giovedì 12 giugno 2025

Gli ultimi giorni di Gaza - Chris Hedges

 



Il Genocidio è quasi completo. Quando sarà concluso, non solo avrà decimato i palestinesi, ma avrà anche messo a nudo il fallimento morale della civiltà occidentale


Questa è la fine. L’ultimo capitolo intriso di sangue del Genocidio. Finirà presto. Settimane. Al massimo. Due milioni di persone sono accampate tra le macerie o all’aperto. Decine di persone vengono uccise e ferite ogni giorno da proiettili, missili, droni, bombe e proiettili israeliani. Mancano di acqua pulita, medicine e cibo. Sono giunti al collasso. Malati. Feriti. Terrorizzati. Umiliati. Abbandonati. Indigenti. Affamati. Senza speranza.

Nelle ultime pagine di questa storia dell’orrore, Israele sta sadicamente adescando i palestinesi affamati con promesse di cibo, attirandoli verso la stretta e congestionata striscia di terra di quindici chilometri che confina con l’Egitto. Israele e la sua cinicamente chiamata Fondazione Umanitaria per Gaza, presumibilmente finanziata dal Ministero della Difesa israeliano e dal Mossad, stanno trasformando la fame in un’arma. Stanno attirando i palestinesi nel Sud di Gaza come i Nazisti convinsero gli ebrei affamati del Ghetto di Varsavia a salire sui treni diretti ai Campi di Sterminio. L’obiettivo non è sfamare i palestinesi. Nessuno sostiene seriamente che ci siano sufficienti centri di cibo o aiuti umanitari. L’obiettivo è stipare i palestinesi in complessi pesantemente sorvegliati e deportarli.

Cosa succederà ora? Ho smesso da tempo di fare previsioni. Il destino ha un modo tutto suo di sorprenderci. Ma ci sarà un’esplosione umanitaria definitiva nel Mattatoio Umano di Gaza. Lo vediamo con la crescente folla di palestinesi che lotta per ottenere un pacco di cibo, che ha portato alla morte di almeno 130 persone e al ferimento di oltre 700 da parte di appaltatori privati ​​israeliani e statunitensi nei primi otto giorni di distribuzione degli aiuti. Lo vediamo con Benjamin Netanyahu che arma le bande legate all’ISIS a Gaza che saccheggiano le scorte alimentari. Israele, che ha eliminato centinaia di dipendenti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), medici, giornalisti, funzionari pubblici e poliziotti in omicidi mirati, ha orchestrato l’implosione della società civile.

Sospetto che Israele faciliterà una breccia nella barriera lungo il confine egiziano. Palestinesi disperati si riverseranno nel Sinai egiziano. Forse finirà in un altro modo. Ma finirà presto. Non c’è molto altro che i palestinesi possano sopportare.

Noi, partecipanti a pieno titolo a questo Genocidio, avremo raggiunto il nostro folle obiettivo di svuotare Gaza ed espandere il Grande Israele. Caleremo il sipario sul Genocidio trasmesso in diretta. Ci saremo fatti beffe degli onnipresenti programmi universitari di studi sull’Olocausto, concepiti, a quanto pare, non per prepararci a porre fine ai Genocidi, ma per deificare Israele come una vittima eterna autorizzata a compiere Massacri di Massa. Il mantra del “Mai Più” è una barzelletta. L’idea che quando abbiamo la capacità di fermare un Genocidio e non ci riusciamo, siamo colpevoli, non ci riguarda. Il Genocidio è una politica pubblica. Approvata e sostenuta dai nostri due partiti al potere.

Non c’è più niente da dire. Forse è proprio questo il punto. Lasciarci senza parole. Chi non si sente paralizzato? E forse anche questo è il punto. Paralizzarci. Chi non è traumatizzato? E forse anche questo era pianificato. Nulla di ciò che facciamo, a quanto pare, può fermare le Uccisioni. Ci sentiamo indifesi. Ci sentiamo impotenti. Genocidio come spettacolo.

Ho smesso di guardare le immagini. Le file di piccoli corpi avvolti in sudari. Gli uomini e le donne decapitati. Le famiglie bruciate vive nelle loro tende. I bambini che hanno perso arti o sono paralizzati. Le maschere mortuarie gessose di coloro che sono stati tirati fuori dalle macerie. I lamenti di dolore. I volti scarni. Non posso.

Questo Genocidio ci perseguiterà. Risuonerà nella storia con la forza di uno tsunami. Ci dividerà per sempre. Non si può tornare indietro.

E come ricorderemo? Non ricordando.

Una volta finita, tutti coloro che l’hanno sostenuta, tutti coloro che l’hanno ignorata, tutti coloro che non hanno fatto nulla, riscriveranno la storia, inclusa la loro storia personale. Era difficile trovare qualcuno che ammettesse di essere un Nazista nella Germania del dopoguerra, o un membro del Ku Klux Klan una volta terminata la Segregazione Razziale negli Stati Uniti del Sud. Una nazione di innocenti. Persino di vittime. Sarà lo stesso. Ci piace pensare che avremmo salvato Anna Frank. La verità è diversa. La verità è che, paralizzati dalla paura, quasi tutti noi salveremo solo noi stessi, anche a spese degli altri. Ma questa è una verità difficile da affrontare. Questa è la vera lezione dell’Olocausto. Meglio che venga cancellata.

Nel suo libro “Un Giorno, Tutti Saranno Sempre Stati Contrari a Questo”, Omar El Akkad scrive:

Se un drone dovesse vaporizzare un’anima senza nome dall’altra parte del pianeta, chi di noi vorrebbe esporsi? E se si scoprisse che erano terroristi? E ​​se l’accusa di base si rivelasse vera e, implicitamente, venissimo etichettati come simpatizzanti del terrorismo, ostracizzati, insultati? In genere, le persone sono motivate con più zelo dalla peggiore delle cose plausibili che possa capitare loro. Per alcuni, la peggiore delle cose plausibili potrebbe essere la fine della propria discendenza in un attacco missilistico. Intere vite ridotte in macerie, il tutto giustificato preventivamente in nome della lotta contro terroristi che sono automaticamente terroristi, perché sono stati uccisi. Per altri, la peggiore delle cose plausibili è essere insultati.

Non si può decimare un popolo, effettuare bombardamenti a tappeto per 20 mesi per Cancellare le loro case, i loro villaggi e le loro città, Massacrare decine di migliaia di innocenti, organizzare un assedio per ridurli alla fame, cacciarli dalla terra dove hanno vissuto per secoli senza aspettarsi conseguenze. Il Genocidio finirà. La risposta al Regno del Terrore di Stato inizierà. Se pensate che non accadrà, non sapete nulla della natura umana o della storia. L’uccisione di due diplomatici israeliani a Washington e l’attacco contro i sostenitori di Israele durante una protesta a Boulder, in Colorado, sono solo l’inizio.

Chaim Engel, che partecipò alla rivolta nel Campo di Sterminio Nazista di Sobibor, in Polonia, descrisse come, armato di coltello, attaccò una guardia del campo.

“Non è una decisione”, spiegò Engel anni dopo. “Reagisci e basta, reagisci istintivamente, e io ho pensato: ‘Lasciateci fare, andiamo e facciamolo’. E ci sono andato. Sono andato con l’uomo in ufficio e abbiamo ucciso questo tedesco. A ogni colpo, dicevo: ‘Questo è per mio padre, per mia madre, per tutte queste persone, per tutti gli ebrei che avete ucciso'”.

Qualcuno si aspetta che i palestinesi si comportino diversamente? Come dovrebbero reagire quando l’Europa e gli Stati Uniti, che si elevano ad avanguardia della civiltà, hanno sostenuto un Genocidio che ha Massacrato i loro genitori, i loro figli, le loro comunità, Occupato le loro terre e ridotto in macerie le loro città e case? Come possono non odiare coloro che hanno fatto loro questo?

Quale messaggio ha trasmesso questo Genocidio non solo ai palestinesi, ma a tutto il Sud del mondo?

È inequivocabile. Voi non contate. Il Diritto Umanitario non si applica a voi. Non ci importa delle vostre sofferenze, dell’assassinio dei vostri figli. Siete parassiti. Non valete nulla. Meritate di essere Uccisi, Affamati ed Espropriati. Dovreste essere Cancellati dalla faccia della terra.

“Per preservare i valori del mondo civile, è necessario incendiare una biblioteca”, scrive El Akkad:

Fare saltare in aria una moschea. Incenerire ulivi. Vestirsi con la lingerie di donne fuggite e poi fotografarle. Radere al suolo le università. Saccheggiare gioielli, opere d’arte, derrate alimentari. Banche. Arrestare bambini che raccolgono verdure. Sparare a bambini che tirano pietre. Far sfilare i prigionieri in mutande. Rompere i denti a un uomo e infilargli uno scopino in bocca. Scatenare cani da combattimento contro un uomo con sindrome di Down e poi lasciarlo morire. Altrimenti, il mondo incivile potrebbe vincere.

Ci sono persone che conosco da anni e con cui non parlerò mai più. Sanno cosa sta succedendo. Chi non lo sa? Non rischieranno di inimicarsi i colleghi, di essere diffamati come antisemiti, di mettere a repentaglio la loro posizione, di essere rimproverati o di perdere il lavoro. Non rischiano la morte, come fanno i palestinesi. Rischiano di macchiare i patetici monumenti di status e ricchezza che hanno dedicato la vita a costruire. Idoli. Si inchinano davanti a questi idoli. Adorano questi idoli. Ne sono schiavi.

Ai piedi di questi idoli giacciono decine di migliaia di palestinesi assassinati.

 (Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto)

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L’attacco ucraino alle basi russe: ora si apre la “pista Kazakstan” - Fulvio Scaglione


Della grande operazione ucraina che ha portato alla distruzione (o danneggiamento) di un numero imprecisato di bombardieri strategici russi (certo non i 42 di cui si parla, o quel 34% dell’intera flotta annunciato da Zelensky, più probabilmente una dozzina) si sa troppo poco per tirare conclusioni affrettate. Tanto meno per parlare di una “nuova Pearl Harbor” o per annunciare svolte in una guerra in cui, per portare un solo ulteriore elemento, gli analisti militari ucraini di Deep State registrano tra aprile e maggio un aumento del 19% degli attacchi russi quotidiani. Si possono fare però alcune considerazioni, lasciando che sia il tempo (se mai ne sapremo di più) a confermarle o smentirle.

La prima è questa: davvero un’operazione costata ai servizi segreti ucraini un anno e mezzo di preparazione, come ribadito dallo stesso presidente Zelensky, è potuta scattare esattamente alla vigilia del secondo round di trattative a Istanbul? Non è un po’ troppo bello per essere vero? O dobbiamo pensare che in realtà fosse già pronta prima e che le autorità di Kiev abbiano permesso ai russi di bombardare le città ucraine solo per aspettare il momento migliore per colpire? Nè l’una né l’altra tesi convincono. E le operazioni più spettacolari di guerra ibrida degli ucraini hanno la tendenza a essere un po’ troppo puntuali rispetto al quadro politico che accompagna questa guerra. Il sabotaggio al gasdotto Nord Stream arriva proprio quando è necessario staccare l’Europa da qualunque ipotesi di residuo scambio con la Russia. Questo attacco alle basi aeree russe si dispiega proprio mentre la Germania del nuovo cancelliere Merz e altri Paesi discutono delle forniture di missili per colpire in profondità la Russia e le sue installazioni militari. Non è tutto un po’ troppo preciso per essere casuale?

 

Non solo. L’agenzia Reuters ha anticipato il contenuto del memorandum con le condizioni che gli ucraini vogliono presentare stamattina alla delegazione russa. Sarebbero queste: cessate il fuoco completo per 30 giorni; scambio di prigionieri di guerra “tutti per tutti”; nessuna limitazione per le forze armate ucraine; nessun riconoscimento delle perdite territoriali; obbligo per la Federazione Russa di pagare i danni di guerra. Qualunque trattativa parte da posizioni distanti, ovvio. Ma davvero questa postura da Paese vincitore non ha nulla a che fare con il colpo portato contro le basi russe? Non pare che uno giustifichi l’altro e viceversa? Non sembra dire: possiamo continuare la guerra e farvi male, quindi dettiamo noi le condizioni?

Se questa considerazione ha un senso, diventa quasi inevitabile ipotizzare una partecipazione attiva delle intelligence occidentali a questa audace operazione ucraina. Zelensky ha smentito prima ancora che se ne parlasse (“Un’operazione autonoma ucraina che resterà nei libri di storia”, ha detto con legittimo orgoglio) ma le testimonianze sul ruolo degli specialisti Nato e occidentali nella pianificazione bellica ucraina sono ormai troppo qualificate e numerose (si veda per esempio questo articolo di Davide Bartoccini) per credere che Vasil’ Maljuk, il capo del’SBU ucraina (il servizio segreto interno) abbia fatto tutto da solo. Di tutte le pressioni e le minacce che in questi mesi Donald Trump ha rivolto all’Ucraina e a Zelensky, solo una ha davvero preoccupato la dirigenza di Kiev: quella, attuata per sole 24 ore, di bloccare il flusso di informazioni di intelligence. Qualcosa vorrà pur dire.

Terza considerazione: Zelensky ha detto che per attaccare le basi russe sono stati impiegati 117 droni. I quali sono stati assemblati in territorio russo e, come sappiamo, trasportati da alcuni camion nelle vicinanze delle basi. Poi gli operatori sarebbero tornati indietro verso l’Ucraina e, nel passaggio (questi è, almeno, la tesi ora più dibattuta), avrebbero fatto saltare i ponti provocando i disastri ferroviari.

La seconda parte è ipotetica e ci pare poco verosimile. Anzi, potrebbe far comodo agli ucraini far credere che i loro sabotatori abbiano riattraversato mezza Russia per tornare a casa (facendo, en passant, saltare qualche ponte) e che non siano invece usciti dall’ombra di quel quasi milione e mezzo di ucraini che vivono in Russia. Ma la prima è certa. E quindi la domanda è: come sono arrivati nel cuore della Russia i componenti per 117 droni? Dovremmo credere che, come i sabotatori, abbiano attraversato la zona di guerra, poi mezza Russia fino ad arrivare a Celjabinsk, nel magazzino dove, secondo gli inquirenti russi, sono stati montati e preparati all’uso, prima di essere “distribuiti” dai camion?

Qui si apre un capitolo tutto da esplorare di questa storia. Celjabinsk è prossima al confine tra Russia e Kazakstan (6.846 chilometri, il secondo confine più lungo del mondo), per le sue caratteristiche assai permeabile. Da quando è presidente Kasym-Jomart Tokayev, il Kazakstan persegue, con accortezza ma con molta chiarezza, stimolato dalla pressioni occidentali e dal timore di eventuali rivendicazioni territoriali russe, una politica di progressivo distacco dalla Russia, con capitoli anche clamorosi. L’80% del petrolio kazako viene esportato verso l’Europa attraverso il porto russo di Novorossisk, che “casualmente” ha sofferto negli ultimi tempi di numerosi guasti e intoppi. Nell’ottobre scorso Tokayev ha declinato l’invito pressante della Russia a entrare nei Brics, destando un’immediata reazione russa: blocco immediato all’importazione di tutta una serie di prodotti agricoli kazaki.

Ma l’episodio forse più eclatante e rivelatore è stato l’ultimo. L’anno scorso, con un referendum che ha ottenuto oltre il 71% di sì, il Kazakstan ha deciso di costruire una centrale nucleare. Tema spinoso per un Paese che, ai tempi dell’Urss, ha sopportato sul proprio territorio oltre 450 test nucleari. Decisa la costruzione della centrale, è stato quasi naturale, per i kazako, rivolgersi all’agenzia statale russa Rosatom, che nel settore ha maturato una grande esperienza e affidabilità. Poi, poche settimane fa, il colpo di scena: Rosato viene liquidata e la costruzione della centrale riaffidata alla cinese CNNC. Non solo: i portavoce del Governo kazako hanno detto senza mezzi termini che la decisione è stata presa per “diversificare i rapporti di politica estera”.

Per l’attacco ucraino alle basi russe, quindi, si apre una “pista kazaka”. Perché portarli dal Kazakstan sarebbe stato il modo più semplice per far arrivare i droni in Russia. Perché il Kazakstan sta accumulando una serie di contenziosi politici ed economici con la Russia e ha tutto l’interesse (vedi export, del petrolio ma non solo) a coltivare buoni rapporti con l’Europa. Perché il Kazakstan, non meno dei Baltici, teme la Russia e ha solo da guadagnare da un ridimensionamento delle capacità belliche e dello spazio politico della Russia. Non dimentichiamo che il Kazakstan fu il primo Paese, prima ancora dell’Ucraina con il Memorandum di Budapest del 1994, a rinunciare nel 1991 all’arsenale nucleare, trasferendo 1.400 testate alla Russia. E di certo gli eventi del Donbass prima e della guerra poi non hanno contribuito a tranquillizzarlo.

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mercoledì 11 giugno 2025

Gaza: farina, sangue e collaborazionisti. Coloni senza freni in Cisgiordania.

 

Cari abitanti di Gaza: se non c’è farina, allora mangiate sangue e bugie - Gideon Levy

La terribile accusa di sangue, farina e bugie è impressa per sempre nella storia del popolo ebraico. Ora la narrazione è capovolta, incentrata su sangue, farina e bugie di Israele. Il sangue e la farina sono visibili in una fotografia di Gaza pubblicata questo fine settimana: mostra un cadavere mutilato, ricoperto di farina mescolata al sangue del corpo, in un’orribile pasta rosa. Il volto del defunto è coperto da una giacca a brandelli; era uno delle decine di persone uccise nel centro di distribuzione alimentare di Gaza, che le Forze di Difesa Israeliane hanno trasformato in un’altra Zona di Morte.

Le bugie sul sangue e sulla farina sono state diffuse dal Portavoce delle IDF e dai suoi asserviti esecutori: la maggior parte dei corrispondenti militari israeliani. Un’inchiesta di Haaretz, che ha stabilito, sulla base di filmati, testimonianze oculari e modifiche alla versione dei fatti fornita dall’esercito, che le IDF sono responsabili delle sparatorie che hanno ucciso decine di persone, nonché un’inchiesta della CNN, hanno confutato queste bugie, una per una. Ci ritroviamo, quindi, con sangue, farina e bugie. Non possiamo tacere.

Domenica scorsa, decine di persone sono state uccise a colpi d’arma da fuoco mentre si trovavano in fila per ricevere aiuti alimentari. Il Portavoce dell’IDF ha affermato che l’incidente mortale “semplicemente non è accaduto!”. Che sia accaduto o no, almeno 35 persone sono state uccise e 170 ferite in una fila piena di disperazione.

Al mattino, l’IDF ha cercato di affermare che le sue forze non avevano sparato contro i civili vicino o all’interno del centro di soccorso, ma in serata ha ammesso che i soldati avevano sparato “colpi di avvertimento” a circa un chilometro dal centro di soccorso e che “non c’è alcun collegamento con le vittime nella zona”.

Le menzogne sono diventate un insulto all’intelligenza. Il luogo in cui le persone sono state uccise si trovava all’interno di quella che è stata definita l’area del complesso. La Fondazione che gestisce la struttura si è unita all’insabbiamento: “Questi resoconti falsi sono stati attivamente fomentati da Hamas”.

Chiunque abbia seguito gli eventi a Gaza in buona fede ha saputo fin dall’inizio che sono stati i soldati a Massacrare i civili affamati, a meno che questi ultimi non si siano suicidati in massa.

Dall’uccisione della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh in Cisgiordania nel 2022, passando per l’uccisione di 15 paramedici a Rafah a marzo, e fino a questo Massacro, è già chiaro che le dichiarazioni del Portavoce delle IDF devono essere considerate false fino a prova contraria. Un evento raro.

Quando si tratta di Crimini di Guerra, la probabilità di sentire una parola di verità dalle IDF, soprattutto nelle ore immediatamente successive all’incidente, quando è ancora possibile diffondere menzogne, è trascurabile o addirittura inesistente. Israele e i suoi media non sono particolarmente turbati da questo; dopotutto, tutti vogliono vivere nella piacevole e avvincente menzogna della moralità militare.

Ma questa volta non ha funzionato. L’inchiesta di Jeremy Diamond e dei suoi colleghi è stata un duro colpo alle menzogne dell’esercito e dei media in Israele. Nir Dvori, un nome ordinario israeliano per un ordinario giornalista israeliano, deve imparare le basi del giornalismo da Diamond. Almeno frequentare una lezione introduttiva, così può iniziare a comprendere il suo ruolo di giornalista.

Anche Ilana Dayan potrebbe imparare un capitolo sulle indagini da Diamond: il giornalismo investigativo non consiste solo nel strappare emozioni sdolcinate, patriottiche e militaristiche al pubblico, soprattutto in tempo di guerra. Non una sola inchiesta del tipo di quella condotta dalla CNN è mai stata trasmessa sulla televisione israeliana.

Diamond ha portato 17 testimonianze oculari, l’esame balistico delle munizioni trovate nei corpi dei cadaveri e l’analisi dei suoni degli spari, tutti a dimostrazione del fatto che la fonte degli spari erano mitragliatrici in dotazione esclusivamente alle IDF. Testimoni oculari hanno riferito di essere stati colpiti da carri armati, elicotteri, droni e dal mare. Nemmeno la più “deviata” immaginazione avrebbe potuto attribuire questo Massacro a qualcuno che non fosse l’IDF. Ma le IDF hanno ignorato le espressioni di condanna che, in ogni caso, si sentivano solo all’estero e hanno continuato a Massacrare gli affamati.

Ameen Khalifa, che domenica strisciava sulla sabbia, terrorizzato dagli spari, e aveva dichiarato alla CNN: “Stiamo portando il nostro cibo, intriso di sangue, stiamo morendo dalla voglia di procurarcelo”, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco martedì, due giorni dopo. Aveva trent’anni ed era allo stremo dalla fame quando è morto. Questa volta, l’esercito ha inventato una nuova menzogna: i soldati si sentivano minacciati.
La distribuzione di cibo, che si era trasformata in distribuzione di sangue, è stata sospesa per alcuni giorni.

Se non c’è farina, allora mangiate sangue, cari abitanti di Gaza, sangue, farina e bugie.

(*) Tratto da Haaretz, 8 giugno 2025.  Traduzione: La Zona Grigia.

 

Israele arma gli jihadisti. Bibi: «Che male c’è?» - Eliana Riva

Terra rimossa Il premier conferma le accuse sul sostegno a gang filo-Isis nella Striscia. Ancora bombe sugli ospedali, ancora giornalisti uccisi.

Israele sta armando a Gaza una milizia locale formata da criminali e jihadisti filo-Isis.
Lo ha dichiarato ieri l’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman durante un’intervista alla radio pubblica Kan Bet.
Cento, forse duecento uomini guidati da Yasser Abu Shabab con lo scopo di indebolire Hamas.

«Israele ha dato fucili d’assalto e armi leggere alle famiglie criminali a Gaza per ordine di Netanyahu – ha dichiarato Lieberman – Dubito che sia passato attraverso il gabinetto di sicurezza. Nessuno può garantire che queste armi alla fine non saranno rivolte contro Israele». Secondo l’ex ministro e leader del partito Yisrael Beiteinu (ultranazionalista laico), Netanyahu sta usando le milizie per indebolire Hamas, proprio come Hamas è stata potenziata in funzione anti Autorità palestinese. Quds News riporta che Abu Shabab è noto a Gaza per la sua vicinanza a gruppi estremisti e per attività criminali, tra cui lo spaccio di stupefacenti. È considerato un collaborazionista di Israele.

LE SUE MILIZIE hanno ammesso di aver saccheggiato aiuti alimentari delle Nazioni unite e operano in una zona sotto il diretto controllo dell’esercito israeliano. In alcuni video pubblicati da Abu Shabab, si vedono i suoi uomini allestire un campo di tende e scaricarvi pacchi di cibo. Il quotidiano israeliano Haaretz ha identificato la posizione grazie alle immagini satellitari fornite da Planet Labs. Sedici tende sono in costruzione a est di Rafah, tra il corridoio Filadelfia e l’asse Morag, solo a cinque km a nord dal valico di Kerem Shalom. Le truppe israeliane occupano l’intera fascia. Video diffusi nelle scorse settimane mostrano le milizie che ispezionano ambulanze della Croce rossa e convogli Onu. Netanyahu ha ammesso tutto: «Abbiamo gestito clan che si oppongono ad Hamas. Cosa c’è di sbagliato?» Ogni mezzo è considerato lecito per Israele. Anche affamare un’intera popolazione o bombardare tende e ospedali.

IERI PER L’OTTAVA VOLTA dal 7 ottobre 2023, l’esercito ha attaccato l’ospedale Battista Al-Ahli di Gaza City. Tre palestinesi uccisi, Suleiman Hajjaj, Ismail Badah e Samir Al-Rifai, tutti giornalisti. Un quarto è grave e decine di persone sono rimaste ferite. Il direttore ha dichiarato che il personale sanitario ha deciso di non sospendere le sue attività: «Non abbiamo altra scelta – ha detto ad Al-Jazeera – Siamo l’unico ospedale nella parte nord». La mamma di Suleiman ha raccontato disperata che non hanno avuto il coraggio, all’inizio, di dirle che era stato ucciso: «È stata una persona gentile e buona per tutta la sua vita. Mio figlio è un giornalista e io sono fiera di lui».

L’esercito, come sempre, ha dichiarato di aver colpito un «centro operativo» e di aver ucciso un membro della Jihad islamica, senza specificarne il nome. Gli attacchi israeliani hanno ammazzato 70 persone in 24 ore e ne hanno ferite 189.

I bombardamenti sono diventati più numerosi negli ultimi giorni e tutto accade mentre il blocco di aiuti umanitari continua ad aggravare la fame. La mancanza di acqua e l’arrivo del caldo rendono estremamente pericolosa la situazione sanitaria e senza medicine anche le malattie più comuni non possono essere curate.

CONTARE IL NUMERO dei morti diventa a volte impossibile: la protezione civile ha pochi mezzi e senza carburante i feriti e i corpi non possono essere recuperati. Rimangono per la strada o sotto le macerie. Quei pochi camion gestiti dalla fondazione israelo-americana che controlla l’ingresso degli aiuti, sono stati bloccati per due giorni. Ieri mattina la Ghf (Gaza Humanitarian Foundation) ha annunciato che avrebbe tenuto i cancelli chiusi anche giovedì, ufficialmente per ragioni di «manutenzione e riparazione». L’esercito ha intimato alla popolazione di non avvicinarsi alle strutture, considerate zona militare.

Inaspettatamente, in serata, la stessa fondazione ha poi dichiarato di aver addirittura distribuito 1,4 milioni di pasti «senza incidenti». In un’inchiesta, la Cnn ha analizzato filmati e testimonianze relativi alle stragi dei palestinesi intorno ai centri di distribuzione della Ghf. L’emittente ha concluso che il suono degli spari, come i proiettili recuperati sulla scena, sono compatibili con le armi in dotazione all’esercito israeliano. Anche la geolocalizzazione dei video conferma le dichiarazioni dei testimoni, che hanno accusato i militari di aver sparato sulla folla. Stati uniti e Israele continuano a difendere il lavoro della Ghf e la salda unione di intenti tra Washington e Tel Aviv è stata riconfermata durante il voto al Consiglio di sicurezza Onu di mercoledì: gli Usa hanno posto il veto sulla risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato.

Da Il Manifesto, 6 giugno 2025.

 

Coloni israeliani senza freni, attaccato Deir Dibwan: 35 feriti - Michele Giorgio

«I coloni sono arrivati prima del tramonto, intorno alle sei. Erano decine, correvano da tutte le parti e davano fuoco a tutto ciò che avevano davanti: case, baracche, auto, stalle, macchinari, tutto. Abbiamo avuto solo il tempo di scappare». Mansour Abu Kaid ha ancora la paura dipinta sul volto mentre ci racconta l’assalto subito alla sua fattoria, la «Abu Shahada» di Deir Dibwan, da almeno quaranta israeliani, in prevalenza giovani giunti dagli avamposti coloniali sorti come funghi sulle collinette circostanti. «A un certo punto ho pensato: ecco, è finita, non ne uscirò vivo. L’unica cosa che desideravo in quei momenti era salvare mia moglie e il resto della mia famiglia. Per fortuna le pecore e gli altri animali sono scappati quando (i coloni) hanno bruciato le stalle. Ora sto provando a ritrovarli», aggiunge Abu Kaid.

L’uomo, visibilmente provato, va a sedersi su ciò che resta di un serbatoio dell’acqua. Intorno a lui ci sono solo detriti, tubi anneriti dalle fiamme, lamiere contorte e pezzi di tende e teloni risparmiati dal fuoco. «Sono nel loro mirino da tempo – prosegue – non è il primo attacco che subisco. Dicono che mi spingo con il gregge vicino ai loro avamposti, ma questi sono i nostri terreni, questa è terra palestinese, sono loro gli intrusi».

ABU KAID CALCOLA in almeno 100mila shekel (circa 25mila euro) i danni subiti. Sa che nessuno, a cominciare dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), lo risarcirà per ciò che ha perduto. E sa anche che i soldati israeliani che, poco prima del nostro arrivo, sono giunti alla fattoria per «svolgere indagini», non agiranno in alcun modo contro i coloni. «Vengono ora…dov’erano ieri (mercoledì), mentre ci bruciavano le case, le stalle, le automobili? Non sono intervenuti, fanno sempre così: guardano, e spesso aiutano i coloni», protesta Kamal, un agricoltore venuto a portare solidarietà ad Abu Kaid. Lo stesso pensano i 35 palestinesi feriti da lanci di sassi e bastonate – due dei quali sono stati portati in ospedale – mentre cercavano di fermare i coloni e spegnere gli incendi.

L’attacco non ha riguardato solo Deir Dibwan. Sono state prese di mira anche le auto palestinesi di passaggio sulla strada che dal villaggio porta alla superstrada vicina. I coloni hanno inoltre invaso il vicino Beitin, dove avrebbero tentato, senza successo, di incendiare diverse abitazioni.

I massacri quotidiani di civili palestinesi e la fame tengono i riflettori accesi su Gaza. L’attenzione sulla Cisgiordania, inevitabilmente, è ridotta. Ma in questa parte del territorio palestinese è in corso un’offensiva senza precedenti da parte dei settler israeliani, appoggiati in particolare dall’ultranazionalista religioso Bezalel Smotrich. Ministro delle finanze con competenze speciali per la Cisgiordania, Smotrich si considera il «ministro della colonizzazione». È sua – e del ministro della difesa, Israel Katz – l’iniziativa che ha portato all’approvazione, pochi giorni fa, da parte del governo Netanyahu, dei progetti per la costruzione di 22 nuovi insediamenti in Cisgiordania.

Smotrich, che è anche un aperto sostenitore della ricostruzione delle colonie a Gaza, è ora impegnato – l’ha scritto sul suo profilo su X – a promuovere leggi e provvedimenti a tutela dei coloni che potrebbero essere colpiti da sanzioni internazionali. L’amministrazione americana Biden, lo scorso anno, aveva adottato misure contro alcuni settler particolarmente violenti, poi revocate da Trump. Ora, in Israele, si temono sanzioni europee.

L’OFFENSIVA è incessante, quotidiana, e andrà avanti perché nessuno la ferma. Soprattutto, è funzionale al progetto non dichiarato di confinare i villaggi palestinesi in aree sempre più ristrette e di spingere le comunità più piccole, specie quelle beduine, ad abbandonare le loro terre sotto la pressione di minacce e intimidazioni continue. Due settimane fa, a poca distanza da Deir Dibwan, la popolazione di Maghayer Dir è stata costretta a evacuare. Ormai, tutti i centri abitati, piccoli e grandi, della Cisgiordania a est di Ramallah e Nablus, in particolare quelli che si affacciano sulla Valle del Giordano fino all’area di Masafer Yatta, a sud di Hebron, sono diventati un bersaglio.

Gli avamposti – di solito un paio di caravan e container portati a ridosso di uno o più villaggi palestinesi dai cosiddetti «giovani delle colline», ragazzi ebbri degli insegnamenti tossici dell’ultranazionalista religioso Yitzhak Ginzburg – si confermano la minaccia più insidiosa per le comunità palestinesi più esposte e isolate. Un portavoce della «Commissione palestinese per la resistenza al muro e alle colonie» (Cprmc) ci ha riferito che solo nel mese di maggio gli israeliani hanno tentato di stabilire 15 avamposti in Cisgiordania.

«Continuiamo a domandarci perché ci fanno tutto questo», ci dice Abu Kaid. «Siamo dei contadini, dei pastori, e viviamo da generazioni su queste terre. Abbiamo tutto il diritto di rimanerci. Sono loro che devono andare via e lasciarci vivere in pace», conclude prima di tornare a radunare il gregge.

(*) Da Il Manifesto, 6 giugno 2025.

 

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Genocidio in Palestina: le tecniche con cui i media normalizzano l’orrore – Maylyn Lopez

Gaza, 2025. La Striscia è sprofondata in una catastrofe umanitaria di proporzioni bibliche. Secondo i dati più aggiornati delle Nazioni Unite, oltre 50.000 palestinesi hanno perso la vita e circa 115.000 sono rimasti feriti nel massacro che Israele ha messo in scena dal 7 ottobre 2023. 1,9 milioni di persone – praticamente l’intera popolazione di Gaza – risultano sfollate, mentre intere porzioni del territorio sono state rase al suolo. Città come Rafah semplicemente sono state cancellate dalla mappa. 

Mentre le bombe e le privazioni mietono vittime, l’indignazione internazionale resta attenuata, intermittente, quasi anestetizzata. Come è possibile? Quali meccanismi comunicativi e cognitivi permettono al mondo di assistere, perlopiù impassibile, a questa tragedia?

La dissonanza cognitiva è quel malessere psicologico che insorge quando credenze e realtà confliggono. Nel caso della Palestina, chi da un lato crede nei diritti umani universali ma dall’altro supporta o giustifica le azioni militari indiscriminate di Israele, si trova in una tensione interna. Per ridurla, inconsciamente può attuare strategie mentali: ad esempio convincersi che “in fondo Hamas usa i civili come scudi umani, quindi quelle morti non sono colpa nostra”, oppure che “è una guerra al terrorismo, i civili sono vittime inevitabili”. Si sposta l’attenzione dalla sofferenza umana al quadro narrativo che la giustifica. 

Un ruolo rilevante lo gioca anche il bias empatico di gruppo. Studi neuroscientifici hanno dimostrato che gli esseri umani provano più empatia per chi percepiscono come simile o appartenente al proprio gruppo, mentre l’empatia cala verso l’“altro”, soprattutto se intervengono paure e pregiudizi. In situazioni di conflitto etnico-nazionale, i media e la propaganda enfatizzano le differenze, seminano paura dell’altro (dipinto magari come fanatico, barbaro o terrorista), con l’effetto di ridurre biologicamente la nostra capacità di provare compassione. 

Questo vale in maniera evidente nel caso dell’attacco da parte di Israele contro la Palestina. Nei media occidentali, la sofferenza di questo popolo è filtrata attraverso frame o cornici che riducono o omettono:  si parla di “conflitto”, “operazione militare”, “risposta difensiva”. Raramente si usano parole come “massacro”, “occupazione”, “pulizia etnica”. Il lessico anestetizza l’orrore. Le vittime israeliane vengono descritte come “brutalmente uccise”; i palestinesi, semplicemente, “muoiono”. Le responsabilità svaniscono dietro il passivo verbale: “sono stati trovati morti”.

Dietro l’indifferenza di parte della comunità internazionale verso la tragedia palestinese, agiscono potenti meccanismi psicologici. Judith Butler, filosofa, si chiede provocatoriamente: “Chi è considerato umano? Quali vite contano come vite? Che cosa rende una vita degna di lutto?” . Nel suo saggio Frames of War, Butler sostiene che nei nostri apparati cognitivi e culturali esiste una cornice che decide quali vite siano “piangibili” (grievable) e quali no. Se una vita non rientra nel quadro di ciò che la nostra società considera degno di cordoglio, la sua perdita non ci scuote né ci indigna allo stesso modo. Per risolvere l’incongruenza fra i nostri valori umani dichiarati e l’indifferenza di fatto verso certe vittime, tendiamo ad adattare la percezione – minimizzando la sofferenza altrui, giustificando l’ingiustificabile come “necessario”.

Come aveva brillantemente anticipato Carl von Clausewitz, il fenomeno comunicativo è diventato il vero centro di gravità della guerra: guida la percezione, la modifica e adatta alle necessità di chi ha il potere dell’informazione. Lo conferma anche Bernard Cohen, secondo cui “se un governo perde il controllo sulla narrazione mediatica, può perdere il potere di usare la forza militare”.

Framing mediatico: vittime “degne” o vittime invisibili

Nel suo saggio The Press and Foreign Policy (1963), il politologo Bernard Cohen formulò una massima tuttora illuminante: i media “possono non riuscire sempre a dire alla gente cosa pensare, ma sono sorprendentemente abili nel dire alla gente a cosa pensare”.

Questa funzione di agenda-setting diventa cruciale nei conflitti. Già Edward Said denunciava che ai palestinesi è stata a lungo negata perfino la “permission to narrate”, ovvero il permeso di raccontare la propria storia. La narrazione dominante del conflitto israelo-palestinese nei media occidentali tradizionali è spesso improntata a un frame squilibrato: gli attacchi che colpiscono civili israeliani ricevono una copertura mediatica immediata, dettagliata, personalizzata; al contrario, le sofferenze palestinesi – pur numerose e collettive – tendono a essere raccontate in modo vago, impersonale, talvolta giustificate con il lessico asettico delle “rappresaglie” o dei “danni collaterali”.

Con le più avanzate tecniche nel campo della persuasione di massa, la comunicazione sceglie cosa inquadrare e di mostrare. Come spiega il politologo Robert Entman, “inquadrare significa selezionare alcuni aspetti della realtà percepita e renderli più salienti nel testo comunicativo”. Così, i media possono decidere se mostrare le macerie di un ospedale bombardato a Gaza o piuttosto le immagini del terrore in un kibbutz israeliano; se usare parole come “massacro” oppure “operazione di sicurezza”, stabilendo implicitamente, per esempio, chi merita empatia e chi invece può essere ignorato.

Le neuroscienze e la psicologia cognitiva confermano che le persone sono più inclini ad agire quando vedono e comprendono la sofferenza di un individuo identificabile. È il cosiddetto identifiable victim effect. Le storie personali attivano il sistema limbico, sede delle emozioni. I gruppi anonimi, invece, generano distacco, specialmente quando le immagini vengono oscurate con l’etichetta “contenuto sensibile”.

In questo scenario, i media decidono cosa si può vedere, cosa no. Questa dicotomia alimenta un doppio standard empatico, che crea una gerarchia morale tra le vittime. È su questa base che si costruisce — e si legittima — l’accettazione silenziosa di un genocidio.

I teorici della comunicazione Edward Herman e Noam Chomsky già negli anni ’80 analizzarono questo fenomeno con il concetto di worthy and unworthy victims – vittime degne e indegne. Nel modello di Herman e Chomsky, i media nelle società occidentali tendono a dare ampia visibilità e umanità alle vittime di regimi nemici o di cause “utili” alla propria agenda, mentre minimizzano le vittime di regimi alleati o “amici” .  In questo modo, le vittime degne monopolizzano l’empatia pubblica, diventano “persone come noi”; le “vittime indegne”, al contrario, rimangono numeri senza nome.

Dissonanza cognitiva e bias empatici

La conseguenza è duplice. Da un lato, l’opinione pubblica occidentale è incoraggiata a immedesimarsi nelle paure e nel dolore di una parte (tipicamente, "gli israeliani colpiti da attacchi terroristici"), riconoscendo loro pienamente lo status di vittime umane innocenti. Le vittime dell’altra parte (i palestinesi sotto le bombe, le famiglie decimate a Gaza) vengono, al contrario, spersonalizzate. Questa sproporzione narrativa alimenta un bias empatico: l’empatia collettiva si attiva selettivamente, guidata non tanto dall’entità oggettiva della sofferenza, quanto dal frame mediatico e politico in cui quella sofferenza è presentata. Chi muore “dalla parte sbagliata” rischia di non entrare nemmeno nel cerchio della nostra compassione. 

Questo meccanismo rientra perfettamente nel modello di Manufacturing Consent elaborato da Noam Chomsky ed Edward Herman: l’informazione passa attraverso filtri che la rendono compatibile con gli interessi dominanti. La sofferenza palestinese è oscurata, la sua legittimità negata e per questo motivo le narrazioni alternative vengono screditate o tacciate di antisemitismo.

Un esperimento citato su Psychological Science ha rilevato che basta esporre le persone a immagini spaventose (collegate all’altro gruppo) per sopprimere la risposta empatica quando vedono membri di quel gruppo soffrire. La paura e la propaganda sono molto efficaci: attivano l’amigdala e altre strutture cerebrali legate all’allarme e all’aggressività, disattivando le connessioni empatiche. In altre parole, se siamo bombardati di notizie che dipingono un popolo intero come minaccioso, arretrato o diverso, finiamo col “sentire” meno il dolore di quel popolo. Si instaura quella che alcuni psicologi definiscono “morte dell’empatia” verso l’esterno.

Parallelamente, l’eccesso di immagini di violenza può avere un duplice effetto: mobilitare le coscienze oppure, al contrario, intorpidire i sentimenti. La scrittrice Susan Sontag, in Regarding the Pain of Others, rifletteva su come la visione continua di atrocità in fotografia e video possa servire a “rafforzarsi contro la debolezza, a rendersi più insensibili” . 

 Se ci limitiamo a consumare passivamente immagini rischiamo di costruirci una corazza emotiva per sopravvivere all’orrore, specialmente se percepiamo di non poter fare nulla per cambiarlo. Sontag però aggiungeva che non è la quantità di immagini in sé a desensibilizzarci, bensì la passività con cui le assorbiamo. 

La compassione è un’emozione instabile: senza un’azione, senza una risposta etica, finisce per appassire. Così, l’opinione pubblica– esposta a un flusso costante di violenza in Medio Oriente – rischia di cadere in una sorta di shock del reale: o volta lo sguardo per non soccombere alla sofferenza altrui, oppure la osserva come attraverso un vetro, senza più reagire. In entrambi i casi, la conseguenza è micidiale: l’agonia di un popolo perde la capacità di interpellare le coscienze, diventa rumore di fondo.

La comunicazione mediatica non è solo veicolo di notizie: è uno strumento di potere.  Gli errori cognitivi – come il bias di conferma, omissione e illusione della simmetria – agiscono a livello inconscio e determinano il modo in cui percepiamo la realtà. La dissonanza cognitiva nasce proprio dal conflitto tra i nostri valori dichiarati, per esempio: giustizia, diritti umani, e l’accettazione di pratiche disumane: fame, uccisioni di bambini e vittime inocenti, bombardamenti su scuole. Come scriveva Susan Sontag, nessun “noi” può essere dato per scontato di fronte al dolore degli altri. E come ci insegna l’eredità di Edward Said, ai popoli oppressi va restituito il diritto di raccontarsi: ascoltare le voci palestinesi, le loro storie quotidiane di resilienza oltre che di sofferenza, è il primo passo per restituire loro dignità e per ricalibrare il nostro stesso senso di giustizia. Di fronte alla tragedia palestinese, l’urgenza è duplice: agire per fermare l’ecatombe, e raccontare con verità ciò che sta accadendo. In gioco c’è la nostra stessa umanità.

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martedì 10 giugno 2025

L’azione di Israele contro la Freedom Flotilla è illegale: la “Madleen” doveva poter attraccare - Riccardo Noury

Ai sensi del diritto internazionale, Israele è la potenza occupante della Striscia di Gaza, la cui popolazione è dunque occupata. L’occupante ha l’obbligo giuridico di fornire aiuti

Di fronte al blocco totale dell’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza da parte di Israele, durato oltre 80 giorni, e all’orwelliana invenzione di una sorta di “assistenza militarizzata”, con gli aiuti forniti da contractor statunitensi sotto controllo israeliano e i catastrofici esiti che abbiamo visto nei giorni scorsi, un gruppo di attiviste e attivisti a bordo della nave “Madleen” della Freedom Flotilla ha cercato di rimediare, da semplici cittadine e cittadini, a ciò che gli Stati non fanno.

Com’è andata lo sappiamo: un’azione illegale e violenta da parte delle forze israeliane condita da espressioni di disprezzo (“lo yacht dei selfie”), la cattura dell’equipaggio, le consuete accuse gratuite di antisemitismo, anche un po’ di “rieducazione” consistente nel fargli vedere immagini dei crimini di Hamas del 7 ottobre 2023 (come se le 12 persone a bordo della “Madleen” non ne fossero a conoscenza). Com’è finita, con l’ordine di espulsione, lo potrete leggere in dettaglio negli aggiornamenti di questo sito.

Va ricordato che, ai sensi del diritto internazionale umanitarioIsraele è la potenza occupante della Striscia di Gaza, la cui popolazione palestinese è dunque occupata. L’occupante ha l’obbligo giuridico di fornire aiuti all’occupato. Aggiungiamo che le misure provvisorie ordinate dalla Corte internazionale di giustizia nell’ambito dell’esame del ricorso del Sudafrica per violazione della Convenzione sul genocidio, impongono a Israele di revocare immediatamente il blocco illegale della Striscia di Gaza, facilitare la fornitura di assistenza umanitaria e consentire missioni internazionali di accertamento dei fatti.

 

In linea con tali obblighi, Israele avrebbe dovuto permettere alla “Madleen” di attraccare e consegnare gli aiuti umanitari.

C’è un aspetto non sufficientemente messo in luce in questa vicenda, tanto evidente quanto inquietante: le persone palestinesi sono razzializzate. Per 20 mesi hanno gridato aiuto e i governi dell’Europa campione dei doppi standard, con poche eccezioni, non si sono mossi. Quando cittadine e cittadine del nostro continente – tra cui parlamentari e personalità note nei campi dell’attivismo e dell’arte – hanno assunto l’iniziativa, ecco che i rispettivi governi sono stati obbligati a elevare qualche timida protesta.

Non sono mancate le battutine, proprio in Italia, dove il ministro degli Esteri ha ironizzato – richiamando alla memoria la famosa pubblicità televisiva dei pennelli Cinghiale – sulla poca stazza della “Madleen” e dunque sui pochi aiuti che avrebbe potuto portare. Insomma, “una provocazione”.

Domanda: non è più provocatorio non prendere posizione contro il genocidio israeliano nella Striscia di Gaza?

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Il nuovo album di Anouar Brahem: la poesia del dolore - Raffaello Carabini

 

Un quartetto di musicisti stupendi, guidato dal virtuoso africano dell’oud, ci propone un disco che è un’autentica meraviglia poetica. Da centellinare con gli occhi chiusi e il cuore spalancato.

 

Virtuoso del liuto arabo oud, il tunisino Anouar Brahem è uno dei più sensibili e originali musicisti dell’area mediterranea. Propone un’equilibrata sintesi fra la tradizione, cui è saldamente legato, e il senso della contemporaneità, vivificato dalla naturale curiosità verso diverse culture, non solo musicali. Curiosità che lo porta a collaborare con artisti di varie aree geografiche, fra i quali Manu Dibango e Teresa De Sio (per l’album Ombre Rosse), ma anche con l’ensemble multinazionale Astacus Project, ideato dal percussionista Tony Rusconi e comprendente, fra gli altri, il cantante basco Benat Atchary e il violinista portoghese Carlos Zingaro oppure con l’Orchestre National de Jazz, diretta da Paolo Damiani e con jazzisti come John SurmanPalle DanielssonJack De JohnetteRichard Galliano. Inoltre Brahem vanta una formazione classica, che lo ha portato a diventare anche il direttore dell’orchestra sinfonica di Tunisi.

Tra i suoi numerosi album ci piace ricordare Madar, del 1994, in cui il suo incantevole oud si unisce ai lirici sassofoni del norvegese Jan Garbarek e alle evocative tabla del pakistano Shaukat Hussain: un incontro all’insegna di una musica aperta all’improvvisazione più feconda e ispirata da un dialogo intenso e sincero, dimentico degli “omaggi orientalisti” per evocare un personalissimo scenario interiore.

«Non ho la sensazione, quando lavoro, di prendere dalla tradizione», diceva Brahem, esponendo la sua concezione espressiva, in una vecchia intervista al collega Michele Coralli. «Lavoro secondo le mie concezioni su una musica che sento mia. Naturalmente non si può negare del tutto la tradizione, che ci si porta sempre dentro. Nella musica araba ci sono espressioni diverse, scuole differenti, a seconda della zona geografica: la musica cambia moltissimo dal Medio Oriente all’Andalusia, eppure normalmente viene considerata come appartenente a un unico ceppo, a un unico genere. Ci sono in realtà stili assai diversi, anche a seconda delle sue funzioni, basti pensare alla musica sacra e religiosa. Io ho iniziato un viaggio particolare in mezzo a queste realtà, a partire dalla scuola arabo-andalusa e mediorientale di musica classica. Successivamente ho scoperto altre espressioni e questo è stato un modo per arricchirmi.»

Il viaggio di Brahem era fermo da otto anni, da quando aveva pubblicato Blue Maqams, e ora riprende il suo volo altamente sofisticato e lirico, in cui i legami ancestrali diventano quelli della contemporaneità e della globalità, dove la poesia si coniuga con la sofferenza dell’oggi, dove la classicità colta araba e occidentale, i suoni mediterranei, il jazz più moderno, la tradizione e soprattutto la genialità del compositore si uniscono per proporci a ogni brano una nuova scoperta sonora ed emozionale, un nuovo brivido lungo le vie del cuore e della consapevolezza. Il nuovo album After The Last Sky è un capolavoro senza se e senza ma, intitolato come un verso del poeta palestinese Mahmoud Darwish, che chiede: «Dove dovrebbero volare gli uccelli, dopo l’ultimo cielo?»

La musica di Brahem è sensibile e insieme rigorosa, grazie anche stavolta al contributo di musicisti di altissimo livello mondiale. Sono il contrabbassista Dave Holland, già al suo fianco in Thimar del 1998 (il tunisino cita un celebre claim pubblicitario per definire la loro collaborazione: «il modo in cui suona Dave mi mette le ali»), il pianista Django Bates, anche lui, come Holland, tra i jazzisti inglesi che hanno elaborato un suono dalla flessuosa identità, confrontandosi con la declinazione scandinava, con i suggerimenti francesi e italiani e con la modernità americana, e la splendida violoncellista Anja Lechner, il cui “canto” in bilico tra mille arcobaleni sonori è quasi leggenda.

L’“ultimo cielo” del musicista e compositore nordafricano è quello dove, invece delle migrazioni felici di uccelli multicolori, si muovono troppo rapidi missili, bombardieri e droni portatori di morte e di orrore, di superbia e sopraffazione, il cielo di Gaza, il cielo dell’Ucraina. E l’“ispirazione collettiva” (come ama definire la musica del suo quartetto internazionale) diventa una toccante poesia della sofferenza, un lamento che ha le sfumature del vecchio blues degli schiavi scandito da bassi profondi in Never Forget, dipinge la malinconia di paradisi perduti perché soltanto immaginati nelle lunghe improvvisazioni di The Sweet Oranges Of Jaffa e in Edward Said’s Reverie è dedica allo scrittore americano-palestinese Edward Wadie Sa’id scomparso nel 2003, co-fondatore (con il direttore d’orchestra Daniel Barenboim) della West Eastern Divan Orchestra e teorico dell’“orientalismo”, sorta di esame di coscienza della maniera eurocentrica di affrontare la realtà orientale da parte degli studiosi occidentali.

Ancora l’affannoso Endlessly Wandering ci porta al vociare inascoltato e confuso della ragione e all’urlo muto e irrazionale della folla sofferente, il duetto tra Brahem e Holland di The Eternal Olive Tree sfiora il sublime nel disegnare l’incrociarsi struggente degli archi di tutto il cd, suonati con l’archetto oppure pizzicati oppure quasi strappati, Dancing Under The Meteorite unisce i quattro come un fascio di fiori di campo depositato all’inizio di un sentiero che conduce all’unione tra mente e cuore, seguendo coraggio della buona volontà e la malinconica title track è aperta da un assolo di oud che ci rammenta come i grandi sappiano rendere il virtuosismo funzionale alla narrazione.

Il magnifico, a volte introspettivo altre nostalgico, a volte contemplativo altre vitalistico, universo sapientemente composito di poesia e cultura di Brahem vive un perenne equilibrio di spunti e languori, di discrezione e intensità, in un mondo cameristico eppure senza confini di una bellezza inquieta e totale, compreso tra due brani dove il violoncello è protagonista. A partire dal processionale, vibrante, essenziale inizio di Remembering Hind fino all’assoluto lirismo del conclusivo Vague, in cui Brahem lascia tutto il racconto ai suoi compagni, defilandosi come chi è rimasto senza parole, senza voce di fronte al dramma.

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lunedì 9 giugno 2025

L'Eternauta – scritto da Héctor Oesterheld e disegnato da Francisco Solano López

ho letto l'Eternauta (I) e l'Eternauta II, pubblicati da 001 Edizioni, dopo aver visto la serie con Ricardo Darin.

ero curioso e allora ho preso i volumi in biblioteca.

una grande sorpresa!

la storia è coinvolgente e non riesci a staccarti, la serie tv di Netflix è povera cosa.

 il fumetto di Héctor Oesterheld e Francisco Solano López è molto più ricco e più profondo.

chi si vuol bene lo cerchi e sarà sorpreso della grandezza di questo fumetto (in realtà letteratura e fantascienza insieme).

buona (straordinaria) lettura.

  


qui una bella (più che) recensione di Marco Sommariva.

 



In Italia è stato pubblicato nel 1977 sul numero 27, anno III, del settimanale Lanciostory e successivamente su una rivista omonima.[3] Per l'edizione pubblicata sul settimanale Lanciostory le tavole vennero rimontate con l'approvazione di López per essere adattate al formato della rivista. Si è anche intervenuto nel dare a qualche oggetto un aspetto più moderno (per esempio la radio così com'era stata disegnata da Solano López è diventata una a transistor) e a dare un'ambientazione più attuale alla vicenda (all'inizio della storia, ad esempio, il disegnatore dice a Khruner, quando gli chiede in che epoca si trova, di trovarsi verso la fine del XX secolo, anziché a metà di esso, mentre, riguardo ad una rivista sulla scrivania, dice che in copertina vi è la foto del lancio di un missile, invece di una di Chruščёv).[20]

Nel 1979 è stata pubblicata, in versione integrale, dall'editore Comic Art. Negli anni 1990 venne ristampato dalla Eura Editoriale in tre volumi nella collana Euracomix (nn. 55-56-57) e nei primi tre volumi della collana Fantacomix Day.

Nel 2003 ebbe larga diffusione, come allegato al quotidiano La Repubblica nella serie I classici del fumetto di Repubblica, la prima versione con i disegni di Solano Lopez.

In seguito, per lungo tempo non è stato possibile ristampare in Italia nuove edizioni per problemi sui diritti:[21] una nuova edizione si ebbe nel 2011 edita dalla 001 edizioni effettuando nuove scansioni dalle tavole originali recuperate. L'Eternauta II nel 2012 è stato ristampato dalla 001 con il titolo L'Eternauta - Il ritorno.[22] L'ultimo Eternauta venne pubblicato in 5 volumi da 001 Edizioni, 2016-2017[23]; noto anche come L'Eternauta, il ritorno pubblicato incompleto su i Giganti dell’Avventura n. 63, Editoriale Aurea[18].

L'Eternauta III è stato pubblicato nel 2019 da 001 Edizioni[24].

A partire da aprile 2024 Panini Comics ha iniziato a ristampare l'intera saga, in volumi cartonati di pregio:

·         L'Eternauta (aprile 2024),

·         L’Eternauta – Parte seconda (settembre 2024),

·         L'Eternauta: Il ritorno (aprile 2025)…

da qui 

 

 

…Il Narratore-scrittore: metanarrazione e memoria

Il personaggio del narratore — l’autore stesso? — introduce un livello metariflessivo. Egli è l’ascoltatore, il cronista, colui che riceve e trasmette. Rappresenta la funzione civile dello scrittore, ma anche il lettore ideale: colui che ascolta per ricordare, che ricorda per agire. Il racconto diventa così atto politico e dispositivo memoriale.

In sintesi, i personaggi de L’Eternauta non sono semplici pedine della trama, ma portatori di senso. Essi traducono, attraverso la narrazione, le grandi domande dell’umanità: come si resiste? Per cosa si lotta? Cosa significa essere comunità? La loro forza è nella semplicità apparente, nella capacità di incarnare, nel quotidiano, l’epica della dignità.

L’Eternauta: struttura narrativa, stile grafico e innovazioni formali

La struttura narrativa de L’Eternauta è uno degli elementi più distintivi dell’opera, rendendola non solo un classico del fumetto argentino ma anche un laboratorio formale di avanguardia. Il racconto, pubblicato a partire dal 1957 su Hora Cero Semanal, si articola secondo una doppia temporalità e una complessità strutturale che anticipano molte tecniche narrative della graphic novel contemporanea.

Struttura a cornice e metanarrazione

La storia si apre nel presente narrativo, con l’apparizione di Juan Salvo nello studio di un autore (alter ego di Oesterheld). Da qui si dipana il racconto principale, che è già memoria, testimonianza, documento. Questo dispositivo a cornice introduce una riflessione metanarrativa: chi racconta? Perché racconta? A chi? Il fumetto si fa così racconto del racconto, e la narrazione diventa strumento di trasmissione intergenerazionale della memoria.

Uso del tempo e ritmo narrativo

Oesterheld e Solano López manipolano il tempo con grande consapevolezza: alternano ellissi, flashback, tempi lenti e accelerazioni drammatiche. La sequenza della nevicata letale è esemplare nella sua dilatazione temporale, che permette al lettore di interiorizzare la catastrofe. Il ritmo, modulato anche dalla disposizione delle vignette, costruisce una suspense che deriva più dalla costruzione formale che dal colpo di scena.

Stile grafico e composizione della tavola

Il disegno di Francisco Solano López è parte integrante della narrazione. Il suo realismo non è mai neutrale: è selettivo, espressivo, drammatico. Gli ambienti domestici, le strade deserte, i dettagli urbani di Buenos Aires sono resi con precisione documentaria, ma sempre carichi di tensione. Le tavole alternano griglie regolari a soluzioni dinamiche, sfruttando lo spazio bianco come elemento drammaturgico.

Inquadrature e linguaggio cinematografico

Le scelte di inquadratura ricordano lo storyboard cinematografico. Plongée, contre-plongée, dettagli ravvicinati e campi lunghi si susseguono in funzione della tensione emotiva. Questo linguaggio visivo permette al lettore di muoversi nello spazio del racconto come se fosse un osservatore in soggettiva. L’effetto è una lettura immersiva, quasi sensoriale…

da qui

 

…La forza e il coraggio di L’Eternauta non sono solo narrativi: sono anche esistenziali. Héctor Oesterheld pagò con la vita il suo impegno politico e umano. Negli anni ’70, l’autore si avvicinò sempre più alla sinistra rivoluzionaria e aderì al movimento dei Montoneros. Questo lo rese un bersaglio della giunta militare argentina, che prese il potere con il golpe del 1976 e instaurò un regime di terrore.

Nel 1977 Oesterheld fu rapito dalla polizia militare. Morì torturato in un centro clandestino di detenzione. Non fu mai ritrovato il suo corpo. Ma la tragedia non finì con lui.

Anche le sue quattro figlie, Estrela Ines, Diana, Marina e Beatriz, furono rapite e uccise. Estrela Ines fu uccisa con il marito. Una di loro, Marina, era incina di 8 mesi. Come molte delle vittime del regime, anche lei è oggi considerata tra i cosiddetti “desaparecidos“, le decine di migliaia di persone scomparse sotto la dittatura.

L’Eternauta, dunque, non è solo una grande storia: è una testimonianza, una denuncia, un atto di resistenza. L’opera e la biografia del suo autore si intrecciano in un nodo inseparabile, che trasforma il fumetto in memoria viva, necessaria.

Il segno di Solano López

I disegni di Francisco Solano López contribuiscono in modo essenziale all’atmosfera del fumetto. Il suo tratto realistico, espressivo e dettagliato immerge il lettore in una Buenos Aires cupa, paralizzata dal silenzio e dalla paura. Non si tratta di un mondo astratto, ma di una città reale: le strade esistono davvero, gli edifici sono riconoscibili, le espressioni dei personaggi sono quelle di persone comuni, sopraffatte dalla tragedia.

Il bianco e nero, lontano da ogni effetto spettacolare, amplifica il senso di isolamento e di imminente catastrofe. Ogni vignetta è carica di tensione, e il ritmo visivo accompagna perfettamente la narrazione incalzante di Oesterheld.

Eredità e attualità

L’Eternauta è stato ripubblicato più volte, tradotto in numerose lingue e reinterpretato da vari artisti. In Italia uscì per la prima volta nel 1977 su Lanciostory. Nel 1976 Oesterheld ne scrisse una seconda versione, più apertamente politica, che fu pubblicata postuma. L’opera è diventata simbolo della memoria collettiva argentina, ed è oggi studiata nelle scuole, oggetto di mostre e omaggi, nonché riferimento per riflessioni sulla storia e sui diritti umani.

Nel suo viaggio senza fine, Juan Salvo, l’Eternauta, continua a camminare nel tempo, portando con sé la voce di chi non c’è più, e quella di chi continua a lottare per ricordare.

L’Eternauta è un’opera imprescindibile. È fumetto, sì, ma anche romanzo filosofico, manifesto politico e tragedia esistenziale. È una storia di fantascienza che diventa cronaca della realtà. È l’urlo silenzioso di un’intera generazione, inghiottita dalla dittatura, ma che ha lasciato dietro di sé una scintilla di speranza e dignità.

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