dare un nome alle persone è il primo passo
per farle esistere, per conoscerle.
gli undici morti erano vivi, sono stati
bambini, sono cresciuti, sono voluti fuggire dal loro paese, non ne hanno visto
altro, in un'agonia interminabile.
Baba, Amdy, Bilal, Laamin, Momar, Pape,
Ibou, Djibril, Ibra, Mor, Sajoro sono gli undici sfortunati viaggiatori.
adesso sono nelle parole di Savina
Dolores Massa, per sempre, sono comunque arrivati a noi, in qualche modo.
se vi piacciono le storie a lieto fine
questo libro non fa per voi, non ci sono trucchi, si sa già dall'inizio.
cercate il libro, non ve ne pentirete.
buona lettura - franz
questo è il fatto da cui inizia il libro:
Una barca di sei metri, bianca, senza nome
e senza bandiera. E’ un pescatore ad avvistarla alle cinque del mattino del 29
aprile a 76 miglia di Ragged Point, la punta più orientale delle isole
Barbados. Dondola tra le onde, nessuno la governa, anche se a bordo
s’intravedono degli uomini. Sono sdraiati sul ponte, immobili. Il pescatore
chiama la Guardia Costiera. Alle sei della sera, la piccola barca bianca,
trainata da una motovedetta, entra nel porto di Bridgetown. A bordo ci sono i
corpi quasi mummificati di undici uomini neri.
(Giovanni Maria Bellu, La Repubblica, 4
giugno 2006)
Savina Dolores Massa si presenta:
Sono una donna venuta al mondo oltre mezzo secolo fa.
Rabbrividisco solo a pensarlo. Fino al 1997 i miei soli gesti scritti si
erano limitati ai temi scolastici, alle lettere d’amore, e ai diari
adolescenziali. In compenso leggevo parecchio, infatti sono assai miope e
astigmatica e presbite dagli ultimi anni. Non sono strabica, però certe volte
il colore dei miei occhi rasenta il giallo: questo va detto ai fini della
comprensione della mia scrittura.
Quando nel gennaio ’97 morì mio padre, mancava un quarto
d’ora perché fossero le undici di notte. Non fu solo un dolore, fu uno
schianto. Quando iniziai a perdonare la vera maleducazione della vita, quando
iniziai a ritrovarmi passo e sorriso, lì divenni, ancora inconsapevolmente,
scrittrice. Il volto, le smorfie, il carattere di babbo stavano penetrando in
una foschia che mi atterrì. Dovevo salvarlo, tutto qui. Sapevo che la memoria
non mi avrebbe sempre camminato accanto, ma la carta scritta poteva diventare
immortale. Non mi sfiorò minimamente l’idea di pubblicare. Scrivevo “memorie”
ogni giorno e ogni notte, ascoltando – ciascuno ha i propri deliri – Casta
Diva. Capii anche che laddove i ricordi sbiadivano, sapevo inventare. Mi
ritrovai un romanzo tra le mani senza capirlo tale. E poi poesie a centinaia. E
ancora storie. Realizzai, impazzendo, che niente altro al mondo mi piaceva
fare: raccontare. Intanto gli anni passavano. Lasciai lavoro, amici, fidanzati.
Non avevo figli da accudire. Tutto in me mutò in maniera irreversibile. Se devo
fare una dichiarazione idiota, qui la faccio: ero davvero felice solo nel gesto
della creazione. Nel 2001 inviai due romanzi alla casa editrice Il Maestrale di
Nuoro. Sapevo che davano una risposta in sei mesi. Attesi. Di mesi ne passarono
alcuni in più. Nel frattempo non inviai a nessun altro, volevo per me solo Il
Maestrale. Attesi gettandomi sul letto spesso, a piagnucolare il fallimento.
Però scrivevo sempre, partecipando a concorsi poetici. Alcuni li vincevo.
Arrivavo comunque finalista. Mi dicevo, Forse vali. Tuttora non saprei definire
perfettamente il concetto di valere applicato alla mia persona, va beh.
Finché un bel giorno trovai una mail. Il mio PC si fece a
stelle. Non mi avrebbero pubblicato, però – e questo era il motivo della
ritardata risposta – non mi volevano perdere, semplicemente dovevo ancora
crescere. Scrivi ancora, diceva la letterina. Non diceva, Prosegui a contare
pecorelle quando non sai addormentarti.
Credo che in quel momento i miei capelli si fecero rasta
soli soli. È vero, la sola scrittura mi indorava, ma la comprensione altrui di
essa ancora di più: non faccio ipocrisia. Nel giugno 2006 iniziai a scrivere il
romanzo Undici, dopo aver letto un articolo sul quotidiano La Repubblica. Il
giornale narrava brevemente di undici giovani uomini neri ritrovati su una
barchetta al largo dei Caraibi. Mummificati. Nessun nome, solo un’ennesima
tragedia tra i mari. Quel divenire “quasi niente” su un articolo di cronaca mi
offese. Cercai affannosamente dentro di me le loro voci, e giunsero. Fui undici
vite, e memorie, e paure nell’oceano. Fui le loro morti. Credevo allora che mai
sarei riuscita a rientrare in me stessa. Non mi sbagliavo. Ancora oggi io sono
Sayoro, Baba, Bilal e tutti gli altri.
Inviai il nuovo manoscritto a Il Maestrale,
contemporaneamente al Premio Calvino. Mentre l’editore valutava, Undici arrivò
tra i finalisti al Premio. Il giorno della premiazione Torino sapeva di sperma
in alcuni cespugli, non lo scorderò mai. Fui accolta festosamente dal Gruppo
Lettori del Premio. Mi dissero d’aver scommesso su una mia lunga permanenza in
Africa per poter scrivere Undici. Risposi, da piccola provinciale quale sono,
Non mi sono mai mossa da casa.
Non vinsi il Calvino. Un Lettore desolato mi disse in
confidenza, forse mentendo per consolarmi, La Giuria ha preferito favorire un
giovane.
La sala delle premiazioni del Calvino ha lampadari a gocce
immensi. Ricordo d’aver strizzato forte i miei occhi gialli affinché
precipitassero sul tavolo dei Giurati. Invece restarono avvinghiati al
soffitto. Fuori, quei particolari cespugli di Torino, sghignazzavano. Gli
abbaini però erano bellissimi. Tornai comunque fiera di me nella mia isola, non
ero sola: undici uomini mi baciavano le ossa.
Alcuni giorni dopo la casa editrice mi chiamò,
Pubblicheremo Undici, ma non perché sei arrivata al Calvino. Lo pubblicheremo
perché piace a noi.
Devo dirlo: dal telefono schizzò fuori un meraviglioso
profumo di zagare. In quel momento mi sentii moglie, e figlia. Mio padre era
tornato.
Quando il romanzo fu nelle librerie, ovviamente provai a
nascondermi. Il giudizio mi atterriva. Quando si scrive si è soli, ed è
rassicurante. L’esposizione della mia persona tramite pagine stampate mi
imbarazzava peggio del mettermi in calze a rete accanto al fuoco di una strada.
L’unico luogo in cui potessi rifugiarmi per salvarmi, lo
capii presto, fu me stessa. Così avvolta andai, di fronte a chi avrebbe
imparato ad amarmi e a chi non ci sarebbe riuscito mai.
…Una
scrittura duttile e colloquiale caratterizza il romanzo; allo stesso tempo
acuminata, per nulla convenzionale per originalità e sintassi; in cui
avvertiamo rapprendersi improvvisa la parola, per farsi poesia e meta
letteratura: “il buono del parlare sta nel divagare; nell’aprire altre strade,
percorrerle, e tornare al punto da cui si è partiti solo se se ne ha realmente
voglia, o se ne ha voglia chi ti sta ascoltando. Tu dovrai incantare, e
pazienza se a volte ti sentirai addosso odore di fico stramazzato…” E ancora:
“Sfido la Poesia a cantare la vita, qui, se ce la fa. Ora la folla dei poeti mi
incute terrore. Che cantino le loro storie, loro. Cosa sono loro, loro mi
appaiono in tremori di sensi immobili, narcotizzati o pulsanti in acidi odori
d’urina di paura che è stata incontinente.”
Una scrittura sorprendente, spesso, questa di Savina Dolores Massa, che entra nel gorgo ematico di esistenze sconosciute per parlare a loro, come loro, e in nome loro con sensibilità rara, di sapienza antica così affine ad esse; da ascoltare e riascoltare, anche, come un monito indiretto, forte come un urlo nella notte, di questa nostra notte epocale: “Dovevamo restare a casa, tutti. Ciascuno dei nostri sogni potevamo realizzarlo in Africa. Nessun sapere nuovo poteva arricchirci, altrove”.
Questa è la loro lezione tardiva di sventurati; rivolta a noi per coglierla subito, per tempo, prima che sia troppo tardi.
Una scrittura sorprendente, spesso, questa di Savina Dolores Massa, che entra nel gorgo ematico di esistenze sconosciute per parlare a loro, come loro, e in nome loro con sensibilità rara, di sapienza antica così affine ad esse; da ascoltare e riascoltare, anche, come un monito indiretto, forte come un urlo nella notte, di questa nostra notte epocale: “Dovevamo restare a casa, tutti. Ciascuno dei nostri sogni potevamo realizzarlo in Africa. Nessun sapere nuovo poteva arricchirci, altrove”.
Questa è la loro lezione tardiva di sventurati; rivolta a noi per coglierla subito, per tempo, prima che sia troppo tardi.
…Con «Undici» l’autrice entra in sintonia
con quegli 11 giovani africani traditi e mai arrivati a destinazione. Savina
Dolores Massa, di Oristano (che con il suo libro è giunta finalista al Premio
Calvino del 2007) ridà vita agli 11 morti rimasti in fondo alla barca. Con uno
stile assolutamente lirico ricostruisce la storia di ognuno degli uomini
rimasti confinati nello spazio angusto del paragrafo di un quotidiano.
L’autrice sa che i morti continuano a esistere nella memoria dei vivi: prende uno a uno gli 11 e, prima che sopraggiunga la morte, li fa raccontare. Ci dicono il loro nome, rivelano il vissuto quotidiano con i loro desideri e aspettative. Veniamo a capire i sogni che li accompagnano nell’abbandonare il loro villaggio.
Sono undici storie diverse, tutte raccontate a Saroyo, un griot, anche lui sulla barca. A sua volta, il griot (poeta conta-storie che mantiene viva la tradizione orale della sua terra) parla alla kora, il suo strumento musicale.
L’autrice sa che i morti continuano a esistere nella memoria dei vivi: prende uno a uno gli 11 e, prima che sopraggiunga la morte, li fa raccontare. Ci dicono il loro nome, rivelano il vissuto quotidiano con i loro desideri e aspettative. Veniamo a capire i sogni che li accompagnano nell’abbandonare il loro villaggio.
Sono undici storie diverse, tutte raccontate a Saroyo, un griot, anche lui sulla barca. A sua volta, il griot (poeta conta-storie che mantiene viva la tradizione orale della sua terra) parla alla kora, il suo strumento musicale.
Negli undici capitoli del suo libro, Savina
riesce a restituire la dignità agli undici morti. Undici anonimi diventano
persone con un nome, con una provenienza (Senegal e Mali) persone che vengono
ricordate. Gli undici acquistano, grazie alla scrittrice, una propria
individualità che vibra nelle pagine del libro.
Uno dei compiti della letteratura è proprio
questo: dare visibilità agli esseri che non esisterebbero se non venissero
raccontati. La loro storia lascia la profondità del mare e si trasforma nel
libro-testimonianza di Savina, la scrittrice che essendo sarda vive circondata
dal mare. Lei va oltre la notizia del giornale, non fa tacere la sua emozione
quando chiude il giornale perché deve esprimere la sofferenza del morire in una
barca che affonda, lei che non era in barca.
Che libro intenso!
Chi legge «Undici» non potrà dimenticare la luce che emana
dalla scrittura di Savina Dolores Massa. Le sue parole scivolano nello spazio
bianco delle pagine come se respirassero quell’aria che era venuta a mancare a
Baba, Amdy, Ibra, Djibril e gli altri.
Del suo libro Savina ci dice: «So che non è
semplice definire Undici. In molti ci hanno provato. Qualcuno ha
voluto paragonarlo a un dipinto. Altri a Omero. Altri a Edgar Lee Masters.
Molti dicono che è scontroso e difficile. Altri che è troppo lirico. Altri che
è indefinibile. Si dice. Ma sono convinta che ogni libro, conclusa la
scrittura, smetta di appartenere al suo”creatore”. Divenendo proprietà del
lettore, ogni cosa si può dire su di esso. Così come un quadro o una musica. Undici cammina di mano in mano, io raramente dico
cos’è stato per me. A parte il mio personale “divenire” morto in mare per
undici volte, e soffrirne le pene. In pochi comprendono questo».
Savina-griot-kora ha salvato gli undici
africani dalla vera morte che è l’oblio.
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