venerdì 30 novembre 2018

Il Nuovo Nuovo Antisemitismo – Richard Falk



I crimini dello Stato di Israele nascosti dietro false affermazioni di vittimizzazione
In questi giorni io, come anche molti altri, vengo vittimizzato. Siamo etichettati come antisemiti e in alcuni casi anche come ebrei che odiano sé stessi. È un tentativo da parte di sionisti ed israeliani di mettere a tacere le nostre voci e di punire il nostro attivismo nonviolento, con particolare livore nei confronti della campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni, ndtr.) poiché negli ultimi anni è diventata molto efficace. Questa etichetta negativa dell’opposizione è stata chiamata ‘il nuovo antisemitismo’. Il vecchio antisemitismo era semplicemente odio verso gli ebrei espresso attraverso immagini ed atteggiamenti negativi, come anche pratiche discriminatorie, persecuzioni e giustizia sommaria. Il nuovo antisemitismo è la critica contro Israele e il sionismo, ed è stato sostenuto da governi amici di Israele e portato avanti da una serie di importanti organizzazioni ebraiche, incluse alcune collegate ai sopravvissuti e alla memoria dell’Olocausto. Emmanuel Macron, presidente francese, ha espresso abbastanza chiaramente questo rifiuto da parte degli apologeti di Israele, anche se in forma piuttosto malevola: “Non cederemo mai alle espressioni di odio. Non ci arrenderemo mai all’antisionismo, perché esso è la riproposizione dell’antisemitismo.” La falsa premessa pone sullo stesso piano il sionismo e gli ebrei, definendo automaticamente come antisemitismo le critiche e l’opposizione allo Stato sionista di Israele.
Già nel 2008 il Dipartimento di Stato USA si è mosso più velatamente in una direzione simile a quella di Macron, attraverso questa dichiarazione formale: “Le ragioni per criticare Israele alle Nazioni Unite possono derivare da legittime preoccupazioni politiche o da pregiudizi illegittimi. (…) Comunque, a prescindere dalle intenzioni, critiche sproporzionate a Israele in quanto incivile e amorale, e le relative misure discriminatorie adottate dalle Nazioni Unite contro Israele, hanno l’effetto di far sì che il pubblico attribuisca caratteristiche negative agli ebrei in generale, alimentando così l’antisemitismo.” L’errore qui sta nel considerare le critiche come “sproporzionate” senza nemmeno prendere in considerazione la realtà della lunga serie di illegalità da parte di Israele nei confronti del popolo palestinese. Per chi di noi vede la realtà delle politiche e delle pratiche israeliane vi sono pochi dubbi che le critiche che vengono avanzate e le pressioni che vengono esercitate [siano] in ogni senso proporzionate.
Un’argomentazione correlata, che spesso viene avanzata, è che a Israele siano richiesti livelli più alti di altri Stati, e che questo riveli un sottinteso antisemitismo. Questo è un argomento in malafede. Non è una giustificazione suggerire che la criminosità di altri sia più grave. Inoltre, gli USA finanziano Israele con almeno 3,8 miliardi di dollari all’anno, oltre a dare il loro incondizionato appoggio al suo comportamento, determinando una certa responsabilità per imporre dei limiti in base al diritto umanitario internazionale. Anche le Nazioni Unite hanno contribuito al calvario dei palestinesi, non mettendo in pratica la soluzione di partizione e permettendo che per 70 anni milioni di palestinesi subissero le strutture di dominio dell’apartheid. Nessun altro popolo può così giustificatamente condannare forze esterne per la tragedia che ha patito.
Nel 2014 Noam Chomsky, con la sua usuale chiarezza morale ed intellettuale, ha spiegato la falsa logica di una simile affermazione: “In realtà, l’esempio di scuola, la migliore formulazione di ciò, la si deve ad un ambasciatore presso le Nazioni Unite, Abba Eban [politico e diplomatico israeliano, ndtr.] (…). Ha raccomandato alla comunità ebraica americana di assolvere a due compiti. Uno consisteva nel mostrare che le critiche alla politica, che lui definiva antisionismo – che in realtà significa criticare la politica dello Stato di Israele – erano antisemitismo. Questo era il primo compito. Il secondo, nel caso che le critiche provenissero da ebrei, consisteva nel mostrare che si trattava di odio nevrotico verso sé stessi, che necessitava di un trattamento psichiatrico. Quindi forniva due esempi di quest’ultima categoria. Uno era I.F. Stone [giornalista americano progressista, ndtr.]. L’altro ero io. Quindi, noi avremmo dovuto essere curati per i nostri disturbi psichici, e i non ebrei avrebbero dovuto essere condannati per antisemitismo, se criticavano lo Stato di Israele. Si può capire perché la propaganda israeliana prenda questa posizione. Io non critico particolarmente Abba Eban per aver fatto ciò che gli ambasciatori a volte devono fare. Ma dovremmo capire che non è un’accusa sensata. Per niente sensata. Non c’è niente da rispondere. Non è una forma di antisemitismo. È semplicemente una critica delle azioni criminose di uno Stato.”
Una caratteristica di questo nuovo antisemitismo è la sua mancata risposta alle ben comprovate accuse di crimini contro l’umanità avanzate da coloro che sono etichettati come antisemiti. Forse questi ardenti sostenitori di Israele spingono davvero il loro senso di impunità fino al punto di ritenere il silenzio un’adeguata forma di difesa? A sottolineare una tale negazione del concetto di responsabilità legale e morale vi è questo sentimento di eccezionalità di Israele, una concezione del diritto penale internazionale che condivide con l’eccezionalità americana. Coloro che sono d’accordo con questa eccezionalità pretendono di venire offesi persino dall’insinuazione che un tale governo possa essere soggetto alle norme sancite dallo Statuto della Corte Penale Internazionale o dalla Carta dell’ONU. L’eccezionalità di Israele affonda le sue radici nella tradizione biblica, soprattutto nella lettura degli ebrei come “popolo eletto”, ma in realtà si situa in uno spazio rassicurante creato dall’ombrello geopolitico che protegge dal giudizio del mondo la maggior parte dei suoi atti di sfida alle leggi. Queste azioni di protezione sono ben illustrate dalla recente risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha dichiarato nulli e non validi i passi di Israele verso l’annessione delle alture del Golan, con il voto contrario dei soli Israele e Stati Uniti, mentre 151 membri dell’ONU hanno votato a favore.
Se dedichiamo anche solo un minuto ad esaminare il diritto internazionale, scopriremo che la questione è talmente ovvia che non vale la pena di discuterne seriamente. Un principio cardine dell’attuale diritto internazionale, spesso affermato dall’ONU in altri contesti, è il divieto di impadronirsi di un territorio con la forza delle armi. Non c’è dubbio che le alture del Golan facessero parte del territorio sovrano della Siria fino alla guerra del 1967, e che Israele ne abbia preso il controllo, che ha sempre esercitato da allora, attraverso un’occupazione con la forza.

Le ironie del ‘nuovo nuovo’ antisemitismo
Qui è presente un’ironia opportunistica. Il nuovo antisemitismo sembra non avere problemi ad abbracciare i cristiani sionisti, nonostante la loro ostilità verso gli ebrei accompagnata dalla fanatica devozione ad Israele come Stato ebraico. Chiunque abbia assistito ad una conferenza dei cristiani sionisti sa che la loro lettura del Libro della Rivelazione implica l’interpretazione che Gesù ritornerà quando tutti gli ebrei ritorneranno in Israele e verrà ricostruito il tempio più sacro di Gerusalemme. Questo percorso non finirà qui. Gli ebrei saranno di fronte alla scelta tra convertirsi al cristianesimo o essere condannati alla dannazione eterna. Quindi tra questi fanatici amici di Israele è presente una sincera ostilità verso gli ebrei, sia nell’insistere che la fine della diaspora ebraica sia un imperativo religioso per i cristiani, sia per il misero destino che attende gli ebrei che rifiuteranno di convertirsi dopo il Secondo Avvento.
Siamo di fronte ad un’illuminante perversità. A differenza dei nuovi antisemiti che non sono ostili agli ebrei in quanto popolo, i cristiani sionisti danno priorità al loro entusiasmo per lo Stato di Israele, mentre sono disposti a distruggere le vite degli ebrei della diaspora e alla fine anche quelle degli ebrei israeliani e sionisti. Forse si tratta meno di perversità quanto di opportunismo. Israele non ha mai avuto alcuna riluttanza a sostenere i leader più oppressivi e dittatoriali di Paesi stranieri, posto che essi acquistino armi e non adottino una politica diplomatica anti-israeliana. Il messaggio di congratulazioni di Netanyahu a Bolsonaro, il neo eletto presidente del Brasile, è solo l’esempio più recente, e Israele ha ricevuto un immediato ringraziamento con l’annuncio della decisione [del Brasile] di unirsi agli Stati Uniti trasferendo la sua ambasciata a Gerusalemme. In effetti, il nuovo antisemitismo si trova a suo agio sia coi cristiani sionisti che con i leader politici stranieri che mostrano tendenze fasciste. Di fatto, chiudere gli occhi di fronte alla profonda realtà del vero antisemitismo è una caratteristica del nuovo antisemitismo così caldeggiato dai militanti sionisti. Per una esauriente documentazione, si può leggere l’importante libro di Jeff Halper, ‘War against people: Israel, the palestinians and global pacification’ (2015). [‘Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale’, Epoké, Novi Ligure, 2017. Ndtr.].
Di fronte ad un simile contesto abbiamo bisogno di un termine che descriva e identifichi questo fenomeno e respinga le sue accuse insidiose. Propongo la poco elegante dicitura di ‘il nuovo nuovo antisemitismo’. L’idea di una simile definizione vorrebbe suggerire che sono i nuovi antisemiti, non i critici e gli attivisti che criticano Israele, i reali portatori di odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Due tipi di argomentazioni sono implicite in questo rifiuto della campagna che cerca di screditare o addirittura criminalizzare i ‘nuovi antisemiti’. Primo, essa impedisce la critica della persistenza di situazione sconcertante, della perdurante tragedia dell’apartheid imposto a tutto il popolo palestinese nel suo complesso, distoglie l’attenzione, deliberatamente o inconsapevolmente, dalle obiezioni al vero antisemitismo, provocando anche confusione, accettando in nome dello Stato di Israele l’abbraccio dei cristiani sionisti (e degli evangelici), oltre a quello dei leader fascisti che predicano messaggi di odio etnico.
In conclusione, nel nostro impegno per la realizzazione dei diritti dei palestinesi, primo tra tutti il loro diritto all’autodeterminazione, noi che veniamo accusati di essere i nuovi antisemiti in realtà stiamo cercando di onorare la nostra umanità e di rifiutare le lealtà tribali o gli schieramenti geopolitici. Come ebrei, rendere Israele responsabile in base agli standard che sono stati utilizzati per condannare i capi politici e militari nazisti sopravvissuti significa onorare l’eredità dell’Olocausto, non infangarla. Al contrario, quando Israele vende armi ed offre addestramento per reprimere le rivolte a governi guidati da fascisti in tutto il mondo, o continua ad accettare l’Arabia Saudita del dopo Khashoggi come un valido alleato, esso oscura la natura malvagia dell’Olocausto in modi che in futuro potrebbero tormentare Israele ed anche gli ebrei della diaspora.
(Traduzione di Cristiana Cavagna)

mercoledì 28 novembre 2018

La zona grigia del contagio razzista - Marco Aime



Qualcosa cambia sotto il cielo d’Italia. Se Pier Paolo Pasolini fosse ancora tra noi, ci avvertirebbe di quella profonda e carsica mutazione antropologica che sta nuovamente colpendo l’Italia, che poco a poco contagia sempre più persone, anche quelle che si ritenevano immuni.
Fino a qualche anno fa esprimere idee razziste era considerato riprovevole, si rischiava di incorrere nel biasimo sociale, di suscitare indignazione. Lo stesso nel dichiararsi fascisti. Sappiamo benissimo che in Italia «l’eterno fascismo», per citare ancora Pier Paolo Pasolini, non è mai del tutto scomparso, ma l’esplicitarne l’appartenenza provocava una reazione di tipo morale. Non preferisco la polvere nascosta sotto il tappeto allo sporco visibile, ma quelle reazioni e il conseguente silenzio, erano il segno che la nostra società aveva ancora degli anticorpi capaci di suscitare una reazione tesa a difendere valori condivisi, quali la democrazia e l’uguaglianza.
Il tempo passa, va scomparendo la generazione che ha fatto la Resistenza, la memoria si fa labile e da tempo nessun partito politico si impegna più di tanto per mantenere accesa quella fiaccola di civiltà.
Così, come i granchi quando la marea si fa bassa, ecco riemergere con toni imperiosi e arroganti la nuova destra razzista, che non teme di presentarsi come tale perché ha capito che non incorre in nessuna critica particolare, se non da parte del sempre più isolato papa Francesco e di pochi altri.
Ha gioco facile a muoversi in un ambiente non ostile. E forse peggio dei razzisti sono quelli che non dicono apertamente ciò che pensano (ma lo pensano) e che annuiscono in silenzio. Che condividono certe idee discriminatorie, ma si camuffano dietro il ritornello “Io non sono razzista ma” (che dà il titolo a una rubrica curata dall’autore su Nigrizia, ndr). È la tristemente celebre “zona grigia” di cui ha parlato Primo Levi, dove tutto si confonde in una palude in cui è difficile distinguere il buono dal cattivo.
Per vent’anni moltissimi italiani hanno riempito le piazze dove parlava il Duce e si professavano fascisti. I filmati del 25 aprile 1945 ci restituiscono immagini di una folla immensa che sventola fazzoletti rossi. Nessuno sembrava essere stato fascista o razzista. Forse sotto il cielo d’Italia non c’è nulla di nuovo

lunedì 26 novembre 2018

“A un ragazzo” (di Pierpaolo Pasolini) dedicata a Bernardo Bertolucci, che risponde con una sua poesia


A un ragazzo (1956-1957)

da La religione del mio tempo (1961)
in Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, Tomo I, Meridiani Mondadori, Milano 2003

Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi
che tornano su Roma, e che a noi altrove
ancorati a una luce d’altri tempi,
sembrano portati da inutili venti,
tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza
pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.
Col sorriso confuso di chi la timidezza
e l’acerbità sopporta con allegrezza,
vieni tra gli amici adulti e fieramente
umile, ardentemente muto, siedi attento
alle nostre ironie, alle nostre passioni.
Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,
vergognandoti quasi del tuo cuore festoso…
Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,
ma perché esiste: per te, perché tu sia
nuovo testimone, dolce-contento al quia…
Rimani tra noi, discreto per pochi minuti
e, benché timido, parli, con i modi già acuti
dell’ilare, paterna e precoce saggezza.
Esponi, orgoglioso, la tua debolezza
di adolescente, leso appena al ridicolo
che ha la troppa umiltà in un mondo nemico…
Al giusto momento, ci lasci, ritorni
alla segreta luce dei tuoi primi giorni:
alla luce che certo tu non puoi dire
né, noi, ricordare, una luce d’aprile
in cui la coscienza con le sue gemme sfiora
solo la vita, non la storia ancora.
Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi
o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,
o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi,
ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,
se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi
ormai siamo, vuoi che le perdute notti
del nostro tempo siano come la tua fantasia
pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia
la parte di vita che noi abbiamo spesa
disperati ragazzi in una patria offesa.
Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni
– tra macerie, strade deserte e prigioni –
delle nostre figure per te ormai remote.
Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,
tu, così puro, il male, così limpido l’odio,
ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi
l’occhio ferito, parteggiando intero
per chi lottava in nome del sentimento vero.
Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato
da quell’avventura, in che cosa è mutato
lo spirito di questa povera nazione
dove provi tra noi la tua prima passione;
sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa
e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa
trovino nel tuo dolce desiderio di vita…
Vuoi sapere l’origine della tua pudica
voglia di sapere, s’essa ha già dato prova
di tanta vita in noi, e adesso cova
già nuova vita in te, nei tuoi coetanei.
Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,
da noi scoperta e da te trovata,
grazia anch’essa, nella terra rinata.
Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto
su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.
La risposta, se c’è, è nella pura
aria del crepuscolo, accesa sulle mura
del Vascello, lungo le palazzine
assiepate nel cuore del sole che declina.
Le sere disperate per il troppo tepore
che nei freddi autunni, dimenticato muore,
o, dimenticato, in nuove primavere
torna improvviso – le disperate sere
in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi,
o il fresco appuntamento con giovani modesti
come te, e felici, esci svelto di casa,
mentre nel rione suona la sera invasa
dall’ultimo sole – penso a quel serio, candido
ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.
Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere,
se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.
Era un mattino in cui sognava ignara
nei rósi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d’erba come cresciuto a stento
era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine
lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo
granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiava esanime
nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba
del binario, attendeva il treno di Spilimbergo…
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta
ch’era stata mia, la nuca giovinetta…
Ritornai indietro per la strada ardente
sull’erba del marzo nel sole innocente;
la roggia tra il fango verde d’ortiche
taceva a una pace di primavere antiche,
e i rinati radicchi da cui vaporava
un odore spento e acuto di rugiada,
coprivano il dorso della vecchia scarpata
grande come la terra nell’aria riscaldata.
Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna:
liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana
pace del lavoro, nel parlante amore muti,
tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,
vigne e casolari azzurri di solfato, –
nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.
Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro,
legati a quel dolore che ancora oscura il petto.
Ci togli questa luce che a te splende intera,
ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera…
Noi invecchiati ora nient’altro diamo
che doloroso amore alla tua lieta fame.
Anche la tua stessa pietà, che cosa dice
se non che la vita solo in te è felice?
Perché, per fortuna, quel nostro passato,
vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.
In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi
di esso solo quanto può adesso valerti…
Nella tua nuova vita non è esistito mai
fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai
perché vuoi sapere: esiste solamente
in te come un crudele dolce fiore il presente.
Che tutto sia davvero rinato – e finito –
sia tutto – è scritto nel tuo sorriso amico.
È vizio il ricordare, anche se è dovere;
a quei morti mattini, a quelle morte sere
di dodici anni or sono, non sai se più rancore
o nostalgia, leghi il nostro cuore…
L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza,
voce che contraddice la vitale presenza!
Fosse, com’è in te, la spietata gioia
di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!
Ciò che potevamo risponderti è perduto.
Può parlarti – se, tu ragazzo, sai il muto
suo nuovo linguaggio di ragazzo – soltanto
chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto…
Era ormai quasi estate, e i più bei colori
ardevano nel mite, friulano sole.
Il grano già alto era una bandiera
stesa sulla terra, e il vento la muoveva
fra le tenere luci, riapparse a ricolmare
di festa antica l’aria tra i monti e il mare.
Tutti erano pieni di disperata gioia:
sulla tiepida polvere delle vie ballatoi
e balconi tremavano di fazzoletti rossi
e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi
bande di ragazzi andavano felici
da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.
Mio fratello non c’era, e io non potevo
urlare di dolore, era troppo breve
la strada verso il granaio perso nei campi, dove
per un anno l’ingenua, eternamente giovane,
povera nostra mamma aveva atteso, e ora
era lì che attendeva, sotto il tiepido sole…
Ma ha ragione la vita che è in te: la morte,
ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.
Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo
voler sapere col tuo cuore che si ingemma.
Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna
sempre più tempo, allenta ogni legame
con la vita che, ancora, un’amara forza
a vivere e capire invano ci conforta…
Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto,
finirà non chiesto, si perderà non detto.

E Bertolucci risponde:





sabato 24 novembre 2018

Il metodo Airbnb contro l’occupazione della Cisgiordania - Gideon Levy



Questa settimana un’azienda turistica ha realizzato da sola più di quanto tutta la sinistra sionista abbia mai fatto per porre fine all’occupazione. Airbnb (che ha deciso di togliere dalla sua piattaforma gli annunci delle case in affitto nei territori occupati da Israele in Cisgiordania) minaccia di essere un duro colpo ai mezzi di sostentamento illegali di duecento famiglie di coloni. Se ci fossero altre duecento aziende come Airbnb, il progetto di colonizzazione comincerebbe a pagare un duro prezzo economico e i suoi responsabili comincerebbero a chiedersi, insieme ad altri israeliani, se ne valga davvero la pena.

Non potrebbe esserci una migliore notizia di questa. Bisogna ringraziare ed elogiare questa rete internazionale di accoglienza turistica, che dopo aver inventato un’attività di successo, ha avuto il coraggio di partecipare a un’iniziativa politica giusta. Airbnb ha spiegato che non ha bisogno di trarre profitto da terre dalle quali sono state cacciate persone. Può esistere un’affermazione più giusta?


Ma non si è limitata a questo. Ha anche rivelato al mondo, involontariamente, la più grande delle bugie, la demagogia e i doppi standard dei coloni e dei loro sostenitori al governo. Quando questi gridano all’“olocausto” a proposito di alcuni bed and breakfast, significa che sono chiaramente a corto di argomentazioni.


Le parole “antisemitismo”, “discriminazione” o “persecuzione” stavolta vengono evocate per un pugno di dollari che finivano nelle tasche di una manciata di sfruttatori di terre sottratte a fini turistici, che commerciavano in beni rubati. È questo il senso del progetto di sottrazione della terra: comincia con una promessa divina e finisce con un bed and breakfast.


Vista sui posti di blocco e un bicchiere di vino in un insediamento illegale: può esistere un progetto più inaccettabile?


Jacuzzi nelle terre occupate, vacanze a pochi passi da un campo profughi, rilassatevi mentre assaporate la vista sui posti di blocco e versatevi un bicchiere di vino in un insediamento illegale, mentre il sole cala sullo sfondo pastorale dei rapimenti notturni dell’esercito israeliano: può esistere un progetto più inaccettabile?


Questo il tenore delle lamentele: “Due anni fa mia moglie Kalila e io abbiamo aperto il nostro bed and breakfast, chiamato Ruth’s House a Sde Boaz, vicino a Betlemme”, ha dichiarato al quotidiano Israel Hayom in quella che potrebbe essere letta come una divertente parodia. “È un bed and breakfast che abbiamo costruito con le nostre mani e pensato solo per le coppie, senza bambini. Negli ultimi due anni sono venute persone da tutto il mondo, per dimenticare la follia della vita quotidiana e per rilassarsi. Il bed and breakfast è un posto di dialogo, di conversazione tra le persone e di legami tra esseri umani, all’insegna di uno spirito positivo e non distruttivo, ed è questo che il boicottaggio sta cercando di distruggere”, ha dichiarato.


Tratteniamo a stento le lacrime, abbiamo il cuore spezzato. Dimentichiamo la follia quotidiana della città di Betlemme che, giusto di fronte, è tenuta in ostaggio. Basta svegliarsi all’alba e dirigersi al posto di blocco 300, per osservare i lavoratori a giornata ammassati come bestiame: altro che legami tra le persone.


I Kelman ricordano a quanti aderiscono al boicottaggio – ingrati! – che indossano pacemaker prodotti in Israele, che ci sono palestinesi che fanno i loro acquisti negli insediamenti ebraici di Etzion Bloc in Cisgiordania, e che i boicottaggi per motivi politici non sono ammessi. Ovunque una propaganda menzognera esorta al boicottaggio dell’Iran e di Hamas, ma per i territori occupati questo non vale.


Con una spettacolare dimostrazione di ottusità, i capi del consiglio delle colonie di Yesha hanno invitato a boicottare Airbnb. I Kelman, che vivono nell’entità di apartheid al di là del muro, sostengono che il boicottaggio sia razzista. Chiudere a chiave il campo profughi di Aida di fronte a loro è invece un atto di umanità. E invece, boicottare quelli che sono la causa del campo profughi di Aida ridotto una gabbia è razzismo.


Il generale della guerra contro il boicottaggio, il ministro per gli affari strategici Gilad Erdan, ha affermato che si tratta di una “decisione politica”, e il capo del consiglio locale di Beit El ci ha ricordato che “una volta ancora, gli ebrei sono vittime di discriminazione”. Un insediamento che causa terribili sofferenze ai loro vicini a Jalazone, uno dei campi profughi più poveri della Cisgiordania, si permette di parlare di discriminazione. Non ci sono limiti, non ci sono confini: quando si parla d’insediamenti illegali non ci sono mai confini


La decisione di Airbnb dimostra che qualsiasi attacco non violento contro i coloni è motivo di speranza, perché questo è apparentemente l’unico modo di porre fine all’occupazione. Ma questa sensazione ha il fiato corto, perché le macchine della propaganda sono certe di riuscire a sventare questa decisione tramite vari mezzi, compresa la minaccia di nuovi boicottaggi.


Speriamo che Airbnb non faccia marcia indietro, perché potrebbe mostrare la strada da seguire ad altre aziende. Grazie a Airbnb siamo entrati in un nuovo terreno di scontro: siti di villeggiatura privati, completamente privi di legittimità, diventano il nuovo vessillo del progetto di colonizzazione. Grazie Airbnb, non solo per il coraggio per il quale dovrà pagare un prezzo, ma anche per aver spostato il conflitto da una lotta per il diritto alla terra a uno per il diritto a un bed and breakfast.


(Traduzione di Federico Ferrone)


Privatizzare la sanità e per il resto non cambiare nulla: ecco il progetto di Salvini per la Sardegna (che piace anche al Pd) - Vito Biolchini



Matteo Salvini arriva in Sardegna e per lui è, come dicono i giornalisti, “un bagno di folla”. Sorprendente? Anche no. Il centrodestra è sempre alla ricerca di un capo e il segretario della Lega, se uno si accontenta, indubbiamente mostra di esserlo.
E con le offese ai meridionali come la mettiamo? Semplice: i sardi non si sentono meridionali, e anzi spesso nutrono verso gli italiani del sud un malcelato fastidio. Quindi nessuna controindicazione. Piuttosto, in Sardegna la Lega può rispolverare i suoi vecchi arnesi ideologici dell’autonomia e del rispetto delle comunità locali, nel resto d’Italia messi in soffitta in cambio delle parole d’ordine contro i migranti, ma da noi buoni da ritirare fuori alla bisogna (i sardisti bisognerà pure gratificarli).
Se la Sardegna che guarda a destra trova dunque in Salvini l’ennesimo capo cui affidarsi, che cosa cerca invece la Lega in Sardegna? Su quali temi batterà maggiormente per provare a vincere le regionali di febbraio?
Di sicuro nell’isola non faranno presa più di tanto le parole contro i migranti (in Sardegna non c’è alcuna emergenza in tal senso), né la Lega potrà strizzare l’occhio alla borghesia produttiva che da noi semplicemente non esiste. Ma per la Lega, chiamata ad esprimere il candidato presidente dello schieramento di centrodestra, le regionali sarde sono ugualmente importanti per due motivi.
Se il primo è semplice (provare a battere i 5 Stelle in una regione dove appena lo scorso 4 marzo il Movimento aveva eletto ben 16 parlamentari su 25), il secondo è sicuramente più sostanzioso e non è di poco conto: aprire alle imprese private lombarde il mercato della sanità.
Già qualche settimana fa il coordinatore regionale della Lega in Sardegna Zoffili aveva infatti dichiarato: “In caso di vittoria, vogliamo la sanità” (ecco il pezzo di Sardinia Post per rinfrescarvi la memoria).
La sanità sarda vale tre miliardi e 400 milioni di euro l’anno, di cui appena 100 destinati alle cliniche private convenzionate. Posto che con l’apertura del Mater Olbia bisognerà mettere sul piatto almeno altri 60 milioni all’anno, è chiaro che i margini di crescita per il privato in Sardegna sono enormi, tenuto conto che ormai negli ultimi anni le grandi famiglie della sanità sarde stanno lentamente lasciando il campo a grandi gruppi continentali (basti vedere la crisi del Policlinico Sassarese, in procinto di passare ai Rusconi, come ha raccontato La Nuova Sardegna).
La Lega in questo modo importerebbe in Sardegna il modello lombardo, che prevede ingenti investimenti a favore dei privati, soprattutto nell’ambito dell’emergenza-urgenza. Una operazione quantomeno dichiarata e che sarà difficile da contrastare, visto il modo servile in cui il Pd ha assecondato l’incredibile operazione Mater Olbia. Con quale coraggio il centrosinistra potrà lamentarsi se la Lega al governo della Regione favorirà la sanità privata?
Per il resto, Salvini non ha nulla da dire e da dare alla Sardegna, se non promettere che tutto resterà come prima, ovvero che non ci sarà nessun nuovo modello di sviluppo ma si potrà continuare col vecchio. E quindi avanti col metano (cavallo di battaglia di Pigliaru, del Pd, della Cgil e di Confindustria messi assieme), con le grandi infrastrutture (quali, poi?), fino (c’è da aspettarselo) con la prosecuzione della farsa Portovesme.
Avete letto l’intervista del leader della Lega sulla Nuova Sardegna di ieri? Con le sue rassicuranti parole di continuità con il nulla attuale, Salvini dà semplicemente una rispolverata al vecchissimo centrodestra sardo e nulla più.
Per cui, state tranquilli: tranne un po’ più di soldi alla sanità privata, con Salvini alla guida della Regione non cambierà proprio niente. Grazie ad un neoautonomismo di maniera, si continuerà a navigare a vista, con le solite briciole spacciate per cambiamento epocale, i soliti accordi trasversali tra schieramenti solo fintamente contrapposti, e avanti finché dura.
Tutto questo, ovviamente, con gran sollievo anche degli establishment sindacale, del centrosinistra e del Pd, spaventati più che dalla batosta elettorale prossima ventura, dalla prospettiva che la Sardegna possa veramente cambiare rotta.

Il conflitto e quelle carovane di migranti - Guido Viale




Nelle fotografie della marcia di migliaia di honduregni verso gli Stati Uniti è difficile non riconoscere il Quarto stato di Pelizza da Volpedo attualizzato; e non vedere in quel loro presentarsi disarmati e affamati a una frontiera blindata non solo la disperazione, ma anche la convinzione che la Terra è di tutti; e la rivendicazione di ripartire tra tutti i beni che i signori della globalizzazione rubano al loro paese, costringendoli a lasciarlo. Ma è difficile anche non riconoscere nell’esercito mobilitato per impedire loro l’ingresso negli Stati Uniti una riedizione dei cannoni con cui, sul finire dell’800, il generale Bava Beccaris disperdeva e sterminava la folla dei manifestanti che lottavano per il pane. Ma questa non è che la versione americana delle tante stragi provocate dalla guerra scatenata contro i migranti nel Mediterraneo per farli affogare o respingerli nei Lager libici, alla mercè degli ascari al soldo dei governi europei; o delle barriere e dei respingimenti messi in atto nell’area Schengen; o alla cacciata dai centri di accoglienza dei tanti profughi a cui viene e verrà negata ogni forma di protezione. Insomma, è difficile non rendersi conto che tra coloro che cercano di entrare nelle cittadelle di un benessere – in gran parte alle nostre spalle – e i poteri che si adoperano per respingerli è aperto un conflitto sociale o, se vogliamo, una “lotta di classe” di portata planetaria, destinati a dominare il nostro secolo.
A offuscare lo sguardo di fronte a uno scenario così chiaro c’è il fatto che a difesa dei loro privilegi e dei loro poteri giganteschi i signori della globalizzazione hanno messo in campo non solo armi e armamentari di ogni genere, ma anche e soprattutto la mobilitazione sovranista, cioè nazionalista, e anche fascista, ma sostanzialmente razzista, di una parte crescente dei loro sudditi diretti: cioè noi, i nativi dei paesi che sono meta di questo “assalto al cielo” da parte dei migranti. Gli interessi di migranti e nativi non sono opposti: entrambi, in forme e in misura diverse, sono sottoposti sempre più al giogo e allo sfruttamento della grande finanza che domina il mondo. Ma, come già al tempo del colonialismo storico e dell’imperialismo (“ultima fase del capitalismo”; magari!), quei nativi – che siamo noi europei e statunitensi “autoctoni” – sono l’unico referente delle forze che si pretendono argine o nemiche di quei poteri mondiali. Per loro i migranti restano un “intoppo” o un problema marginale; e così ci consegnano in ostaggio proprio al giogo del capitale che esse pretendono – o fingono – di combattere.

Oggi il conflitto sociale che oppone i poteri che governano la Terra alle genti in cammino che vorrebbero riappropriarsene è innanzitutto lotta per l’egemonia politica e culturale su quella “zona grigia” che siamo noi, popolazioni “native”. Questo spiega ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti: e cioè come mai in aiuto degli interessi che dominano un mondo ormai globalizzato siano stati mobilitati sovranismi, nazionalismi (e anche fascismi) di ogni genere; che non ne sono certo gli antagonisti, ma, anzi, il supporto più sicuro: l’unico in grado di far argine alle rivendicazioni, ma soprattutto ai corpi e alle vite, di quelle genti in cammino che esigono di condividere con noi i beni che sono stati loro sottratti.
Quanto a noi “nativi”, quell’egemonia l’abbiamo lasciata in mano all’avversario: e tanto più quanto più abbiamo pensato che per sottrargliela bastasse sostenere programmi e misure che non fanno i conti con il contesto generale di quel conflitto, ma considerano solo i pro e i contro immediati: l’offa avvelenata che dovrebbe proteggere la “nazione” da entrambi, il grande capitale e i migranti.
Oggi, a sostenere i poteri che dominano il mondo globalizzato c’è uno stuolo di loro rappresentanti impegnati in quasi tutto l’arco della politica, parlamentare e non, delle professioni, dell’accademia, delle forze di repressione. Mentre a sostenere le ragioni e i corpi delle genti che premono, anche al prezzo delle proprie vite, sui confini delle cittadelle di un benessere sempre più evanescente, non c’è per ora quasi nessuno; solo un papa che predica sempre di più al vento, impigliato com’è nel roveto degli interessi, dei vizi e della corruzione dell’organizzazione di cui è a capo; e le mille organizzazioni della solidarietà – quelle che lavorano ai confini di mare e di terra per salvare delle vite, quelle che operano onestamente nell’accoglienza, quelle impegnate nei rari quanto straordinari processi di inclusione sociale – messe ai margini e criminalizzateda una persecuzione che non dà tregua. È una lotta impari come lo era agli albori del movimento operaio, quando un “volgo” disperso e disorganizzato si scontrava con un apparato di repressione convertito dalla guerra al nemico esterno alla repressione del nemico interno.
Ma è qui che si decidono collocazione e compiti immediati e futuri di ciascuno: dare rappresentanza a chi non ce l’ha e impegnarsi alla riconquista di una egemonia culturale e politica su quella zona grigia che siamo noi, in nome, per conto, ma sempre più anche insieme, a quei migranti che oggi rappresentano la vera antitesi dello stato di cose esistente. Dimostrare con la pratica, e non a parole, che gli interessi profondi di nativi e migranti coincidono; che entrambi hanno tutto da guadagnare corrodendo il potere di chi ci governa. Tutto ciò – va ricordato – sullo sfondo di cambiamenti climatici, tempeste ambientali, guerre e sconvolgimenti sociali che sono all’origine sia della fuga forzata di milioni di persone dalle terre dove le loro comunità hanno abitato per secoli, sia del potere che si è andato concentrando in un pugno di satrapi sordi ai problemi posti dalla devastazione del pianeta. Il che ricongiunge indissolubilmente giustizia sociale verso il prossimo e giustizia ambientale verso il pianeta e il vivente; perché le prime e maggiori vittime di questo dissesto di dimensioni planetarie sono i poveri della Terra.
da qui

venerdì 23 novembre 2018

L’assassinio di Camilo Catrillanca - Associazione Il Cerchio



Nel pomeriggio del 14 novembre 2018 è stato ucciso, per mano del Comando Jungla dei carabinieri cileni, il giovane Camilo Catrillanca, nipote del lonko (capo politico e spirituale) Juan Segundo Catrillanca della comunità tradizionale di Temucuicui e figlio di Marcelo Catrillanca, storico attivista del popolo Mapuche.
Denunciando il tragico risultato dell’azione sconsiderata del Comando Jungla dentro il territorio della comunità, ricordiamo che questo reparto antiterrorismo dei carabinieri è stato creato dallo Stato cileno e formato in Colombia con il fine di reprimere le comunità Mapuche in lotta per i propri diritti di terra e autonomia.
Come associazione di osservatori umanitari, con quasi 10 anni di permamenza nelle comunità mapuche oggetto di questa repressione, siamo partecipi dello sdegno, della rabbia e della frustrazione che provano la famiglia, le comunità mapuche e le organizzazioni umanitarie locali. Denunciamo che si è trattato di un omicidio a sangue freddo per le modalità con cui è avvenuto il fatto e che stanno emergendo già a poche ore di distanza.
Il giovane mapuche è morto per le conseguenze di un proiettile entrato nella testa dalle spalle. La balistica smonta così immediatamente il racconto dei carabinieri che – cosa stranamente abituale – giustificano l’operazione come conseguenza di un furto d’auto. Fatto di per sé già abbastanza assurdo se si pensa che un delitto comune avrebbe visto il dispiego di mezzi corazzati militari, elicotteri e forze speciali con armi da guerra.
La realtà propende per indicare questa come l’ennesima azione deliberata contro una delle comunità mapuche più attive nel reclamare i propri diritti e sorgono dubbi che si tratti di omicidio mirato a colpire la famiglia di un leader storico come Catrillanca.
Camilo si trovava sul suo trattore, rientrando a casa da lavori nel territorio della comunità quando si è incrociato con il Comando Jungla risultando ucciso a sangue freddo. Esigiamo giustizia per questo omicidio, il cui sangue macchia direttamente le istituzioni e il governo cileno che finanziano e sostengono le azioni del Comando Jungla.
Camillo lascia la figlia di sei anni e la moglie in stato di gravidanza.
Questa morte si somma alle già troppe morti di comuneros mapuche per mano dello Stato cileno, come quelle di Alex Lemun, Matias Catrileo, Mendoza Collio per citarne alcune. E’ il risultato della chiusura dello Stato cileno al dialogo e al riconoscimento dei diritti del popolo mapuche ed è analogo a ciò che accade in luoghi del mondo come la Palestina.
Ci associamo al Centro de Investigación y Defensa Sur (CID Sur) nel chiedere immediatamente una indagine imparziale e che i responsabili siano tratti davanti alla giustizia a rispondere di questo omicidio.

martedì 20 novembre 2018

Nell’abisso Palestina - Giuseppe Catozzella:


All’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv vengo detenuto per quattro ore, scalzo, al freddo di una stanza spoglia con indosso soltanto una maglietta. Mi hanno sequestrato bagaglio, passaporto, cellulare e computer. Setacciano i file, la mia vita, mi lasciano al freddo ad aspettare. Nel borsone ho, ancora impacchettata, la kufia che Ehab Besseiso, il ministro della cultura palestinese, mi ha regalato, insieme a Handala, il bambino che si stringe le mani dietro la schiena, simbolo della resistenza della gente dei territori occupati, e a una grande chiave di latta, altro simbolo: ogni palestinese possiede ancora le chiavi della casa che è stato costretto a sgomberare in fretta e furia sotto l’occupazione, pensando che un giorno ci sarebbe tornato. E invece. «Se voglio ti tengo qui per sempre», mi dice l’ufficiale di frontiera israeliano con in mano il mio iPhone, puntando il dito su una foto scattata da me a Hebron, coloni che per strada spintonano due ragazzini palestinesi, e su un’altra che mi ritrae con il ministro.

Sono in Palestina per accompagnare l’uscita del mio ultimo romanzo, E tu splendi, in tutti i paesi del mondo arabo. Con Al-Mutawassit, il mio editore, decidiamo che debba essere il “luogo più silenzioso del pianeta” a ospitare il mio incontro con la stampa araba, il festival letterario di Ramallah. Io però nel paese ci sono entrato, al massimo adesso rischio di non uscirne.
La scrittrice palestinese Susan Abulhawa, in Palestina invece non riesce a entrarci, come molti dei palestinesi costretti all’esilio. Il 1. di novembre 2018, al Ben Gurion la Abulhawa è incarcerata per due giorni, atterrata per partecipare a un festival letterario a Gerusalemme, prima di essere respinta negli Usa, dove vive. «Noi palestinesi siamo gli unici che non possono entrare in Palestina», scrive poi su Facebook. «Sono gli israeliani che dovrebbero andarsene, non io. Io sono figlia di questa terra, qui c’è la casa della mia famiglia».
Naturalmente si riferisce alla Nakba del 1948. La “catastrofe”, la creazione dello Stato d’Israele e la conseguente occupazione militare della Palestina. Il conflitto più lungo dell’era contemporanea.
La Palestina ti sfida a essere disposto a guardare l’ingiustizia della legge dell’uomo. L’esercizio più difficile. Un paese annientato tra le guerre tra i leader del mondo e le illusioni di pace. «Qui la situazione è tremendamente semplice. Non c’è niente di complesso. C’è un paese occupato e un popolo che occupa», mi dice un ragazzo americano, volontario dell’International Solidarity Movement.
La Palestina è un buco nero, è il buco nero del mondo. È lo scarto, ciò che resta dopo che i leader della terra hanno consumato le loro lotte di potere. La Palestina è l’osceno. Armi chimiche, fosforo bianco. Ogni arma proibita dagli accordi internazionali può essere utilizzata dagli israeliani contro i palestinesi. Più di centomila morti in settant’anni. Nessuno vede, nessuno parla. Se parli di ciò che accade in Palestina le parole vengono annerite. Scompaiono. Dai media, dal discorso pubblico. Conosce, l’uomo, ingiustizia più grande di questa: tutti sanno, e tutti fanno finta di non sapere?
Mi trovo a Ramallah, e so che per capire davvero gli equilibri – e i continui sfondamenti – che reggono il Medio Oriente (e su più vasta scala la dialettica tra Usa e monarchie del Golfo da un lato, e Russia, Iran e la Siria di Assad dall’altro) l’unica cosa che si può fare è sprofondare dentro quel buco nero. Non c’è oggi luogo sulla terra in cui la separazione tra parole e fatti, tra dialettica pubblico-diplomatica e realtà, sia più grande.
“Due Stati; “soluzione diplomatica” sono formule a cui in Palestina nessuno crede più. Di sicuro dal 14 maggio, giorno di duri scontri a Gaza e di più di 60 vittime, il giorno in cui Trump ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, di fatto chiudendo per sempre anche solo l’idea di un dialogo, e serrando le fila, apertamente e attraverso il genero e braccio destro Kushner, all’asse anti-Iran composta da Usa-Israele e dalle monarchie del Golfo.
Questo è la Palestina oggi: lo scarto di una strategia anti-Iran. «La verità è che ci hanno chiuso in prigione nella nostra terra», mi dice Khalid Mansour, un funzionario del ministero della Cultura. Oltre al festival di Ramallah, per me sono previsti incontri nelle università di Nablus, Hebron e Betlemme, e ci spostiamo a bordo di un fuoristrada. «Hanno preso tutto. Per entrare in quello che ci resta del nostro paese dobbiamo chiedere loro il permesso. Sempre che quel giorno abbiano voglia di aprire i check-point». Non è solo l’intifada dei coltelli mai cessata – l’ultima spiaggia della resistenza-, è il continuo stato di violenza a cui tutti sono ormai assuefatti.
A un altro check-point, quello di Kalandia, fisso negli occhi un soldato-ragazzino che stringe un mitragliere più grande di lui, in piedi davanti a una grande stella di David. Dallo specchietto retrovisore, l’autista della nostra jeep se ne accorge, e sibila “no” tra i denti. Il soldato assesta due potenti pugni sul vetro posteriore della vettura, la macchina si ferma. Il finestrino del lato del passeggero si abbassa, il giovanissimo militare infila la canna del fucile fino a una spanna dal viso di chi guida. Io non respiro, l’autista arabo invece gli sbraita contro, nella lingua dell’occupazione, in ebraico. Urla che avrebbe potuto spaccare il vetro, picchiando così forte. Il ragazzino si sfila gli occhiali da sole. Poi infila dentro la testa e ci scruta, noi zitti. Fissa me. Tre, quattro secondi. Non riesco ad abbassare lo sguardo, non sono abituato a una violenza così esibita, mi viene da resisterle. Gli viene detto, in ebraico, che sono uno scrittore italiano. Lui scrolla la testa. Poi fa segno che possiamo andare, in fretta. Quando siamo lontani, parte un applauso spontaneo all’autista. «Non si fissano. Mai», mi dicono. «I militari se vogliono sparano. Più sono giovani, più sparano. Ammazzano. Tengono coltelli pronti, in caso di uccisione. Estraggono il corpo dall’auto, gli affiancano un coltello e scattano due foto. Non gli accadrà mai niente».
Non è solo la violenza, è anche la continua vessazione. Sono gli ulivi millenari sradicati a ogni nuova confisca di terreno e insediamento di una nuova colonia, è l’acqua dei palestinesi razionata per colmare le piscine delle ville dei coloni. È una coppia di anziani malati ritratta in una foto diventata famosa tra i palestinesi, in carrozzina e bombole d’ossigeno davanti alle macerie della loro abitazione rasa al suolo dalle truppe d’invasione: smarriti, alla fine della loro vita non sanno dove andare. Sono gli arresti arbitrari (700 mila persone imprigionate negli ultimi trent’anni), senza capo d’imputazione né giudizio, rinnovabili ogni tre mesi, che possono estendersi anche per vent’anni.
Il ministro della Cultura mi porta a vedere il film-documentario palestinese di Raed Andoni, Gost Hunting. Conosco uno degli attori principali, Mohammed Khattab, lui stesso, come il regista, recluso per 17 anni, senza un motivo, un’imputazione. «Lo fanno per disgregarci socialmente», mi dice. «Se separi un padre dai suoi figli per diciassette anni stai rompendo una famiglia, e interrompendo la catena della memoria, cercando di portare quei ragazzi a scappare, a spopolare la Palestina». E invece, come Handala, devono resistere, mani intrecciate dietro la schiena.
Tanto più dopo il 6 novembre scorso, quando Netanyahu ha approvato un disegno di legge per cui i giudici delle corti militari potranno sancire la pena capitale ai detenuti palestinesi anche senza la maggioranza del consiglio, in maniera arbitraria. Si potrà ammazzare in prigione.
Il giorno dopo dovremmo andare all’università di Betlemme, ma a Ramallah è tutto sospeso. Impossibile uscire dalla città. C’è una grande manifestazione contro un nuovo insediamento. Ci sono scontri. Forse c’è un morto, si dice. Forse c’è un ragazzo morto.
La mattina seguente siamo a Hebron, dove c’è un insediamento di coloni nel centro della città. Faccio la mia conferenza all’università, i ragazzi sono interessati e curiosi, una decina di ragazze si presenta con copie pirata di Non dirmi che hai paura, che ha raggiunto un numero incredibile di lettori, soprattutto ragazzi, in tutti i paesi arabi. Nel centro della città di Hebron, una fitta rete metallica protegge i palestinesi dagli oggetti e dagli escrementi che i coloni lanciano loro addosso.
Mentre camminiamo, alcuni coloni aggrediscono due ragazzini palestinesi che hanno l’unica colpa di passare di lì, sotto lo sguardo di militari israeliani di origine etiope (sono moltissimi gli etiopi che sentono la chiamata di Zion, in cambio di un posto sicuro e stipendiato dai coloni). Io scatto la foto che l’ufficiale all’aeroporto troverà, e che mi costerà il fermo.
«Due giorni fa», mi spiega Khalid Mansour, «un colono ha investito in auto un ragazzo di diciassette anni che andava a scuola. È da due giorni quindi che i palestinesi lanciano pietre ai militari israeliani. E questa è solo la solita rappresaglia dei coloni».
«Il mio paese non è una valigia», dice un celebre verso del più famoso poeta palestinese, Mahmoud Darwish, nato prima della Nakba del 1948. «La mia casa invece è una valigia», mi dice Ghayath Almadhoun, poeta palestinese quarantenne – amico, prima di parole, poi di persona. Nato in un campo profughi di Damasco, Ghayath è ora cittadino svedese, ma la sua famiglia è stata espulsa due volte. Ghayath mi guarda, e sorride. Mi legge una sua poesia, che si chiama “Israele“. «Senza Israele, mio padre non sarebbe stato espulso dalla Palestina / Non sarebbe scappato in Siria / Non avrebbe mai incontrato mia madre / E io non sarei qui, ora / E tu non saresti la mia amante».
Sull’aereo, una volta liberato dalla polizia di frontiera, ci penso. È vero, è tutto terribilmente semplice. «Noi palestinesi paghiamo le colpe dell’orrore europeo della Shoah», mi ha detto Ghayath. «Toccherebbe all’Europa cercare di mediare, per aiutare la Palestina a ritrovare una dignità». Già, l’Europa. Quale Europa?, penso.