Ho letto su
Comune l’articolo di Franco Berardi Bifo, Slump. La crescita non tornerà mai
più (molto letto, condiviso e discusso in rete, ndr), e
ne condivido tutte le considerazioni, in particolare che il tempo della crescita è finito e che di occupazione, intesa alla sua maniera, questo sistema non ne crescerà più.
Nel contempo, però, dobbiamo stare attenti a non convalidare questo sistema né
dare l’impressione che anche noi ci aggiungiamo all’esercito di Tina, There
is no alternative. L’alternativa, invece c’è e la dobbiamo
rivendicare cominciando a denunciare tutti i fallimenti e i rovesci di questo
sistema. Un’operazione che deve necessariamente partire dal linguaggio.
Questo
sistema è in crisi e questo tutti lo sanno. Il problema è capire perché.Per autoassolversi il sistema parla di
eccesso di produzione, quasi si trattasse di in un errore di calcolo nella
valutazione dei bisogni. Ed anche noi, senza chiederci se l’affermazione
sia vera o falsa, ripetiamo a pappagallo la stessa spiegazione. Ora va detto
chiaro e tondo che a questo sistema dei bisogni della gente non
importa un fico secco. Gli
interessano solo le vendite per i guadagni che può procurare ai mercanti. Per
cui la realtà la interpreta solo con gli occhi dei mercanti che quando si accorgono che di non riuscire a vendere tutto ciò
che producono parlano di eccesso di merce. Poi magari andando a
vedere come sta veramente la gente potremmo scoprire che molti vivono in una
tale miseria da richiedere non solo ciò che è avanzato nei magazzini, ma molto
di più. Una situazione non dissimile da quella che viviamo oggi: mentre il sistema dice di essere in crisi da
sovrapproduzione, le Nazioni unite ci informano che un miliardo di persone
soffre di denutrizione, che tre miliardi di persone
non dispongono di servizi igienici, che ottocento milioni di persone non hanno
accesso all’acqua potabile. E la lista potrebbe continuare con gli
analfabeti, i senza tetto, i senza cure eccetera, eccetera.
Il termine giusto per descrivere la crisi del sistema, intesa come
malfunzionamento, è mala distribuzione. Mentre il termine giusto per descrivere il suo
fallimento, inteso come disastro sociale e ambientale, è mala impostazione. Da un punto di vista funzionale la crisi del sistema è dovuta a una
distribuzione della ricchezza sempre più iniqua che ha ridotto a tal punto la
massa salariale mondiale da aver avuto come effetto finale una riduzione dei
consumi. Basti dire che fra il 1975 e il 2015 la quota di prodotto
mondiale tolta ai salari a vantaggio dei profitti è stata dell’ordine del 10
per cento. Se aggiungiamo le risorse sottratte agli Stati sotto forma di
evasione fiscale (tramite i paradisi fiscali) e sotto forma di interessi pagati
sul debito pubblico, otteniamo uno spostamento enorme di ricchezza a vantaggio
dei capitalisti, che non potendo espandere i propri consumi all’infinito, hanno
provocato una caduta degli acquisti.
Potremmo
proseguire dicendo che per tamponare
la situazione il sistema ha cercato di garantirsi un’alta domanda incoraggiando
il debito. Ma a forza di accumulare debiti, poi arriva il momento
in cui non si possono più pagare e tutto viene giù provocando non solo
l’arresto del sistema economico con conseguente caduta di tutti i prezzi
compresi quelli di risorse scarse comepetrolio e
minerali, ma anche la caduta delle banche,
delle borse e dei bilanci pubblici. Capitomboli che alimentano ulteriormente la
crisi. Esattamente come sta succedendo ai nostri giorni, prima con una crisi che avuto come epicentro gli Stati, poi con
una crisi che ha avuto come epicentro la Cina. In ambedue i casi per il tentativo di fare correre il cavallo
economico sotto la frusta del debito, che poi si è avvolta attorno al collo del
cavallo strozzandolo.
Ben più
grave il fallimento del sistema da mala impostazione. Al di là delle fanfare, questo sistema è organizzato solo per garantire affari alle grandi
imprese sempre più orientate alla produzione di beni ad alta tecnologia.Una
scelta di per se escludente perché coinvolge solo la parte di umanità con
redditi medio alti, lasciando tutti gli altri alla deriva. Così abbiamo prodotto un pianeta con una
minoranza che gozzoviglia e una maggioranza che non ha ancora conosciuto il
gusto della dignità umana. Preso complessivamente questo pianeta
non ha più spazi di crescita, anzi deve diminuire come mostrano i dati sull’impronta ecologica e
sull’accumulo di anidride carbonica. Ma analizzando le singole situazioni,
scopriamo chel’obbligo di
decrescere vale solo per la parte di umanità in sovrappeso.
Quanto agli
scheletrici hanno diritto ad avere di più, ma potranno farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi a cura dimagrante e
solo se tutti insieme cambiamo impostazione economica. Non più
produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma
produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che
programma. In una condizione di risorse scarse e di ambiente fortemente
compromesso, la nostra pretesa libertà di produrre di tutto di più lasciando al
portafoglio di ognuno di stabilire cosa comprare non funziona più. Nell’economia del limite la giustizia si garantisce fissando le
priorità, che vuol dire programmazione, e predisponendo forme di produzione e
distribuzione che garantiscono i bisogni fondamentali a tutti, che significaproduzione di comunità con godimento gratuito
da parte di tutti.
Un numero crescente di persone comincia a capire che per garantirci un
futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma pochi hanno messo a fuoco che la vera scelta è fra mercato individualista e
comunità solidale. Su questo, però, è bene saperlo, si gioca il nostro
avvenire e la nostra civiltà.
da qui
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