Quando Julio Cortázar è morto di cancro
nel febbraio del 1984 all’età di sessantanove anni, il quotidiano di Madrid El
Pais lo acclamò come uno dei più grandi scrittori latino-americani
pubblicando su due giorni undici pagine piene di tributi, ricordi e addii.
Benché Cortázar abbia vissuto a
Parigi dal 1951, ha regolarmente visitato la natia Argentina finché non è stato
ufficialmente esiliato nei primi anni 70 dalla giunta argentina, risentita per
alcuni suoi brevi racconti. Con la vittoria dello scorso autunno del
governo di Alfonsín per mezzo di elezioni democratiche, Cortázar ha avuto la
possibilità di fare un’ultima visita alla suo paese d’origine. Il ministro
della cultura di Alfonsín ha scelto di non dargli alcun benvenuto ufficiale,
temendo che le sue vedute politiche fossero troppo a sinistra. Ma lo
scrittore è stato nondimeno salutato come un eroe al rientro. Una notte, a
Buenos Aires, uscendo da un cinema dopo aver visto un nuovo film basato
sul romanzo di Osvaldo Soriano “No habrá más penas ni olvido” (Mai più pene nè
oblio), Cortázar e i suoi amici hanno incontrato degli studenti che
manifestavano, e questi, intravedendo lo scrittore, gli hanno fatto largo nel
corteo accalcandosi intorno a lui. Le librerie sui viali erano ancora aperte e
gli studenti si sono affrettati per fare incetta delle copie dei libri di
Cortázar affinché potesse autografargliele. Un edicolante, scusandosi di non
avere più libri di Cortázar gli ha offerto un romanzo di Carlos Fuentes da
autografare.
Cortázar è nato a Bruxelles nel 1914.
Quando, dopo la guerra, la sua famiglia fece ritorno in Argentina, lui crebbe a
in Banfield, non lontano da Buenos Aires. Conseguì una laurea come
insegnante di scuola e andò a lavorare in una città della provincia di
Buenos Aires fino agli inizi degli anni 40, per giunta scrivendo per se
stesso. Una delle sue prime storie pubblicate –“Casa tomada”(La casa presa) -
originato da un suo sogno, apparse nel 1946 su una rivista curata da
Jorge Luis Borges. Comunque, è stato dopo il suo trasferimento a Parigi nel
1951 che ha iniziato a pubblicare sul serio. A Parigi, ha lavorato come
traduttore e interprete per l’UNESCO e altre organizzazioni. Tra gli autori da
lui tradotti, ci sono Poe, Defoe e Marguerite Yourcenar. Nel 1963,è con il suo
secondo romanzo - “Rayuela” (Il gioco del mondo) –, sulle ricerche
metafisiche ed esistenziali dell’Argentina attraverso la vita notturna di
Parigi e Buenos Aires, che s’é creato il nome di Cortázar.
Sebbene sia conosciuto soprattutto come
uno dei maestri moderni del racconto breve, i quattro romanzi di Cortázar hanno
dimostrato una pronta innovazione di forma, mentre, allo stesso tempo,
esploravano questioni basilari sull’uomo nella società. Questi comprendono:
“Los premios” (1960); “62: modelo para armar” (1968), in parte basato sulla sua
esperienza di interprete; e “Libro de Manuel” (1973), sul rapimento di un
diplomatico latinoamericano. Ma sono le storie di Cortázar che hanno più
direttamente richiesto il suo coinvolgimento con il fantastico. Il suo più
celebre racconto ha fatto da base per l’omonimo film di Antonioni: Blow-Up.
Sinora, sono apparse cinque raccolte dei suoi racconti in inglese; la più
recente è “We Love Glenda So Much” (Queremos tanto a Glenda; Tanto amore per
Glenda). Poco prima di morire, è stato pubblicato un diario di viaggio – “Los
autonautas de la cosmopista, viaje atemporal París-Marsella”(Gli autonauti
della cosmo strada – viaggio atemporale sull’autostrada Parigi-Marsiglia) – in
cui ha collaborato con sua moglie,Carol Dunlop, durante un viaggio da Parigi a
Marsiglia a bordo di un camper. Pubblicato simultaneamente in spagnolo e
francese, Cortázar cedette tutti i diritti d’autore al governo sandinista del
Nicaragua: il libro da allora è un campione di vendite. Sono state pubblicate
anche due raccolte postume dei suoi articoli di carattere politico sul
Nicaragua e sull’Argentina.
Lungo tutto l’arco dei suoi anni d’esilio
a Parigi, Cortázar ha vissuto in diverse zone della città. Nell’ultimo
decennio, i diritti dei suoi libri gli hanno permesso di comperarsi una casa.
L’appartamento, in cima a un edificio in un quartiere di grossisti e di negozi
di porcellane, sarebbe potuto essere il teatro di una delle sue storie:
spazioso, benché affollato di libri e con le pareti foderate dai dipinti degli
amici.
Cortázar era un uomo alto – 1,95 mt –
benché più magro di quanto rivelino le sue fotografie. Gli ultimi mesi prima di
quest’intervista, sono stati particolarmente difficili per lui, dal momento che
Carol, la sua ultima moglie di trent’anni più giovane di lui, è recentemente
morta di cancro. Per di più, i suoi lunghi viaggi, specialmente in America
Latina, lo hanno ovviamente esaurito. Quando abbiamo iniziato a parlare, era
tornato a casa appena da una settimana, rilassandosi finalmente sulla sua
sedia preferita a fumare la pipa.
JASON WEISS: In alcune
delle storie del tuo libro più recente – Deshoras (Disincontri) – il
fantastico sembra sconfinare nel mondo reale più che mai. Ti sei sentito come
se il fantastico e il luogo comune divenissero una cosa sola?
JULIO CORTÁZAR: Sì, in quelle
storie ho avuto la sensazione come se ci fosse minore distanza tra ciò che
chiamiamo fantastico e ciò che chiamiamo reale. Nelle mie narrazioni
precedenti, questa distanza era maggiore, dato che il fantastico era davvero
tale e qualche volta toccava il sovrannaturale. E naturalmente, il fantastico
si accompagna alla metamorfosi, cambia. La nozione del fantastico che si aveva
all’epoca dei romanzi gotici in Inghilterra, per esempio, non ha niente a che
vedere con il concetto che ne abbiamo oggi. Ora noi ridiamo quando leggiamo il Castello
di Otranto di Horace Walpole: fantasmi vestiti di bianco, scheletri
che vanno in giro facendo rumori con le catene. Oggi, la mia nozione del
fantastico è più vicina a ciò che chiamiamo realtà. Forse, perché la realtà si
avvicina sempre di più al fantastico.
JW: Negli ultimi anni,
hai speso gran parte del tuo tempo per sostenere varie lotte di liberazione in
America Latina. Ti ha aiutato ad avvicinare il reale e il fantastico,
rendendoti più serio?
JULIO CORTÁZAR: Beh, non mi piace
l’idea di “serio”, perché non credo di essere serio, almeno non nel senso
comune di uomo serio o donna seria. Ma negli ultimi anni gli impegni relativi
ad alcuni regimi latinoamericani - Argentina, Cile, Uruguay e, soprattutto ora,
Nicaragua – mi hanno assorbito a tal punto che, secondo me, in determinate
storie ho usato il fantastico per trattare questo argomento in modo molto
vicino alla realtà. Quindi, mi sento meno libero di prima. Cioè, trent’anni fa
scrivevo cose che mi venivano in mente e le giudicavo usando solo criteri
estetici. Ora, sebbene continui a giudicarle con criteri estetici data la mia
natura primaria di scrittore, mi sento un autore tormentato, molto preoccupato
dalla situazione in America Latina; di conseguenza questo stato spesso scivola
nella mia scrittura, in maniera cosciente o incosciente. Malgrado le storie con
veri e propri riferimenti a questioni ideologiche e politiche, i miei racconti
non sono essenzialmente cambiati. Continuano a essere storie del fantastico.
Il problema per uno scrittore engagé, o
impegnato come li chiamano adesso, è di continuare a essere uno scrittore.
Se ciò che scrive diventa semplicemente letteratura dal contenuto politico, può
diventare veramente mediocre. Ed è ciò che è accaduto a molti scrittori.
Perciò, il problema è l’equilibrio. Per me, ciò che devo sempre fare è
letteratura, la più alta possibile. . . per andare oltre il possibile. Ma, allo
steso tempo, devo cercare di inserire una mescolanza di realtà contemporanea. E
questo risulta essere un equilibrio davvero difficile. Nel racconto contenuto
in Deshoras(Disincontri) sui topi, intitolato “Satarsa” - un
episodio basato sulla lotta contro le guerriglie argentine – la tentazione era
quella di rimanere al solo livello politico.
JW: Qual è stata la reazione a
questo tipo di racconti? Ti risulta una grande differenza tra le reazioni
ricevute dagli ambienti letterari rispetto a quelli politici?
JULIO CORTÁZAR: Certo. In America
Latina, i lettori borghesi indifferenti alla politica o quelli schierati con la
destra, beh, loro non si preoccupano degli stessi problemi che turbano me,
ovvero lo sfruttamento, l’oppressione e così via. Quelle persone si rammaricano
del fatto che i miei racconti prendano spesso una piega politica. Altri lettori
amano le mie storie; sono soprattutto quelli giovani e che condividono le
mie opinioni, il mio sentire, il mio bisogno della lotta e che adorano la
letteratura. I cubani apprezzano Reunión (Reunión. Che Guevara
e lo sbarco a Roma). Apocalisse di Solentiname è un racconto
che i nicaraguensi leggono e rileggono con grande piacere.
JW: Cos’è che ha determinato
l’intensificazione del tuo impegno politico?
JULIO CORTÁZAR: I militari in
America Latina: sono loro quelli che mi fanno lavorare più duramente. Se
venissero rimossi, se ci fosse un cambiamento, allora potrei riposarmi un pò e
mettermi a lavorare su poesie e racconti esclusivamente letterari. Ma sono
loro a fornirmi il lavoro da fare.
JW: In diversi momenti, hai detto
che per te la letteratura è come un gioco. In che senso?
JULIO CORTÁZAR: Secondo me, la
letteratura è una forma di gioco. Ma ho sempre aggiunto che esistono due forme
di gioco: il calcio, per esempio, che è fondamentalmente un’attività
ludico-sportiva, e poi esistono giochi che sono molto profondi quanto seri.
Quando i bambini giocano, benché si stiano divertendo, lo fanno molto
seriamente. È importante. È talmente importante per la loro età, così come lo
sarà l’amore dieci anni dopo. Ricordo di quando ero piccolo e i miei genitori
mi dicevano: “D’accordo, hai giocato abbastanza, ora vieni a farti il bagno”.
Lo trovavo completamente stupido, perché per me il bagno era un fatto sciocco.
Non m’importava di niente, ma giocare con i miei amici costituiva una cosa
seria. La letteratura è così: è un gioco, ma nel quale si può mettere in
ballo la propria vita. Si può fare tutto per quel gioco.
JW: Hai cominciato a interessarti
al fantastico già da giovane?
JULIO CORTÁZAR: È iniziato durante la
mia infanzia. La maggior parte dei miei compagni di classe non avevano alcun
senso del fantastico. Prendevano le cose per come erano . . . questa è una
pianta, questa una poltrona. Ma per me le cose non erano così ben
definite. Mi ha incoraggiato una persona molto fantasiosa e tuttora viva: mia
madre. Invece di dirmi “No, no, dovresti essere serio”, le faceva piacere che
usassi la fantasia; quando mi sono rivolto al mondo del fantastico, lei mi ha
aiutato regalandomi dei libri da leggere. Ho letto Edgar Allan Poe per la prima
volta quando avevo solo nove anni. E rubai quel libro, perché mia madre non
voleva, lei pensava che fossi troppo giovane per leggerlo. E aveva ragione: il
libro mi spaventò e mi ammalai per tre mesi, perché credetti alle cose che
avevo letto. . . croire dur comme fer, credere
ciecamente come dicono i francesi. Non avevo alcun dubbio che il fantastico
fosse assolutamente naturale. Ecco come sono andate le cose. E quando
diedi questo genere di libri ai miei amici, dissero “Ma no, preferiamo leggere
le storie dei cowboys” - cowboys che erano particolarmente popolari a quel
tempo. Non lo capivo. Preferivo il mondo del sovrannaturale, del fantastico.
JW: Quando poi, molti anni dopo,
hai tradotto l’opera completa di Poe, da questa lettura più ravvicinata sei
riuscito a scoprire cose nuove per te?
JULIO CORTÁZAR: Molte, molte cose.
Ho esplorato il suo linguaggio, criticato sia dagli inglesi che dagli
statunitensi perché ritenuto troppo barocco. Non essendo io né inglese né
statunitense, posso osservarlo da un’altra prospettiva. So che ci sono aspetti
superati, esagerati, ma questo non è niente in confronto al suo genio. A quei
tempi, scrivere The Fall of the House of Usher (La caduta
della casa degli Usher), Ligeia, Berenice o The
Black Cat (Il gatto nero), o qualunque di questi, dimostra un vero
genio per il fantastico e il sovrannaturale. Ieri, ho fatto visita a un amico
in rue Edgar Allan Poe. Sulla strada c’è una targa commemorativa che recita:
“Edgar Poe, scrittore inglese”. Lui non era affatto inglese. Dovremmo farla
cambiare e protestare tutti e due!
JW: In aggiunta al fantastico,
nella tua scrittura si trovano affetto e calore reali per i tuoi personaggi.
JULIO CORTÁZAR: Quando si tratta
di personaggi bambini o adolescenti, ho molta tenerezza nei loro confronti.
Credo che siano molto reali nei miei racconti; li tratto con molto amore.
Quando scrivo un racconto in cui il personaggio è un adolescente, io sono l’adolescente
mentre lo scrivo. Diverso è con i personaggi adulti.
JW: Molti dei tuoi personaggi si
basano su persone che hai conosciuto?
JULIO CORTÁZAR: Non direi molti,
ma qualcuno. Molto spesso ci sono personaggi che sono un misto di due o tre
persone. Per esempio, ho messo insieme un personaggio femminile da due donne
che ho conosciuto. E questo dona al personaggio nel racconto o nel libro una
personalità più complessa, più intricata.
JW: Intendi dire che quando senti
la necessità di ispessire un personaggio, ne combini due insieme?
JULIO CORTÁZAR: Le cose non
funzionano così. Sono i personaggi a darmi la direzione. Vale a dire: osservo
un personaggio – è lì – e vi riconosco qualcuno di mia conoscenza, oppure
occasionalmente due un pò mischiati tra loro. Ma lì finisce. Dopotutto, il
personaggio agisce per conto suo. Dice cose…Mentre scrivo un dialogo, di loro
non so mai cosa stanno per dire. In realtà, dipende da loro:
io mi limito a battere a macchina ciò che dicono. Delle volte, scoppio a ridere
o tiro via una pagina e dico: “Ecco, hai detto delle cose stupide. Via!”, e
inserisco un altro foglio e ricomincio daccapo il loro dialogo.
JW: Perciò, non sono i caratteri
che hai conosciuto a spingerti a scrivere?
JULIO CORTÁZAR: No, nient’affatto.
Spesso ho un’idea per una storia, ma ancora non ho i personaggi. Mi viene in
mente una strana idea: qualcosa sta per accadere in una casa di campagna, la
immagino…ho un grande senso visivo quando scrivo, immagino completamente la
scena: vedo tutto. Quindi, immagino questa casa di campagna e poi, all’improvviso,
comincio a ubicare i personaggi. A questo punto, uno dei personaggi potrebbe essere
qualcuno di mia conoscenza. Ma non è una cosa certa. Alla fine, la maggior
parte dei miei personaggi risultano essere inventati. E poi, naturalmente, ci
sono io. In Rayuela (Il gioco del mondo), ci sono molti
riferimenti autobiografici nel personaggio di Oliveira: non sono io, ma molto
deriva dai miei primi giorni da bohémien a Parigi. Tuttavia, chi legge Oliveira come il
Cortázar a Paris cadrebbe in errore. No, no, ero molto diverso.
JW: Questo è perché desideri che
la tua scrittura non sia autobiografica?
JULIO CORTÁZAR: Non mi piace
l’autobiografia. Non scriverò mai le mie memorie. Naturalmente, mi
interessano le autobiografie degli altri, ma non la mia. Se scrivessi la
mia autobiografia, dovrei essere sincero e onesto. Non saprei raccontare
un’autobiografia immaginaria. Quindi, dovrei fare un lavoro da storico,
diventare un auto-storico. E questo mi annoia, perché preferisco inventare,
immaginare. Naturalmente, accade molto spesso che, quando ho un’idea per un
romanzo o un racconto, situazioni e momenti della mia vita si collocano in
quel contesto. Nel mio racconto Deshoras (Disincontri), l’idea
del ragazzo innamorato della sorella maggiore del suo amico, in realtà è basata
su una situazione autobiografica; ma da lì in avanti, dominano il fantastico o
l’immaginario.
JW: Come procedi con l’inizio
delle tue storie? Usi un particolare passaggio, un’immagine?
JULIO CORTÁZAR: Con me, racconti e
romanzi possono iniziare dovunque. Come per la scrittura in sé, quando inizio a
scrivere, la storia mi è girata in testa per molto tempo, talora per settimane.
Seppure non in maniera chiara: è una sorta di idea generale della storia.
Magari quella casa dove c’è una pianta rossa nell’angolo e so che c’è un uomo
anziano che cammina intorno a quella casa. Questo è tutto quello che so. Succede
così. E poi ci sono i sogni. Durante questo periodo di gestazione, i miei sogni
sono pieni di riferimenti e allusioni a ciò che esisterà nel racconto. Alle
volte, l’intera storia è un sogno. Uno dei miei primi e più famosi racconti – Casa
tomada (La casa presa) – è un mio incubo che, appena risvegliato, ho
subito scritto. Ma, in generale, ciò che viene fuori dai sogni sono frammenti
di riferimenti. Vale a dire che, mentre sogno, la storia è scritta al suo
interno. Perciò, quando ho detto che le storie possono iniziare dovunque, è
perché, a quel punto, non conosco l’inizio o la fine. L’inizio è quando
comincio a scrivere. Non decido come deve iniziare una storia: semplicemente,
inizia lì, in quel momento, poi continua e, molto spesso, non ho una chiara
idea sulla fine, non sapendo ciò che sta per accadere. È con la gradualità,
mentre la storia và avanti, che le cose diventano più chiare e improvvisamente
vedo la conclusione.
JW: Quindi, scopri la storia mentrela
scrivi?
JULIO CORTÁZAR: Esatto. È come
l’improvvisazione del jazz. Chiederesti mai a un musicista jazz cosa sta per
suonarti? Ti riderebbe in faccia. Lui ha un tema, una serie di accordi che deve
rispettare; allora, prende in mano la sua tromba o il sassofono e parte. Non è
una questione di idea. Esegue la sua musica attraverso una serie di
diverse vibrazioni interne. Alle volte riesce bene, altre volte no. E lo stesso
è per me. Certe volte mi capita di essere un pò imbarazzato ad autografare i
miei racconti. Mentre non succede per i romanzi: ci lavoro molto e c’è
un’intera architettura. Ma per i miei racconti, è come se mi venissero dettati
da qualcosa che è in me di cui non sono responsabile. Beh, a quanto sembra
anche loro sono miei; quindi, credo di doverli accettare!
JW: Esistono degli aspetti nella
scrittura di un racconto che ti creano problemi?
JULIO CORTÁZAR: In generale, no,
perché, come spiegavo, il racconto è già creato da qualche parte in me. Quindi,
ha la sua dimensione e struttura; se diventerà un racconto breve o piuttosto
lungo, è come se fosse una questione decisa in anticipo. Ma, di recente ho
iniziato ad accorgermi di alcuni problemi. Scrivo più lentamente e rifletto di
più davanti al foglio. E scrivo in uno stile più sobrio, essenziale. Alcuni
critici mi hanno rimproverato per questo, dicendomi che a poco a poco sto
perdendo l’agilità nei miei racconti. Sembra che mi esprima con una
maggiore economia di mezzi. Non so se sia meglio o meno: in ogni caso, è
il mio stile attuale.
JW: Prima dicevi che per i romanzi
c’è un’intera architettura. Significa che lavori in maniera molto differente?
JULIO CORTÁZAR: La prima cosa che
ho scritto in Rayuela (Il gioco del mondo) è stato un capitolo
che ora si trova al centro del romanzo. Si tratta del capitolo in cui i personaggi
stendono un’asse di legno per andare dalla finestra di un appartamento a
un’altra. L’ho scritto senza sapere che lo stessi scrivendo. Ho immaginato i
personaggi, la situazione che si svolgeva a Buenos Aires. Faceva molto caldo,
ricordo, e stavo vicino alla finestra con la mia macchina da scrivere. Ho visto
questa situazione in cui un ragazzo cercava di far attraversare l’asse di legno
alla propria moglie – dato che non voleva farlo lui – per andare a
prendere delle cose inutili, dei chiodi. Ho scritto tutto; era lungo,
circa quaranta pagine; e quando ho finito, mi sono chiesto: “Bene, ma che ho
fatto? Siccome non è un racconto, che cos’è?”. Poi ho compreso di essere
lanciato in un romanzo, benché non avrei potuto continuare da quel punto. Dovevo
fermarmi e scrivere l’intera sezione di Parigi – quella che viene prima – che
costituisce l’intero retroscena di Oliveira. Quando finalmente sono arrivato a
questo capitolo dell’attraversamento dell’asse di legno, ho potuto riprendere a
scrivere da quel punto.
JW: Fai molte modifiche quando
scrivi?
JULIO CORTÁZAR: Pochissime. Ciò è dovuto
al fatto che la cosa è già stata elaborata dentro di me. Mi capita di vedere le
bozze di alcuni dei miei amici scrittori, dove tutto è modificato, tutto
cambiato, spostato, con frecce dovunque….. no, no, no: i miei manoscritti sono
molto puliti.
JW: José Lezama Lima in Paradiso fa
dire a Cemí che “il baroccco . . . è ciò che riveste un vero
interesse in Spagna e in America Latina”. Perché pensi che sia così?
JULIO CORTÁZAR: Non posso
rispondere da esperto. Vero: il barocco risulta enormemente importante in
America Latina, nelle arti come pure in letteratura. Il barocco può offrire una
grande ricchezza: lascia che l’immaginazione si elevi nelle sue svariate direzioni
vertiginose, come in una chiesa barocca con i suoi angeli decorativi e tutto il
resto, o come nella musica barocca. Ma io diffido del barocco. Gli autori
barocchi, molto spesso, si lasciano andare troppo facilmente nella loro
scrittura, scrivendo in cinque pagine ciò che potrebbe benissimo esser scritto
in una sola. Anche io devo essere caduto nel barocco date le mie origini, ma ne
ho sempre diffidato. Non mi piacciono le frasi ampollose e voluminose, piene di
aggettivi e descrizioni, che ronzano continuamente nell’orecchio del lettore.
Ma so che è anche molto affascinante. È molto bello, ma non mi appartiene.
Mi situo più sulla sponda di Jorge Luis Borges; lui è sempre stato un nemico
del barocco: stirava il suo stile, quasi con delle pinzette. Beh, scrivo in
modo molto diverso rispetto a Borges, ma mi ha insegnato una grande lezione di
economia. Da giovanissimo, quando ho incominciato a leggerlo mi ha insegnato
che bisogna cercare di esprimersi con economia, una magnifica economia. Forse,
è la differenza tra una pianta considerata barocca con la moltiplicazione delle
sue foglie - spesso molto belle – e una pietra preziosa, un cristallo, che per
me è ancora più bello.
JW: Quali sono le tue abitudini di
scrittura? È cambiato qualcosa?
JULIO CORTÁZAR: L’unica cosa che
non è cambiata – e mai lo farà – è la totale anarchia e il disordine: non ho
assolutamente metodo. Quando sento di voler scrivere una storia, mollo
tutto e scrivo il racconto. Alle volte, quando scrivo un racconto, nel mese o
due che seguono, ne scrivo altri due o tre. In generale, i racconti vengono in
serie. La scrittura di una storia mi lascia in uno stato recettivo e
allora ne “catturo” un’altra. Capisci il tipo di immagine che uso? È più o meno
così: la narrazione cade dentro di me. Ma può succedere che per un anno non
scriva più niente…niente. Certo, in questi ultimi anni ho trascorso parecchio
del mio tempo a scrivere articoli politici. I testi che ho scritto sul
Nicaragua o sull’Argentina non hanno niente a che fare con la letteratura: sono
prodotti militanti.
JW: Hai spesso dichiarato che è
stata la Rivoluzione di Cuba a ridestarti sulle questioni latinoamericane e sui
relativi problemi.
JULIO CORTÁZAR: E lo ripeto
ancora.
JW: Esistono dei posti dove
preferisci scrivere?
JULIO CORTÁZAR: In realtà, no.
All’inizio, quando ero più giovane e fisicamente più resistente, qui a Parigi,
per esempio, ho scritto una buona parte di Rayuela (Il gioco
del mondo) nei cafè. Il rumore non mi infastidiva e, al contrario, erano dei
posti molto congeniali: ci ho lavorato molto, leggendo o scrivendo. Ma
crescendo, sono diventato più difficile: scrivo quando sono sicuro di avere un
pò si silenzio. Non riesco a scrivere se c’è musica, assolutamente no: la
musica è una cosa e la scrittura un’altra. Ho bisogno di una certa calma.
Ma, detto ciò, un hotel, talvolta un aereo, la casa di un amico o qui in casa
sono posti dove riesco a scrivere.
JW: Cos’è che ti ha dato il
coraggio di prendere e partire per Parigi più di trent’anni fa?
JULIO CORTÁZAR: Coraggio? No, non c’è
voluto molto coraggio. Ho semplicemente dovuto accettare l’idea che venire a
Parigi, e tagliare i ponti con l’Argentina, a quel tempo significava essere
molto poveri e avere problemi a tirare avanti. Ma tutto questo non mi ha
spaventato: sapevo che, in un modo o nell’altro, ce l’avrei fatta. Sono venuto
qui soprattutto perché Parigi, e la cultura francese nell’insieme, costituivano
per me una forte attrazione. Quando mi trovavo in Argentina, avevo letto
la letteratura francese con passione; perciò, volevo andarci e cercare di
conoscere le strade e i luoghi che si trovano nei libri, nei romanzi, per
esempio andare per le strade di Balzac o di Baudelaire: è stato un viaggio
molto romantico. Ero, e sono, molto romantico. In realtà, devo
stare attento quando scrivo, perché molto spesso potrei lasciarmi cadere dentro
a…. non direi cattivo gusto, forse no, ma leggermente nella direzione di un
esagerato romanticismo. Nella mia vita privata, non ho bisogno di controllarmi:
sono davvero molto sentimentale, molto romantico, una persona tenera e che ha
molta tenerezza da offrire. E ciò che ora sto dando al Nicaragua è tenerezza. È
anche la convinzione politica che i sandinisti hanno ragione di ciò che stanno
facendo a capo di un’ammirevole lotta; ma non è il solo impeto
politico: è che c’è un’enorme tenerezza, perché sono un popolo che amo –
come amo i cubani e gli argentini. Beh, tutto questo costituisce parte della
mia indole. Nella mia scrittura ho dovuto guardare a me stesso, soprattutto
quando ero giovane; allora, scrivevo cose strappalacrime. Quello era vero
romanticismo, la roman rose. Mia madre li leggeva e piangeva.
JW: Quasi tutte le opere
conosciute, datano a partire dal tuo arrivo a Parigi. Ma non è vero che avevi
già scritto molto prima? Qualcosa è già stato pubblicato di quel periodo.
JULIO CORTÁZAR: Scrivo da quando avevo
nove anni, per tutta l’adolescenza e la prima gioventù, momento in cui ero già
capace di scrivere racconti e romanzi che mi dimostravano quanto fossi sulla
giusta strada. Ma allora non ero impaziente di pubblicare. Ero molto
severo con me stesso, così come continuo a fare. Ricordo che i miei coetanei,
una volta scritte delle poesie o un piccolo romanzo, si mettevano subito alla
ricerca di un editore. Dicevo a me stesso: “No, non pubblicarli, non cedere”.
Conservavo alcune cose, mentre altre le buttavo via. La prima volta che mi
hanno pubblicato, avevo superato i trent’anni: avvenne proprio prima di partire
per la Francia. Si trattava del mio primo libro di racconti – Bestiario –
uscito nel ’51, lo stesso mese in cui presi la nave per venire qui. Prima di
allora, avevo pubblicato un piccolo testo intitolato Los reyes (I
re), e si trattava di un dialogo. Si trattò di una piccola edizione fatta da un
amico che aveva un sacco di soldi e che faceva delle piccole pubblicazioni per
se stesso E questo è quanto. Ah, no, c’è un’altra cosa – un peccato di
gioventù: un libro di sonetti. L’ho pubblicato per conto mio, ma con uno
pseudonimo.
JW: Sei il paroliere di un recente album
di tango, “Trottoirs de Buenos Aires”. Che cosa ti ha fatto iniziare a
scrivere tango?
JULIO CORTÁZAR: Beh, sono un buon
argentino e, soprattutto, un porteño – cioè, un residente di
Buenos Aires, che è un porto. Il tango era la nostra musica e sono cresciuto in
un’atmosfera di tango. Li ascoltavano alla radio, visto che la radio è nata
quando ero piccolo, e fu subito un tango dopo l’altro. C’erano miei familiari,
mia madre e una zia, che suonavano dei tango al piano e li cantavano. Grazie
alla radio, abbiamo iniziato ad ascoltare Carlos Gardel e i grandi cantanti
dell’epoca. Il tango divenne una parte della mia coscienza ed è la musica che
mi rimanda alla mia gioventù e a Buenos Aires. Quindi, sono piuttosto
attirato dal tango, benché allo stesso tempo sia critico, visto che non sono
uno di quegli argentini che crede che il tango sia la meraviglia delle
meraviglie. Credo che il tango nel suo insieme, specialmente se accostato al
jazz, sia una musica molto povera. Musica povera, ma bellissima. È come quelle
piante molto semplici, non paragonabili all’orchidea o al bocciolo di
rosa, ma che abbiano insita una straordinaria bellezza. Di recente, qui a
Parigi dei miei grandi amici hanno suonato il tango: sono il Cuarteto Cedrón e
hanno un eccellente suonatore di bandoneón - Juan José
Mosalini. In quell’occasione abbiamo ascoltato e parlato di tango. Poi, un
giorno mi è uscita una poesia che ho pensato potesse essere adattata in musica.
Ma non lo sapevo davvero. Quindi, cercando tra le poesie inedite – la maggior
parte delle mie poesie lo sono – ne ho trovate alcune brevi che questi
amici potevano adattare alla musica, come poi hanno fatto. E abbiamo fatto
anche l’operazione contraria: Cedrón mi ha dato un tema musicale su cui ho
scritto le parole. Quindi, sono riuscito a farlo in tutt’e due i modi.
JW: Nelle note biografiche dei
tuoi libri, c’è anche scritto che sei un trombettista dilettante. Hai mai
suonato in qualche gruppo?
JULIO CORTÁZAR: No, È una mezza leggenda
inventata dal mio caro amico Paul Blackburn, che sfortunatamente è morto
piuttosto giovane. Sapeva che suonavo un pò la tromba, soprattutto a casa per
conto mio, perciò mi ripeteva sempre: “Dovresti suonare insieme a qualche altro
musicista”. E io gli rispondevo: “No, come dicono gli statunitensi – non ho ciò
che serve”. Non avevo talento: suonavo solo per me, mettendo su dischi di Jelly
Roll Morton o di Armstrong o del primo Ellington – la cui melodia è più
facile da seguire, specialmente nei blues, visto che hanno uno schema preciso.
E mi divertivo a sentirli suonare, mentre mi aggiungevo a loro con la mia
tromba. Ho suonato a lungo insieme a loro, ma certamente non con loro!
Non ho mai osato accostarmi ai musicisti jazz; adesso la mia tromba è persa da
qualche parte nell’altra stanza. Blackburn l’ha inserita in uno dei risvolti di
copertina; e siccome c’è una foto in cui suono la tromba, le persone pensano
che io la suoni realmente bene. Non ho mai voluto pubblicare qualche lavoro
prima di esserne certo; lo stesso accade con la tromba: non ho mai voluto suonare
prima di sentirmi sicuro di poterlo fare. E quel giorno non è mai arrivato.
JW: Avevi mai lavorato su un romanzo prima
di Libro de Manuel?
JULIO CORTÁZAR: Ahimè, no, per
ragioni molto chiare. Secondo me, un romanzo richiede una concentrazione e una quantità
di tempo – almeno un anno – e di lavoro in tranquillità, senza mai
abbandonarlo. E ora, non riesco. Infatti, una settimana fa, neanche sapevo che
fra tre giorni dovrò partire per il Nicaragua. Quando torno, non ho idea
di cosa farò. Ma questo romanzo è già scritto. È qui, nei miei sogni. Sogno di
continuo questo romanzo. Non so cosa succede nel romanzo, ma ne ho un’idea.
Come per i racconti, so che sarà abbastanza lungo, con qualche elemento
fantastico, anche se non troppi. Sarà sul genere di Libro de Manuel, dove
gli elementi fantastici sono mescolati insieme; e non sarà un libro a carattere
politico: sarà un’opera di pura letteratura. Spero che la vita mi conceda
un’isola deserta, anche se l’isola dovesse essere in questa stanza; e spero che
mi conceda un anno, chiedo un anno. Ma quando questi bastardi – i somozisti e
Reagan– agiscono per la distruzione del Nicaragua, non posso avere la mia
isola. Non sono riuscito a iniziare niente, perché sono costantemente
ossessionato da questo problema, che richiede la precedenza assoluta.
JW: E risulta abbastanza
difficile, così come l’equilibrio di vita e letteratura.
JULIO CORTÁZAR: Sì e no. Dipende
dal tipo di urgenze: se, come quella che ho appena menzionato, toccano la
responsabilità morale di un individuo, allora sono d’accordo. Eppure conosco
delle persone che si lamentano sempre, dicendo: “Oh, mi piacerebbe scrivere il
mio romanzo, ma dovrei vendere la casa, e poi ci sono le tasse: che faccio?”. O
motivi come: “Lavoro in ufficio tutto il giorno, come credi che possa
scrivere?”. Io ho lavorato tutto il giorno all’UNESCO, e poi tornavo a casa e
scrivevo Rayuela. Quando uno vuole scrivere, scrive. Se si è
condannati alla scrittura, si scrive.
JW: Lavori ancora come traduttore
e interprete?
JULIO CORTÁZAR: No, ho smesso. Conduco
una vita molto semplice. Ho i soldi necessari per comperare ciò che mi piace:
dischi, libri, tabacco. Adesso, posso vivere dei miei diritti d’autore: mi
hanno tradotto in così tante lingue, che con il denaro che ricevo posso vivere
di rendita. Certo, devo stare un po’attento, visto che non posso uscire e
comperarmi uno yacht…ma siccome non ho assolutamente alcuna intenzione di
farlo…
JW: Fama e successo sono stati
piacevoli?
JULIO CORTÁZAR: Ascolta, ti dico
una cosa che non dovrei dire, perché nessuno ci crederà: per me, il successo
non è un piacere. Sono grato di poter vivere grazie a ciò che scrivo, perciò mi
devo rassegnare sia all’aspetto popolare come a quello critico che il successo
comporta. Eppure, mi sentivo un uomo più felice quando ero uno sconosciuto.
Molto più felice! Adesso, non ho più la possibilità di andare in America Latina
o in Spagna senza essere riconosciuto ogni dieci metri, e poi gli autografi,
gli abbracci. . . è davvero commovente, perché ho lettori che sono spesso
abbastanza giovani. Sono contento che gradiscano il mio lavoro, ma è
tremendamente penoso per la mia privacy: in Europa non posso andare in
spiaggia, visto che ogni cinque minuti c’è un fotografo e, avendo un aspetto
fisico che non posso camuffare – neanche se mi radessi la barba e indossassi
degli occhiali da sole - con la mia altezza e le mie braccia lunghe, mi
individuano da lontano. D’altro canto, sono momenti davvero molto belli. Un
mese fa mi trovavo a Barcellona e, una sera, stavo camminando nel Quartiere
Gotico e c’era una ragazza statunitense, molto carina che cantava e suonava
benissimo la chitarra; era seduta a terra e cantava e suonava per guadagnarsi
da vivere. Cantava un pò sullo stile di Joan Baez, con una voce chiara, purissima.
E c’era un gruppo di giovani barcellonesi che la ascoltavano. Mi fermai ad
ascoltarla, ma rimasi nell’ombra. A un certo punto, uno di quei ragazzi sui
vent’anni, molto giovane, bellissimo, mi si è avvicinato. Aveva una torta in
mano. Mi disse: “Julio, prendine un pezzo”. Ne presi un pezzo, lo mangiai
e gli dissi: “Grazie mille per essere venuto a offrirmelo”. E lui mi
rispose: “Ma, ascolta, ti offro così poco in confronto a quanto mi hai regalato
tu”. Dissi: “Non dirlo, non dirlo” e ci siamo abbracciati. Poi lui se n’è
andato. Beh, cose come questa sono la miglior ricompensa per il mio lavoro di
scrittore. Che un ragazzo o una ragazza ti si avvicinano per parlarti e ti
offrano un pezzo di torta, è meraviglioso. Vale la pena di aver scritto.
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