I primi risultati dell’autopsia a Giulio Regeni, che datano la
morte a poche ore prima del ritrovamento del corpo, affermano senza equivoci
che il dottorando friulano è stato per circa nove giorni un
detenuto-desaparecido nelle mani di qualche polizia o corpo paramilitare della
dittatura amica di Al Sisi, al quale l’ambasciatore Massari rende addirittura
il merito per aver contribuito a ritrovarne i resti.
In questi nove giorni Regeni è stato torturato, umiliato,
massacrato, ma è rimasto in vita extragiudizialmente in una caserma o in una
prigione clandestina all’interno di un contesto tutt’altro che caotico, ma
organizzato e metodico come è SEMPRE organizzata e metodica la repressione del
dissenso nei regimi di polizia quali quello egiziano. Dei discorsi di oggi, in
presenza del corpo massacrato di Giulio, delle richieste di verità importa
poco, ministro Gentiloni. È di quando la notizia faceva fatica a farsi strada
che dovremmo parlare. Lo sapete o no che, con Giulio ancora in vita, i messaggi
sui social che si appellavano a #whereisgiulio, compresi i miei se posso,
raccoglievano un infinitesimo di condivisioni rispetto a qualunque stupidaggine?
Durante i nove giorni nei quali Giulio Regeni è rimasto vivo nelle
mani dei suoi torturatori, un gran numero di persone, con vari livelli di
responsabilità, all’interno della catena di comando che da Al Sisi portava giù
fino a chi gli ha spezzato l’osso del collo, e poi ha buttato i suoi resti in
quel fosso della periferia del Cairo, sapevano chi fosse e dove fosse. Qualcuno
ha sequestrato Giulio Regeni extragiudizialmente, qualcuno gli ha
presumibilmente estorto informazioni con la tortura, qualcuno ha avuto interesse
a tenerlo in vita per nove giorni e infine deciso che dovesse morire. Qualcuno
ha ritenuto più opportuno che il corpo fosse ritrovato invece di farlo sparire
per sempre. Tutte queste persone fanno parte di un’organizzazione criminale
nota che chiamiamo “Terrorismo di Stato”. Quando il Terrorismo di Stato è
applicato da governi amici, non necessariamente dittatoriali, come fu per il
GAL spagnolo, si chiude sempre un occhio.
Tutto ciò dimostra che Giulio poteva essere salvato. Bastava
toccare i fili giusti; e sia il corpo diplomatico che i servizi segreti sono
pagati per saperli toccare. Nelle strade può succedere di prendere una
pallottola destinata ad altri, ma nelle camere di tortura non si muore per
sbaglio o per caso. Fosse morto immediatamente, avremmo ancora potuto
nasconderci dietro a un dito. Ma nove giorni è durato il calvario del ragazzo.
Quanta pressione la Farnesina e il governo italiano hanno messo
sul governo egiziano in quei nove interminabili giorni nei quali Giulio
agonizzava nelle mani degli aguzzini? Quanti titoli sui giornali ci sono stati
sulla sua sparizione dal 25 gennaio al 3 febbraio, mentre il supplizio di
questo ragazzo italiano si compiva? Perché finché era in vita non è diventato
un caso nazionale? Quanta pressione ha messo l’opinione pubblica sui giornali e
sulla politica perché in ognuno di quei nove lunghissimi giorni è stato
possibile salvargli la vita e non è stato fatto? Perché Giulio Regeni non è
diventato il fratello e il figlio di tutti, come lo diventò Valeria Solesin assassinata
il 13 novembre al Bataclan di Parigi? Perché non era un marò o un giornalista
con l’articolo uno ma un lavoratore precario della ricerca nelle neglette
scienze umane e sociali? Era uno che se l’è cercata, che faceva un’inutile
ricerca su chissà chi, stando a spasso per il mondo a spese del governo
inglese? Perché il detenuto-desaparecido Giulio Regeni non era importante e il
morto ammazzato Giulio Regeni lo è almeno in parte diventato?
La risposta a tutte queste domande è scontata. La pressione fatta
dalla nostra ambasciata e dal nostro governo a un regime autoritario, al quale
abbiamo appaltato la tenuta dell’ordine in quell’area disordinata e firmato
lucrosi contratti, non è stata sufficiente a salvargli la vita. Il governo
egiziano è sì un’idra, ma bisogna avere pazienza. I giornali non sono
pervenuti, i corpi intermedi, associazioni e movimenti sono stati bastonati per
anni nella loro credibilità e forse l’hanno davvero un po’ perduta, l’opinione
pubblica da tempo non ha più un’agenda autonoma dal potere mainstream,
nonostante la Disneyland dei social network farebbe pensare il contrario.
La non fatalità della morte di Giulio Regeni rende così ancora più
emblematico il suo caso. Giulio paga il voler capire e studiare un mondo, nel
suo caso quello arabo, che all’italiano e all’occidentale medio viene
rappresentato come il regno degli stereotipi, tutti negativi, come testimoniò
il famoso editoriale di Maurizio Molinari su «La Stampa» sui presunti
stupratori di Colonia. È questo il grande inganno della cosiddetta libertà di
stampa, non deviare mai da una rassicurante conferma degli stereotipi e delle
semplificazioni accomodanti. Chi come Giulio consuma scarpe per capire realtà
complesse e smontare stereotipi non è utile, anzi.
Non solo sui giornali, anche nell’università italiana non c’era
posto per Giulio Regeni, nel Paese che da decenni forma studiosi e li regala,
alla Gran Bretagna, alla Francia, alla Germania, perché ha deciso di
disinvestire sulla comprensione del mondo. A cosa serve studiare l’Egitto? Li
regala l’università italiana questi studiosi, così come ha regalato il battito
del cuore di Giulio ai suoi aguzzini per quei nove interminabili giorni. Nel
frattempo, quegli stessi che nell’era Bush si erano riempiti la bocca della
retorica perversa dell’esportazione della democrazia, oggi si contentano di
sostenere i nostri “figli di puttana”, da Al Sisi a Erdogan, come degli
Anastasio Somoza qualsiasi, e la grande stampa dà loro ragione: ci vuol
pazienza con Al Sisi, scrivono quelli abilitati a scrivere sui giornali. Meglio
lui che il caos per quei popoli incivili. Purtroppo sì, in questo mondo e in
questa Italia Giulio Regeni se l’era cercata.
Ho riportato il link all'articolo di Carotenuto e a questo tuo post nel mio blog. Grazie.
RispondiEliminae io ho messo la poesia sul blog :)
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