questo non vuol dire ovviamente accettare l’irreversibilità dei
processi migratori verso l’Europa, anche se nel breve periodo non vedo
alternative all’accoglienza se non nella moltiplicazione delle stragi affidate
al mare, alla fame e alle intemperie. La prospettiva di creare le condizioni
per ridurre le spinte all’emigrazione dai paesi colpiti dalla miseria e dalla
guerra non deve essere abbandonata. Il che vuol dire innanzitutto battersi e
mobilitarsi per evitare il moltiplicarsi delle guerre, “umanitarie” o no, nei
paesi che oggi ne sono investiti e in quelli che rischiano di esserlo domani.
Ma il problema centrale è quello di creare dei circuiti in base ai quali agli
arrivi possano corrispondere, anche se in misura minore, ma non irrilevante,
dei ritorni volontari e delle motivazioni forti per farlo. Occorre considerare
l’Europa e i paesi africani, ma anche quelli mediorientali, da cui provengono
oggi i profughi e i migranti come un’unica grande area attraversata da
interscambi non solo economici (necessariamente squilibrati per molto tempo
ancora), ma anche culturali, sociali e civici. Quei confini dell’Europa che
l’Unione vorrebbe allargare riducendo i paesi di origine dei flussi migratori
in avamposti della sua trasformazione in fortezza, occorre invece riuscire a
farli percepire e vivere, innanzitutto nella coscienza dei cittadini europei,
dei profughi e dei migranti di prima, seconda e terza generazione, come il
perimetro di una nuova comunità euromediterranea ed euroafricana. Ma come? Dire
che occorre “bonificare l’Africa” per fermare quei flussi è davvero troppo
poco.
8. Possiamo interpretare lo slogan “Aiutiamoli a casa loro” in tre modi.
Il primo è quello delle politiche di cooperazione allo sviluppo attuali,
peraltro sempre più tirchie (non solo da parte italiana) quanto a stanziamenti,
e destinate in larghissima parte (non solo da parte italiana) a far ingrassare
imprese europee con finalità predatorie, a corrompere le classi dominanti
locali (o addirittura a crearle e farle esistere come classi predatorie;
“compradore” si diceva una volta) e a disperdere il resto in mille rivoli
scarsamente efficaci. Anche quando i progetti di cooperazione sono ben fatti e
ben condotti (non è la maggioranza dei casi, ma ci sono anche quelli; e a volte
le ragioni del loro fallimento vanno ricercate nelle scelte di chi li governa,
aprendo e chiudendo senza alcuna logica che non sia l’interesse personale i
rubinetti dei finanziamenti), quei progetti sono comunque sempre iniziative di
nicchia, che non incidono sulla dimensione effettiva dei problemi che stanno
alla radice dell’esodo, e soprattutto non si confrontano con la dimensione del
disastro ecologico che i cambiamenti climatici stanno già provocando in molti
paesi dell’Africa e del Medioriente. Il secondo modo è quello invocato da
Salvini (ma, ahimè, sostenuto anche dalla Merkel) per cui stanziamenti anche
molto più consistenti, posto che si trovino, vanno destinati prioritariamente a
trattenere (e internare) profughi e migranti in strutture appositamente
costituite nei paesi di origine o di transito dei flussi. Che ciò significhi
nient’altro che dichiarare guerra ai migranti si è già detto. Il terzo modo è
tutto da costruire perché mira a rendere le comunità espatriate in Europa, cioè
i profughi e i migranti (di prima, ma anche seconda e terza generazione)
protagonisti di una politica di ricostruzione di un tessuto sociale ed
economico in grado di offrire delle prospettive di maggior benessere anche agli
abitanti dei paesi di origine. Profughi e migranti sono in gran parte la
componente più istruita, più giovane, più intraprendente (quelli che hanno
avuto la forza e l’iniziativa di affrontare un viaggio così pericoloso) della
popolazione da cui provengono: un apporto che l’economia, la cultura e le
società dell’Europa potrebbero valorizzare molto, mentre oggi lo svalutano, lo
disprezzano e lo degradano. Ma soprattutto sono una risorsa strategica per la
costruzione di una grande comunità euroafricana ed euromediterranea. Sono
persone che ancora intrattengono forti legami con le loro comunità di origine,
o che possono facilmente riattivarli; che in Europa possono costruirsi o
affinare delle competenze, delle conoscenze, delle professionalità, delle esperienze
da mettere a disposizione dei loro paesi di origine con grande vantaggio per
tutti, qualora se ne creino le condizioni. Non solo per reinserirsi nei loro
paesi di origine, andando a occupare posizioni già esistenti, ma per creare
opportunità e modalità di produzione di reddito e di ricchezza completamente
nuove.
9. Condizione indispensabile perché ciò avvenga è che le comunità
nazionali espatriate presenti in Europa possano organizzarsi, anche
politicamente, siano libere di muoversi, siano aiutate a fare esperienza non
solo di lavoro, ma anche di relazioni sociali nuove nei paesi e nei territori
che le ospitano. Perché solo così si può innescare un circuito che renda
desiderabile e praticabile un ritorno in patria anche mentre nuove leve la
stanno abbandonando per mettersi anche loro alla prova dell’emigrazione. Prima
ancora di pensare ai finanziamenti, o anche a progetti di cooperazione allo
sviluppo – in gran parte pensati e progettati dall’esterno – occorre lavorare
con le comunità di profughi e migranti nella prospettiva di aiutarli a rendersi
attori e protagonisti di un nuovo processo di integrazione delle economie e
delle società dei paesi di origine e di quelli di arrivo. Non credo che
esistano alternative a una prospettiva del genere che non siano quelle
prospettate nella prima parte di queste note; anche se realizzarla, soprattutto
nel clima di ostilità crescente nei confronti degli immigrati che stiamo
vivendo, sarà sempre più difficile.
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