La sera prima di partire per Jenin la TV
palestinese mostrava le strade di un villaggio circostante, con barricate date
alle fiamme e soldati che puntavano fucili alla popolazione in rivolta dagli
angoli delle case. Avanzavano per demolire le abitazioni di tre famiglie,
quelle che hanno dato i natali ai ragazzi che, dieci giorni fa, si sono recati
a Gerusalemme e hanno ucciso una soldatessa, in uno degli attacchi che più
hanno impressionato l'opinione pubblica israeliana. Chi erano? Perchè giunti da
Jenin? Come hanno potuto raggiungere Gerusalemme? Quando arriviamo in città,
l'impatto è sorprendentemente diverso: Omar, volontario del Freedom Theater
(Ong locale citata addirittura sulla Lonely Planet) spiega come
attraverso l'arte il suo gruppo cerchi “di portare consapevolezza politica tra
i palestinesi”. Dice di non avere nulla contro l'Intifadah, e di essere anzi
uscito di galera otto mesi fa; ma crede che l'attuale rivolta dovrebbe essere
“un'azione maggioremente collettiva”.
Il Freedom Theater è divenuto famoso per
l'uccisione, nel 2011, del fondatore Giuliano Mer-Khamis da parte di un uomo
mascherato, proprio di fronte all'ingresso del teatro. “Giuliano era alla
ricerca della sua identità – ci spiega Omar – era israeliano ed ebreo, ma si
opponeva all'occupazione e alla politica delle colonie”. È sempre esistito un
dibattito a Jenin, ci spiega, sull'idea da cui il teatro prende il nome. I
palestinesi si chiedono: che cos'è la libertà? “Per alcuni di noi il teatro può
essere libertà, ma per altri l'arte, la recitazione o la musica sono attività
che dovrebbero essere bandite per un divieto di carattere religioso”. Habeer,
che parla al suo fianco, milita da sempre nella sinistra vicina al Fronte
Popolare, e spiega l'attività del suo comitato per favorire la partecipazione
delle donne alla vita pubblica. Anche lei, come tutti qui, supporta l'Intifadah
(“unica risposta possibile ai fallimenti della classe dirigente”) e racconta a
sua volta di esser stata in prigione, per la prima volta a 16 anni.
Incontriamo Saba, una giornalista che ci
accompagna nella sede di Nas Fm, che significa “radio del popolo”. Siede ai
microfoni per lanciare le ultime news e il suo caporedattore, Mahmud, ci
racconta delle pressioni che la radio riceve da Israele: per prenderlo in giro,
hanno minacciato di ritirare la licenza perché le frequenze disturberebbero...
gli atterraggi all'areoporto di Tel Aviv (a centinaia di chilometri di
distanza)! È arrivata anche la lettera ufficiale delle forze armate, che
invitano la radio a smettere di dare notizie chiamando l'uccisione di militari
israeliani “esecuzioni”. “Per noi è un termine neutro e asettico, ma per
Israele è apologia della lotta armata. Il fatto è che la nuova rivolta non è
portata avanti da cellule organizzate e dai partiti, quindi Israele non riesce
a individuare un nemico, e si concentra sui media palestinesi con censure,
oscuramenti e arresti”.
Mahmud non è un “radicale”: è stato
vicino alle liste universitarie di Fatah, quando era studente, e non ha perso
questo genere di simpatia. Lo stesso vale per Saba, che si lamenta della
sinistra palestinese: “Condannano sempre gli accordi di Oslo in modo veemente,
ma quel processo, a suo tempo, è stato necessario”. Il padre, funzionario
dell'Autorità Palestinese, e la madre, insegnante, si associano mentre ci
offrono un té nella loro gradevole abitazione da classe media. Mahmud aggiunge
anche che Abu Mazen, attuale criticatissimo presidente, è in realtà un profondo
conoscitore del movimento e dell'ideologia sionista, così come di Israele, che
ha studiato per decenni. “Persino i media israeliani lo temono – sostiene –
perché sanno che lui è in grado di capire come pensano i nostri nemici, e di
prevenirne le loro mosse”. La trattativa che condusse a Oslo fu, ci spiega, una
mossa inevitabile: dopo l'invasione israeliana del Libano nel 1982 e la fuga
dell'Olp a Tunisi, e dopo il crollo dell'Urss nel 1991, la dirigenza
palestinese si era trovata di fronte a un vicolo cieco.
Saba ci conduce al campo profughi della
città, tristemente celebre, come la città vecchia di Nablus, per esser stato
raso al suolo dall'esercito durante la seconda Intifadah, nel 2002. Al suo
ingresso campeggia enorme uno striscione con la fotografia di Saddam Hussein:
“Per tutti noi è un eroe” afferma Mustafa. Le strade sporche e dissestate, i
vicoletti stretti, le abitazioni povere affiancano le pareti di cui si
riconosce il carattere maggiormente recente: sono quelle delle abitazioni
ricostruite dopo il massacro di quattordici anni fa. “La mia famiglia abitava
qui allora – racconta Saba – ma mio padre non voleva che ci spostassimo,
nonostante i bombardamenti”. Era arrivato nel campo da bambino, quando nel 1948
Israele aveva cacciato lui e i suoi genitori dal villaggio di Zereen, che è
oggi inglobato nello stato ebraico, oltre la linea verde, a pochi chilometri di
distanza.
Ci conduce, assieme a due dei suoi
figli, sulle alture che separano Jenin da Nablus; da esse si vede, più in basso,
il limite della Cisgiordania e il mare, con in mezzo Akko, Haifa e Tel Aviv.
“Possiamo vedere benissimo Zareen da qui, ma non possiamo tornarci. Per molti
palestinesi è emozionante venire qui e vedere il mare: immaginare di
raggiungerlo è un sogno”. “La vostra casa è adesso abiatata da israeliani?”
chiediamo. Ride: “E' stata distrutta”. Mahmud spiega che la sua famiglia era
originaria della città vecchia di Haifa. Assume un tono grave: “Dovete capire
che per noi la famiglia è una cosa importante. In essa esitono relazioni che
occorre tutelare, e se una famiglia subisce un torto non si rivolge alla
polizia, perché permangono le riparazioni secondo la legge d'onore”. Per lui è
un problema grave che parte della famiglia viva ora oltre la linea verde. “Qualsiasi
cosa succeda io sono qui, loro là. In mezzo ci sono il Muro, le misure di
sicurezza, i check point. Per me è un problema anche solo visitare mia
sorella”.
Nel 2002 la famiglia di Saba ha deciso
di abbandonare il campo profughi quando l'esercito ha seppellito sotto le
macerie un ragazzo disabile che, non potendo muoversi, era rimasto intrappolato
nella sua abitazione. Anche il loro zio era disabile, quindi il padre ha
ordinato alla famiglia di mettersi in cammino lungo le vie del campo colpite
dai bombardamenti, per raggiungere la città. “Avevo dodici anni – racconta –
non è stato facile. La cosa peggiore è stato passare, da bambina, in mezzo a
tutti i cadaveri che giacevano a terra mutilati, carbonizzati”. In quei giorni
Jenin, come Nablus, offrirono all'umanità l'esempio di una resistenza
incredibile. Sharon aveva lanciato l'offensiva contro le due città più restie
ad arrendersi al suo potere, e il ricercato numero uno si chiamava Said. Sua
madre, un'imponente anziana signora, palesemente non è più in grado di
sorridere. Il suo nome è Hurrya, che in arabo significa “Libertà”.
Said era ricercato dall'esercito per la
sua attività nella resistenza: si nascose per due settimane in uno scantinato
con altre dodici persone, finché la mezzaluna rossa non lo trasse in salvo, e
lui sparì di nuovo. “Venivano a distruggere la nostra casa tutte le notti verso
le due. Entravano e urlavano, spaccavano tutto. Poi hanno arrestato mio figlio
Mohamed, per fare pressioni su Said, perché si consegnasse”. “Un giorno hanno
posizionato due carri armati ai lati della casa e hanno sparato gas lacrimogeno
dalle bocche dei cannoni dentro la casa, attraverso la finestra e la porta
devastate”.
Allora Hurriya e i suoi figli, tra cui
un neonato di sei mesi, si rifugiarono in un'abitazione abbandonata a curare le
ferite, ma nessuno riusciva a raggiungerli. Il 31 ottobre l'esercito demolì la
loro casa, ormai disabitata. Said venne individuato a casa dello zio ma riuscì
ancora a dileguarsi, fuggì a Kabatiya, poi a Haraka, dove si nascose in uno
scantinato. Dopo alcuni giorni, venne arrestato assieme a una dozzina di altri
combattenti in seguito alla soffiata di una spia.
Il fratello più piccolo di Said, Ahmed,
entrò allora nella resistenza e venne ucciso quattro anni dopo, nel 2006. A un
altro fratello, Islam, venne vietato di visitare Said in carcere. Islam era un
impegato del consiglio della Sharia di Jenin, un'istituzione presente in tutte
le città musulmane. Nel 2013, all'improvviso, l'esercito circondò e attaccò
nuovamente, dopo undici anni, la casa di Hurriya, e i soldati che vi fecero
irruzione picchiarono selvaggiamente i suoi figli, mostrando loro la foto di
Islam. Alcuni soldati salirono sul tetto, lo trovarono e lo uccisero, ancora
intontito dal sonno. Ancora oggi nessuno sa, nel campo, perché Islam sia stato
ucciso. Anche sua madre ne è ignara. Ha allevato, in questi anni, da sola dieci
figli (suo marito è morto vent'anni fa): due di essi sono morti, cinque sono in
prigione. Il nipotino, un bimbo piccolissimo, si aggira per la casa mentre
ascoltiamo la sua storia, ignaro forse – o forse no – di che vita lo attende.
Quest'autunno, allo scoppio
dell'Intifadah, un ragazzo di nome Ahmed è partito da Jenin per accoltellare un
soldato israeliano, al check point, ed è stato ucciso prima che potesse
ferirlo. In città ci hanno raccontato che per settimane gli amici di Ahmed
hanno discusso di cosa fare per vendicare il loro coetaneo. Alla fine tre di
loro sono partiti per Gerusalemme, per entrare nella città vecchia e vendicarlo
sotto la moschea di al-Aqsa. Come hanno potuto passare tutti quei controlli,
tutti quei check point, con pistole e coltelli, si chiedono i media israeliani?
C'è chi ha ipotizzato un appoggio a Gerusalemme. A Jenin non ne sono convinti:
“Avranno scavalcato il muro e poi saranno arrivati alla città santa. Scavalcare
il muro non è impossibile: in tanti lo fanno durante il Ramadan, per andare a
pregare alla spianata delle moschee”. Arrivati alla porta di Damasco, fermati
per un controllo, hanno ucciso la soldatessa e ferito una sua collega, prima di
essere crivellati tutti e tre in mezzo alla folla di residenti e turisti; il
mondo ha altri tre terroristi morti, Jenin tre martiri in più.
Dai corrispondenti di Infoaut e Radio
Onda d'Urto a Jenin, 16 Febbraio 2016
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