mercoledì 13 novembre 2024

L’Occidente ha perso la guerra con la Russia, gli Usa hanno vinto quella con l’Europa - Fulvio Scaglione

 

Com’era prevedibile, il meteorite della rielezione di Donald Trump, da molti prevista nell’esito finale ma non nelle clamorose proporzioni, ha generato un rumore di fondo quasi incontrollabile. Con l’insediamento lontano ancora due mesi e le nomine fondamentali per il Governo degli Usa ancora da decidere, rischiamo di essere travolti da un’onda di supposizioni, illazioni, fake news e presunte rivelazioni che sono quasi sempre basate sul nulla, o sulla fantasia dei giornalisti. Il fatto che quasi sempre queste “informazioni” arrivino dalle stesse fonti, pubbliche o private, che da anni provvedono a diffondere analoghe “informazioni” (il Nord Stream l’hanno fatto saltare i russi, i russi usano i microchip delle lavatrici per i missili, i russi combattono con le pale perché non hanno armi, ecc. ecc.), ovviamente non contribuisce a rallegrarci. Ed è quasi buffa l’idea che Trump possa tra poco entrare nella Sala Ovale, sedersi al Resolute Desk e con un tratto di penna mandare alla deriva l’Ucraina e far tornare gli Usa pappa e ciccia con la Russia.

Faccio questi esempi non solo perché l’invasione russa e la guerra in Ucraina sono un tema fondamentale per noi europei ma anche perché il buco temporale e decisionale tra l’uscita dalla Casa Bianca di Joe Biden e l’ingresso di Trump dovrebbe essere il momento giusto per tenersi ancorati all’essenza delle cose. Soprattutto per noi europei, vuol dire questo: la rielezione di Trump, comunque vada, chiunque lo affiancherà al Governo, qualunque decisione verrà presa, scrive la parola fine alla narrazione che ha dominato dal momento dell’invasione russa del 24 febbraio del 2022: ovvero, che il conflitto si potesse concludere solo con la sconfitta sul campo della Russia, il suo collasso economico sotto il peso delle sanzioni, il suo isolamento internazionale e, meglio ancora, con un cambio di regime a Mosca. Ipotesi ottimale: tutte queste cose più la disgregazione della Federazione Russa.

Certo, è un mantra che viene ancora ripetuto. Lo ha fatto Josep Borrell, che sta per lasciare l’incarico di Alto commissario alla politica Estera e di Difesa della Ue, pochi giorni fa, durante il suo sesto e ultimo viaggio a Kiev. L’ha fatto anche Giorgia Meloni. Ma si percepisce ormai la stanchezza, la sfiducia, la ritualità delle dichiarazioni fatte per abitudine. Nella realtà, che certo non sfugge a politici di quel livello, l’Occidente (non l’Ucraina, che si è sacrificata a livelli quasi inconcepibili per respingere la Russia) ha perso la guerra: la Russia non è stata sconfitta, la sua economia non è crollata, Putin è saldo al potere e non è isolato nel mondo, la Federazione non si è disgregata. La Russia ha grosse difficoltà, è ovvio. Ma l’obiettivo era annichilirla, non crearle problemi.

Il ritorno di Trump sulla scena internazionale manda appunto questo messaggio: no, da questa guerra si può uscire anche in un altro modo. Trattando, negoziando, mettendo in qualche modo d’accordo. Anche con l’invasore russo, anche con Putin che ha stracciato tutti o quasi i trattati internazionali, anche con un’Ucraina amputata della Crimea e magari anche di altri territori. Non è giusto? Certo che non lo è. Ma da quando i rapporti tra le potenze sono improntati al senso di giustizia?

Attualmente il termine generico “Occidente”, di cui tutti abusiamo, in questo fallimento serve solo fino a un certo punto. Il Giappone non perde quanto la Germania. L’Italia perde assai più della Norvegia, diventata fornitore di gas al posto della Russia. La Polonia guadagna, la Francia recede. La Finlandia si sente più sicura per essere entrata nella Nato ma ora sta riaprendo il confine con la Russia perché il traffico frontaliero le rendeva dei bei soldoni. E così via.

Quello che è certo è questo: gli Usa ci guadagnano, l’Europa ci rimette. Gli Usa hanno ottenuto concreti vantaggi (anche solo nel settore energetico) e un vantaggio politico inestimabile: aver tagliato il legame tra l’Europa (con la Germania a far da testa di ponte) e la Russia, eliminando con questo l’unica, anche se vaga, ipotesi di blocco davvero concorrenziale con gli Usa dal punto di vista politico ed economico. L’Europa, ora, è costretta a inventarsi un nuovo modello di sviluppo, diverso da quello energia a basso costo – manifatture – esportazioni che il rapporto con la Russia le aveva consentito per decenni e che l’aveva fatta prosperare. E nell’emergenza della guerra alle porte ha rinunciato a qualunque ipotesi di organizzazione collettiva di difesa, abbandonandosi a una corsa al riarmo “ognuno per sé” di dubbia efficacia e in definitiva affidando le proprie sorti alla Nato a trazione Usa, ora perfettamente sovrapposta ai confini della Ue.

Noi abbiamo sempre scritto che la guerra in Ucraina, nata dalla violazione dei trattati internazionali operata dalla Russia con l’invasione del 2022, andava soffocata quanto prima e non fomentata, non alimentata nell’illusoria speranza di una vittoria totale sul campo. La Von der Leyen, Borrell e i loro seguaci avevano torto e noi avevamo ragione. Quello che si prospetta ora, Trump o non Trump, è esattamente ciò che si prospettava nel 2022 se si fosse perseguita una tregua ma in peggio, molto peggio: l’Ucraina oggi può rimetterci più territori di allora ed è più distrutta di allora, tra Russia e Ucraina è morto un milione di persone, altri milioni di ucraini sono dispersi in Europa e altrove come rifugiati e chissà quanti di loro torneranno in patria. Dell’Europa abbiamo detto, dell’ascesa dei Brics potremmo dire, del mal funzionamento dell’Unione Europea ha già parlato abbastanza Mario Draghi nel suo recente rapporto.

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martedì 12 novembre 2024

Muoia l’Occidente - Miguel Martinez

 

E’ un periodo in cui vedo una carica di odio profondo tra persone diverse che spesso mi stanno individualmente simpatiche.

Anzi, l’eliminazione del Nemico diventa motivo stesso di impegno: recentemente, avevo pensato di aprire una mail con un bel server volontario e libero, poi ho rinunciato quando ho visto che per farlo, dovevo soddisfare tre condizioni: essere antifascista, antirazzista e antisessista. Pro qualcosa no, eh?

Ovviamente è lo stesso dall’altra parte; anzi dalle mille altre parti. Perché nulla unisce la maggioranza che non è di sinistra, se non l’antipatia per chi rappresenta la Sinistra.

Eppure ovunque ci sarebbero timide idee interessanti, umanità vive, esperienze immediatamente calpestati sotto gli stivaloni dei reciproci insulti.

Per cui è stato con grande sollievo che ho letto questa riflessione di Paul Kingsnorth, storico attivista ambientalista inglese, poeta, saggista, contadino, studioso di mitologia e mille altre cose.

Che esprime molto meglio di me, ciò che provo.

Muoia l’Occidente

di Paul Kingsnorth

Oltre la rivoluzione


La mattina uscii presto a pregare sotto gli alberi. La luce del sole scendeva attraverso le betulle. Gli insetti erano impegnati da ore. Faceva ancora freddo. Tutte le preghiere dovrebbero essere così. Come per la poesia, qui non si crea nulla. Qualcosa arriva, se si è fortunati, e qualcosa viene offerto. Si vaga nel freddo sole del mattino e anche questa è la vita, forse una buona descrizione. A volte, i saggi possono sorvolare sull’inciampo e sul vagabondaggio. Mi sembra che tutto il nostro mondo sia stato costruito per evitare che si possa inciampare o vagare. Nessuno vuole perdersi. Impedire che ci si perda è lo scopo della Macchina. È per questo che ci piace. È per questo che, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, parola dopo parola, ci sta uccidendo lentamente.

Scambiare il significato con il controllo: questo era il patto. Scambiare la bellezza con l’utilità, le radici con le ali, il tutto con le parti, la perdita, il vagabondaggio e l’inciampo con la marcia dritta verso la meta. Questo era il patto. Si è scoperto che era una trappola, e ora guardateci. Guardate tutto quello che sappiamo e quanto poco riusciamo a vedere. Guardateci qui, mentre ci dimeniamo, annaspiamo, ansimiamo mentre affondiamo nei numeri e nelle parole.

Come ne usciremo?

Uno dei motivi per cui ho iniziato questi saggi, due anni fa, era che volevo capire cosa stesse succedendo con le “guerre culturali” che imperversavano in tutto l’Occidente. Essendo stato coinvolto anch’io nel fuoco incrociato, volevo sapere perché queste lotte stavano avvenendo, da dove provenivano le divisioni, perché le cose sembravano frammentarsi così velocemente. Da quando ho iniziato a scrivere, la frammentazione è diventata più rapida, ma continuo a pensare quello che pensavo allora: che le guerre culturali siano una manifestazione superficiale di una spaccatura molto più profonda nella psiche dell’Occidente moderno. Si ha una guerra culturale solo quando non si ha più una cultura.

Ma le guerre culturali continuano, e allora come oggi i campi sono ben definiti. Da un lato, la tribù “woke” – quel curioso agglomerato di capitale internazionale e di élite progressiste che si spaccia per una rivolta dal basso – lavora per invertire la cultura e si scaglia contro tutto ciò che il luogo è sempre stato o ha rappresentato. In risposta, la tribù “basata” si solleva per “difendere l’Occidente”, ma non riesce mai a mettersi d’accordo su cosa stia difendendo. Che cos’è questo “Occidente”, dopo tutto? È una patria etnica, una religione, un insieme di principi, un particolare modello economico o sociale, o qualche altro modo di vedere o di essere? Nessuno sembra essere d’accordo.

Osservando la continua demolizione dei pilastri della mia cultura, a volte, nei miei momenti peggiori, sono tentato di unirmi ai difensori dell’Occidente nel loro lavoro. Ma quando mi calmo, mi ricordo che quei pilastri sono comunque per lo più marci e che anche coloro che li attaccano, per quanto possano essere talvolta ripugnanti, non hanno del tutto torto. Qualcosa è andato storto in questo “Occidente”, e coloro che ne sottolineano i crimini del passato stanno cercando di raggiungere qualcosa che forse nemmeno loro riescono a mettere a fuoco.

Come i saggisti che cercano di andare al nocciolo della questione, o i poeti che si affannano a togliere il dettato, a volte si ha l’impressione che tutti gli scontenti della nostra disgregazione in corso, da qualunque parte pensino di stare, siano motivati dallo stesso senso di perdita o di confusione che la modernità della Macchina ha creato strappandoci tutti dai nostri ormeggi. I populisti di destra che si ribellano agli insetti e ai baccelli, e quelli di sinistra di Extinction Rebellion che fermano il traffico perché vogliono fermare la Macchina, vengono abitualmente presentati come opposti, ma a me sembrano manifestazioni della stessa frustrazione. I progressisti che inveiscono contro la “bianchezza” e i tradizionalisti che rifiutano di essere imprigionati in una città di quindici minuti stanno prendendo una posizione stranamente consonante contro la stessa cosa: un futuro razionalizzato, profittatore e disumano che sentono chiudersi su di loro senza alcuna via di fuga.

Quindi, se mi chiedete di aiutare a “difendere l’Occidente” ora, vi risponderò che, sebbene questo luogo sia la mia casa e la casa dei miei antenati, non posso evitare la realtà che questo “Occidente” ha partorito la Macchina e sta costruendo quel futuro disumano. Qualcosa nel nostro modo di vedere conteneva un seme che ha disfatto il mondo. Sono due anni che esamino questo seme. Voglio che cresca? No, voglio sradicarlo. Voglio dire che questo “Occidente” non è una cosa da “conservare”: non ora. È una cosa da superare. È un albatros intorno al nostro collo. Ostacola la nostra visione. Ci appesantisce.

A volte bisogna sapere quando lasciarlo andare.

L’Occidente è diventato un idolo, una sorta di immagine statica di un passato che forse è stato, ma che ora è abitato da una nuova forza: la Macchina. L’Occidente oggi pensa con i numeri e le parole, ma non sa scrivere poesie per salvarsi la vita. L’Occidente è il regno di Mammona. L’Occidente mangia il mondo e mangia se stesso per continuare a “crescere”. L’Occidente conosce il prezzo di tutto e il valore di niente. L’Occidente è esausto e vuoto.

Forse, allora, solo forse, dobbiamo lasciare che “l’Occidente” muoia.

Lasciarlo morire perché noi possiamo vivere.

Forse dobbiamo lasciare che questo concetto cada. Lasciarlo crollare per poter vedere cosa c’è sotto. Smettere di “lottare” per preservare qualcosa che nessuno sa nemmeno definire, che ha perso da tempo il suo cuore e la sua anima. Smettere di aggrapparsi alla fiancata dello scafo che affonda mentre la banda suona. Abbiamo colpito l’iceberg molto tempo fa; deve essere giunto il momento, finalmente, di smettere di aggrapparsi al metallo mutevole. Lasciarsi andare e iniziare a nuotare, verso il luogo in cui la luce gioca sull’acqua. Proprio là fuori. Lo vedete? Al di là, proprio al di là. C’è qualcosa che ti aspetta là fuori, ma devi muoverti per raggiungerlo. Bisogna lasciarsi andare.

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lunedì 11 novembre 2024

Pier Paolo Pasolini: il calcio come metafora di vita e poesia - Marvin Trinca

Pier Paolo Pasolini è stato un poeta, regista e intellettuale dall’intensità controversa, un artista in grado di rappresentare gli strati più complessi e oscuri della società italiana del Novecento. Ma c’è un lato meno noto di Pasolini, un lato che si schiera non solo nelle piazze e nei set cinematografici, ma anche sui campi di calcio. Per Pasolini, il calcio non è mai stato semplicemente uno sport, ma una metafora potente, un’espressione genuina di cultura popolare e un linguaggio universale che riflette le dinamiche sociali, politiche e culturali.

Calcio e cultura popolare: la poetica del pallone

Pasolini amava il calcio, lo giocava e lo viveva, vedendolo come uno dei linguaggi più immediati del popolo. Cresciuto in un Italia postbellica, Pasolini sperimentò un paese spaccato tra il desiderio di modernità e un forte radicamento nelle tradizioni popolari. Nel calcio, Pasolini ritrovava i valori della comunità e della spontaneità: un gioco che, pur essendo terreno, possedeva una sua intrinseca poesia, un’essenza che esprimeva tanto la vitalità quanto l’imperfezione della vita stessa. Per lui, il calcio era un simbolo della cultura proletaria, un campo in cui non era necessario “avere” ma soltanto “essere”: i giocatori, per strada o in un cortile, erano tutti uguali e si ritrovavano uniti dallo stesso amore per la competizione e il divertimento. Il calcio, nel pensiero pasoliniano, era quindi un atto di resistenza culturale contro una società sempre più consumistica e individualista.

Calcio come linguaggio: prosa e poesia

La famosa distinzione pasoliniana tra “calcio di prosa” e “calcio di poesia” è una delle interpretazioni più affascinanti che l’intellettuale abbia dato di questo sport. In un articolo scritto nel 1971, Pasolini definì il “calcio di prosa” come il calcio tecnico, efficace, disciplinato, finalizzato esclusivamente al risultato. È il calcio delle squadre che seguono gli schemi, che cercano di minimizzare l’imprevisto in favore di una tattica consolidata. Eppure, questo non era il calcio che interessava Pasolini. Al contrario, il “calcio di poesia” era per lui quello dell’improvvisazione, della genialità improvvisa, della bellezza istintiva. È il calcio che sfida le convenzioni, che riesce a meravigliare anche l’osservatore più disilluso, come un colpo di pennello inatteso su una tela bianca. Pasolini ritrovava questa forma di calcio nelle azioni geniali dei calciatori più creativi, come nel “tocco di classe” che trasforma un semplice passaggio in un’opera d’arte. Nel suo immaginario, il calciatore-poeta era come un attaccante capace di sovvertire i piani tattici con un gesto audace e inaspettato.

Il campo come teatro sociale

Per Pier Paolo Pasolini, il campo di calcio era molto più che un semplice spazio di gioco: diventava un palcoscenico sociale, una sorta di teatro naturale in cui si svolgevano i drammi e le commedie della vita. Guardando una partita di calcio, Pasolini riusciva a cogliere dinamiche umane e sociali che rispecchiavano le complessità della società italiana del suo tempo, soprattutto le tensioni tra le classi, i sogni di riscatto e le ingiustizie strutturali che la caratterizzavano. Così, il calcio si trasformava in un’arte viva, capace di incarnare speranze, frustrazioni, alleanze e rivalità. Il calcio, infatti, rappresentava per Pasolini un linguaggio universale in grado di unire e, allo stesso tempo, dividere. La stessa partita si caricava di significati simbolici e diventava una metafora delle contraddizioni sociali: ogni squadra poteva rappresentare il popolo e l’élite, l’individuo e la comunità, la periferia e il centro. Nel semplice atto di scendere in campo, i giocatori portavano con sé la propria storia, la propria identità, come attori che recitano, e al tempo stesso vivono, un dramma comune e collettivo.

Gioco e lotta di classe: il calcio come atto di resistenza

Nel suo sguardo attento e appassionato, Pasolini vedeva nelle partite tra ragazzi di borgata una sorta di resistenza naturale alla borghesia e al sistema capitalistico, simile alla lotta di classe che narrava nelle sue poesie e nei suoi film. Il calcio popolare, giocato nelle strade e nei cortili, era per lui una forma di autonomia sociale e culturale, un linguaggio della “subalternità” che poteva essere usato per esprimere l’identità proletaria e contestare le convenzioni imposte dalla società dominante. I giocatori stessi diventavano degli eroi antieroi: ragazzi di periferia, lontani dai privilegi, che si imponevano su un campo da gioco come simbolo di libertà, di gioia, e di appartenenza. Per Pasolini, il calcio era una forma di espressione che, a differenza del linguaggio verbale, non poteva essere strumentalizzata o piegata ai fini del potere. Una partita tra ragazzi, senza arbitri né spettatori, possedeva una sua integrità assoluta, una sua purezza che sfuggiva alla logica commerciale e consumistica della società di massa. Quella stessa società che, a suo parere, stava rapidamente trasformando anche il calcio professionistico in una spettacolarizzazione commerciale, perdendo il contatto con le sue radici autentiche e popolari.

Il campo come spazio di riscatto e ribellione

In una società che tendeva a relegare le classi popolari ai margini, il calcio offriva un’opportunità di riscatto, un momento in cui l’individuo poteva distinguersi, diventare protagonista. Pasolini osservava con attenzione le sfide tra i ragazzi delle periferie, vedendo nel loro gioco una forma di ribellione simbolica. Quei ragazzi, spesso vittime di povertà e ingiustizia, trovavano sul campo di calcio uno spazio di espressione e affermazione personale: il diritto a giocare bene, a fare “il colpo di classe”, diventava una forma di rivendicazione di dignità. Pasolini vedeva in questo aspetto del calcio un parallelo con la lotta dei proletari per il riconoscimento e la giustizia sociale. In campo non c’erano i limiti della burocrazia o delle gerarchie di classe: bastavano due porte improvvisate, un pallone di stracci e la voglia di giocare. In questo modo, il calcio diventava una realtà in cui ogni giocatore poteva riscattare la propria esistenza, scendere in campo da pari a pari, trasformando la passione in azione e il bisogno di identità in un linguaggio collettivo.

Il fascino della “partita infinita”

La passione di Pasolini per il calcio lo accompagnò fino alla fine. In quello sport rivedeva la “partita infinita”, una metafora esistenziale che supera il semplice aspetto sportivo. Il calcio, per Pasolini, rappresentava la speranza di riscatto e il continuo rinnovarsi dell’azione, con ogni partita che dava vita a una nuova storia, dove il risultato non era mai scontato e il finale sempre aperto. Pasolini vedeva nel calcio un sogno collettivo, capace di abbattere le barriere sociali e di unire, in uno spazio comune, persone di ogni ceto e provenienza. L’interesse di Pasolini per il calcio ci ricorda che questo sport può essere molto di più di un semplice passatempo. Come lui stesso ha scritto, il calcio è uno dei pochi riti sopravvissuti nella nostra società secolarizzata. Nella poetica del pallone, Pasolini ritrovava il senso dell’umanità: quella capacità di creare bellezza dal nulla, di agire con slancio e cuore, di rappresentare la vita nelle sue sfaccettature più intime e contraddittorie.

Conclusione: Pasolini, il calcio e il nostro presente

Oggi, a quasi cinquant’anni dalla scomparsa di Pasolini, il suo modo di guardare al calcio come specchio della società ci appare più attuale che mai. Nella modernità, dove il calcio è diventato un’industria sempre più competitiva, le riflessioni di Pasolini ci ricordano il valore intrinseco di uno sport che può ancora raccontare la vita nella sua autenticità. Quel “calcio di poesia” che tanto apprezzava, oggi è forse sempre più raro, ma vive ogni volta che un giovane, in un campetto di periferia, prende un pallone per sognare.

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La polizia del Regno Unito arresta l’accademico israeliano Haim Bresheeth dopo un discorso pro-Palestina


da Middle East Eye

Professore ebreo in pensione arrestato per presunto sostegno a un’organizzazione proscritta dopo aver detto che “Israele non può vincere contro Hamas”

Un accademico ebreo cresciuto in Israele è stato arrestato dalla polizia metropolitana di Londra dopo un discorso da lui tenuto durante una manifestazione pro-Palestina nella capitale britannica durante il quale ha affermato che Israele “non può vincere contro Hamas”.

Haim Bresheeth, figlio di sopravvissuti all’Olocausto e fondatore del Jewish Network for Palestine, è stato arrestato durante una manifestazione fuori dalla residenza dell’ambasciatrice israeliana Tzipi Hotovely, nel nord di Londra.

Secondo una dichiarazione rilasciata all’agenzia di stampa Skwawkbox da un portavoce della polizia è accusato di aver sostenuto un’organizzazione proibita. In una registrazione video dell’arresto di Bresheeth un agente di polizia lo informa che è stato arrestato ai sensi del Terrorism Act 2000 per “aver fatto un discorso d’odio”.

“Israele non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi dichiarati, né a Gaza, né in Libano, né in Iran, né altrove”, ha detto Bresheeth nel suo discorso.

“Cosa ha ottenuto? Omicidi, caos, genocidio, razzismo, distruzione, ecco in cosa sono bravi”, ha detto Bresheeth. “Ma non possono combattere la resistenza, hanno perso ogni singola volta.

“Non possono vincere contro Hamas, non possono vincere contro Hezbollah, non possono vincere contro gli Houthi. Non possono vincere contro la resistenza unita contro il genocidio che hanno iniziato”.

Il portavoce della polizia ha affermato che le forze dell’ordine sono impegnate in un “intervento di costante equilibrio ” e che stavano agendo per “prevenire intimidazioni e gravi disordini nelle comunità”.

Dopo aver trascorso una notte in custodia Bresheeth è stato rilasciato senza imputazione il 2 novembre, ma è ancora sotto inchiesta.

L’arresto dell’accademico ebreo segue una serie di raid e arresti che hanno preso di mira giornalisti e attivisti filo-palestinesi ai sensi della legislazione antiterrorismo. A ottobre la polizia antiterrorismo ha fatto irruzione nell’abitazione del giornalista Asa Winstanley come parte di un’indagine ai sensi del Terrorism Act sulla sua attività sui social media.

Il 15 agosto il giornalista Richard Medhurst è stato arrestato ai sensi dell’articolo 12 del Terrorism Act al suo arrivo nel Regno Unito, presumibilmente in relazione al suo reportage sulla Palestina.

Meno di due settimane dopo la giornalista filo-palestinese Sarah Wilkinson è stata arrestata da membri della polizia antiterrorismo col volto coperto durante un’irruzione all’alba nella sua abitazione per accuse relative a contenuti da lei pubblicati online.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

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sabato 9 novembre 2024

Meglio Trump che vuole la pace in Ucraina o Ursula von der Leyen che invece vuole la guerra fino alla vittoria? - Enrico Grazzini

Non è detto che Ursula von der Lyon sia meglio del pregiudicato Donald Trump per quanto riguarda la difesa degli interessi dei paesi europei. Ursula rappresenta una Europa impotente sul piano militare ma paradossalmente guerrafondaia: insomma una Europa che abbaia ma non morde e si fa male da sola. Trump, che certamente è un autocrate e un tipo che non raccomanderei a mia figlia, sembra invece cercare i negoziati e la pace in Ucraina. La pace farà molto bene all’Europa; al contrario, se la guerra fosse durata “fino alla vittoria ucraina” (???) come proclamava assurdamente Ursula, l’Europa si sarebbe dissanguata per nulla: infatti è chiaro anche ai ciechi che l’Ucraina non potrà mai vincere questa guerra. Per colpa di Ursula l’Europa è entrata in una pericolosa escalation che potrebbe portarla anche alla guerra atomica. Addirittura Ursula e il parlamento europeo hanno votato per portare la guerra dentro il territorio russo: neppure gli americani e gli inglesi – che certamente non sono colombe e che le armi, a differenza della UE, ce le hanno davvero – hanno osato tanto.

Trump pare finalmente realistico: neppure l’America con tutte i suoi armamenti formidabili può rischiare delle guerre su tre fronti, quello europeo in Ucraina, quello in Medio Oriente sul fronte Israelo-palestinese-Iran, e quello in Asia per la questione di Taiwan. Ursula invece con la sua irresponsabile testardaggine ci avrebbe portato perfino a un rovinoso scontro con la Russia atomica. Un politico intelligente avrebbe invece dovuto prevenire la guerra.

La guerra in Ucraina si doveva e si poteva evitare fin dall’inizio. E’ stata alimentata dall’espansionismo militare della Nato guidata dalle amministrazioni statunitensi, da Bush senior all’inizio e poi da Clinton, da Obama e dalle amministrazioni successive, con la colpevole e passiva compiacenza dei governi europei. Da parte della Nato affacciarsi sulla soglia di casa della Russia e pretendere di fare credere che questa sfida non fosse una minaccia per Mosca, è stato o un grossolano errore strategico o una evidente mistificazione. L’intervento imperialistico della Russia di Putin in Ucraina è stato tanto illegittimo e illegale quanto scontato e prevedibile, perché è stato coscientemente provocato.

Le ipotesi storiche controfattuali non possono mai essere confermate. Ma credo che sia abbastanza realistico pensare che se l’Ucraina di Volodymyr Zelensky e soci non avesse chiesto insistentemente di appartenere alla Nato – che non è una organizzazione economica per lo sviluppo sostenibile, e neppure un’associazione per il progresso e i diritti civili, ma è una organizzazione militare che ha già operato con pessimi risultati in Serbia, Kossovo, Afghanistan e Iraq – Putin non avrebbe attaccato. Per quanto il sottoscritto non sia un esperto di cose militari, dal punto di vista degli equilibri imperiali era molto difficile pensare che la Russia non avrebbe risposto direttamente e con la forza alla eventualità di avere missili nemici dislocati nel giardino di casa, a pochi minuti di gettata da Mosca. 

Appare chiaro che in Ucraina l’Occidente ha cercato lo scontro, pur negando vigliaccamente a Kiev l’ingresso tra le sue fila per non correre il rischio di un suo coinvolgimento diretto nella guerra con la Russia. In sostanza l’America ha imparato che è meglio fare fare le guerre agli altri piuttosto che farle in prima persona. Il grande errore di Zelensky è stato quello di insistere a entrare in un club che non lo voleva come socio – infatti la Nato non ha mai risposto positivamente e concretamente alle richieste dell’Ucraina – ma che aveva tutto l’interesse a fare scontrare gli ucraini con i russi. Sono state purtroppo sacrificate molte decine di migliaia di uomini e 8 milioni di ucraini hanno dovuto abbandonare la loro terra: l’Ucraina è distrutta ma le prospettive di successo nel conflitto sono quasi pari a zero. Zelensky, l’uomo dei Panama Papers, è stato un cattivo stratega: avrebbe fatto meglio a rinunciare all’ingresso (praticamente impossibile) nella Nato, a garantire ai russi la neutralità dell’Ucraina e a usare tutte le armi della diplomazia per risolvere pacificamente la questione del Donbass. 

Se Trump manterrà le sue promesse e davvero si giungerà alla pace, come ritengo probabile (sperando di non essere ingenuo), essa sarà certamente a favore della Russia. Putin si annetterà dei territori, sicuramente la Crimea e molto probabilmente il Donbass, e otterrà la neutralità dell’Ucraina, che rimarrà prevedibilmente sotto tutela internazionale con il coinvolgimento indiretto della Nato. L’Europa avrà tutto da guadagnare dalla pace e, soprattutto, avrà da guadagnare se verranno ritirate le sanzioni alla Russia: in questo caso potrà continuare a rifornirsi da Mosca a basso prezzo di petrolio e di gas, cereali e minerali. Probabilmente il ritiro delle sanzioni contro Putin potrebbe compensare in larga parte il probabile aumento delle tariffe previste da Trump sulle importazioni europee. L’Europa avrebbe tutto da guadagnare se le sanzioni venissero ritirate e se si riprendesse il business con la Russia: tale scenario è tutt’altro che scontato ma non è neppure improbabile.

Inoltre l’elezione di Trump alla presidenza americana potrebbe avere un altro effetto positivo. L’atteggiamento brutalmente competitivo di Trump potrebbe anche risvegliare l’orgoglio europeo, o almeno di alcuni paesi europei. La von der Leyen finora si è sempre schierata con Washington e con Joe Biden nonostante che l’atteggiamento di questi fosse del tipo FUCK THE EU! (l’Europa si fotta, la famosa espressione dell’ex inviata americana di Obama in Ucraina, Victoria Nuland) anche contro gli interessi europei. Non era infatti certamente interesse dell’Europa andare allo scontro con Mosca e applicare delle sanzioni che hanno avuto un potente effetto boomerang contro i paesi europei e che non hanno certamente messo in ginocchio la Russia. La politica estera della UE della von der Leyen, di servilismo verso l’amministrazione Biden, ha nuociuto agli interessi europei. Ora che Cavallo Pazzo ha vinto le elezioni c’è la possibilità che gli europei si rendano più autonomi dallo scomodo alleato americano e comincino a pensare con la loro testa per fare i loro interessi. C’è ancora qualche piccola e residua speranza che i francesi e i tedeschi, dopo avere preso tante batoste, si risveglino dal loro sonno ipnotico e comincino a elaborare – con o senza la von der Leyen – una loro politica estera autonoma e di “coesistenza pacifica” con la Russia, la Cina e i paesi emergenti: l’unica che può fare bene ai popoli d’Europa. Per quanto riguarda l’Italia, il nostro paese è l’ultima ruota del carro e Giorgia Meloni da buona opportunista seguirà gli eventi, schierandosi come sempre dalla parte del più forte. Meloni si è prontamente allineata con Biden e la Nato per cercare l’impossibile vittoria in Ucraina ma seguirà immediatamente Trump se questi imporrà la pace.       

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Caso Equalize: spioni nostrani e 007 di Israele, tra favori privati e contratti pubblici - Alberto Negri

 

C’è una sorta di Israel Connection in questa vicenda dei dossier illegali che collega la società Equalize al cuore delle nostre istituzioni. È quasi lampante nell’immagine che coglie l’ex super poliziotto Carmine Gallo mentre maneggia con naturalezza gli scatoloni con i dati dei dossier per infilarli nel baule della sua auto, come se fosse nel parcheggio di un centro commerciale. Sereno, con un senso di invidiabile impunità.

Ed ecco la prima parte della Israel Connection. L’8 febbraio 2023 – le date sono importanti – i carabinieri fotografano “due israeliani non identificati” nella sede di Equalize: “Sono disposti – dice l’intercettato, l’amministratore della Equalize, Carmine Gallo, parlando di loro come di 007 – a un “do ut des” di informazioni”. Per esempio, aggiunge un altro intercettato, l’informatico di Equalize, Samuele Calamucci, “ci stanno fornendo materiale di sicuro interesse per Eni spa e per Stefano Speroni” (dal 2020 capo degli Affari legali del colosso energetico) sul “traffico illecito di gas iraniano con le aziende d’Italia”.

Il traffico di gas ma anche di petrolio iraniano – l’Iran è sotto sanzioni – è un dossier su cui i servizi italiani indagano da anni. Per altro questo è un po’ il segreto di Pulcinella perché il gas iraniano e quello russo arrivano anche in Paesi come l’Azerbaijan, alleato di Israele, che lo immette nella pipeline verso l’Europa. Ma facciamo finta di nulla, così come ignoriamo che l’Italia importa ancora dalla Russia, legalmente, il 14% del suo gas.

Del resto che gli 007 israeliani possano essere interessati a fare qualche favore all’Eni avrebbe un sua logica stringente. Il 29 ottobre scorso, già in piena guerra dopo il massacro del 7 ottobre, il ministro dell’Energia israeliano ha annunciato la firma di una convenzione con cui Eni e altre società internazionali e israeliane hanno ottenuto la licenza per sfruttare il giacimento di gas offshore di fronte a Gaza, all’interno della zona marittima G al 62% palestinese. Una vicenda imbarazzante emersa soltanto dopo che alcuni gruppi palestinesi per i diritti umani avevano dato mandato allo studio legale Foley Hoag di Boston di comunicare all’Eni e alle altre società coinvolte una diffida dall’intraprendere attività in queste acque. Evocando il rischio di complicità in crimini di guerra.

Per quanto riguarda il gas, Israele sfrutta i giacimenti offshore Leviathan e Tamar, il cui prodotto in parte è estratto nell’ambito di un programma con Cipro e la Grecia (ormai uno stretto alleato israeliano in funzione anti-turca): dal 2020 Tel Aviv è così diventata un esportatore di gas. Ma di lasciare ai palestinesi la loro quota legittima di gas non se ne parla neppure. Per gli agenti israeliani, quindi, fare uno scambio di dati sensibili con Equalize che possa favorire l’Eni in quel febbraio 2023 avrebbe una sua logica. Meno logico è che sia coinvolta un società privata italiana che lucra utilizzando anche dati pubblici e intercettazioni illegali.

Ed ecco la seconda parte della Israel Connection. Esattamente un mese dopo le intercettazioni dei carabinieri su Equalize, l’8 marzo del 2023, arriva a Roma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Si si firmano accordi economici – gas compreso ovviamente – ma anche l’appalto di una parte della cybersecurity italiana a Israele (che nel settore ha una quota del 40% del mercato internazionale). L’accordo passerebbe totalmente sotto silenzio se non fosse per le dimissioni del capo della nostra agenzia due giorni prima dell’arrivo di Netanyahu: evidentemente l’accordo  a qualcuno non piace e lega troppo l’Italia allo Stato ebraico. Del resto ci aveva provato, fallendo, anche Renzi, quando era premier, a disegnare la stessa intesa riuscita al governo Meloni.

I punti chiave sono due. Perché gli agenti israeliani si servono di una società privata come Equalize quando appare evidente che possono avere rapporti diretti con le società e le istituzioni italiane? La risposta potrebbe essere che bisogna “oliare” un po’ tutti i sistemi e i personaggi nel variegato panorama dell’intelligence italiana. A ognuno la sua fetta di torta.

Il secondo punto riguarda la nostra Agenzia di cybersicurezza: chi la controlla davvero? Ed è in grado di proteggere gli interessi del Paese? Ci risponde il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il suo non è un parere tranquillizzante: “Credo che non siamo al sicuro e non lo saremo finché la legge e la tecnologia a disposizione non saranno riuscite ad allinearsi con la tecnologia a disposizione della criminalità. La tecnologia avanza più in fretta rispetto alla legge e i malintenzionati sono sempre un po’ più avanti”.

Certo bisogna capire con un certa urgenza chi sono i “malintenzionati” e i “criminali”. Mica possono fare tutto i carabinieri. Si legge, tra l’altro, sui media che un noto imprenditore sia stato truffato da esponenti di Equalize con un falso dossier sulle frequentazioni sospette della fidanzata (poi diventata moglie): “l’intelligence del bidet” di questi spioni era un po’ fake. Poi hanno vinto comunque l’amore e la passione. Quindi dormiamo i sonni tranquilli del lieto fine?

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venerdì 8 novembre 2024

Christian Raimo sospeso dall’insegnamento: una dichiarazione di guerra contro il pensiero critico - Beppe Giulietti

 

Puntuale è arrivata la vendetta contro il professor Christian Raimo, accusato di aver “offeso” il ministro Valditara e, per questo, sospeso per tre mesi dall’insegnamento con la decurtazione di metà stipendio.

La punizione non è arrivata per una contestazione relativa a modi e forme relative alla sua attività di docente, ma per le critiche rivolte al ministro in occasione di una iniziativa promossa da Alleanza Verdi-Sinistra, coalizione per la quale Raimo è stato candidato alle elezioni europee. “Bisogna colpire il ministro Valditara, così come si colpisce la morte nera di Star Wars…”

Non ci vuole molto a comprendere che si tratta di espressioni simboliche, giustificate dallo stato di sfascio crescente nel quale si trova la scuola pubblica. Quello che sorprende e offende chiunque ancora creda nei valori racchiusi nell’articolo 21 della Costituzione è la doppiezza etica, civile, politica che circonda ogni atto di questo governo. Quando vengono criticati si buttano a terra, frignano, denunciano, invocano solidarietà e punizioni, ma quando vengono attaccati e vilipesi gli avversari tacciono, fingono di non sapere, se possono sferrano anche il calcio del somaro.

Dove stavano quando Christian Raimo veniva insultato e molestato per le sue scelte politiche o per i suoi articoli? Quando il ministro ha espresso la sua solidarietà? Dove stava quando docenti fascisti e dirigenti scolastici “neri” hanno calpestato la Costituzione? Cosa ha detto e fatto quando studentesse e studenti sono stati manganellati per aver rivendicato il diritto alla pace o il sostegno alla scuola pubblica? In quale occasione ha preso le distanze dalle leggi bavaglio e dagli attacchi al pensiero critico? Nelle scelte politiche contano anche le parole non dette, le omissioni, le ambiguità.

La sanzione a Raimo è una dichiarazione di guerra contro il pensiero critico e contro la libertà di critica e di satira. Chi oggi se la ride, anche tra i giornalisti, presto scoprirà che la favola narra anche di loro, ma quando lo scopriranno sarà troppo tardi. Non ci sarà più nessuno disposto ad ascoltarli e sostenerli.

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Manovra: più spese militari, meno sanità e diritti. Gli Usa hanno ottenuto ciò che volevano - Luigi de Magistris

  

La manovra economica di bilancio approvata dal governo delinea continuità con il draghismo: tutela dei poteri forti, assenza di volontà di imprimere una svolta a difesa della nazione (tanta cara a parole alla destra) e al popolo italiano. Una chimera, la destra sociale e sovranista. Balle da campagna elettorale.

E invece sempre di più allineamento supino ai diktat della Ue (contrariamente allo strepitio propagandistico dei capi della coalizione di maggioranza) e totale subalternità agli Usa e alla Nato. Tagli alla spesa pubblica e agli enti locali, attacco al ceto medio, maggiori carichi fiscali, tasse, imposte e gabelle sono la conseguenza delle scelte, non obbligate, soprattutto delle politiche di guerra in Europa. 800 miliardi di euro in due anni il popolo europeo comincia a pagarli. Più spese militari, meno diritti e servizi. Tutto questo non per portare la pace – Putin doveva crollare e invece è più forte e meno isolato di prima – ma per assecondare le strategie militari statunitensi che mirano al disegno imperialista e coloniale economico e politico.

Gli Stati Uniti hanno ottenuto il risultato che volevano: un’Europa più debole, più ancora dipendente dagli Usa sul piano militare, economico ed energetico. Gli americani in difficoltà enorme con la Cina hanno operato per indebolire la Russia e l’Europa occidentale, utilizzando il campo di battaglia ucraino. Un’Europa debole è necessaria per gli americani. Le politiche di guerra sono volute e alimentate da gruppi ristretti del potere politico, economico e militare in Occidente, e quindi anche in Italia. Basti vedere il fatturato aumentato in maniera stratosferica delle aziende che producono armi dove gli interessi di politici appartenenti a quasi tutte le forze politiche sono assolutamente evidenti. Opera il partito unico delle armi che lucra sui conflitti.

Governo e maggioranza fanno pagare alle fasce più deboli del Paese le politiche di guerra e le conseguenti neo politiche di austerità senza invece intervenire sui ricchi e potenti che guadagnano con le guerre: produttori e venditori di armi, extra profitti su energia e nel settore bancario e finanziario, super rendite patrimoniali ed economiche.

Ma non è finita qui. Il governo con in testa il ministro della difesa, in conflitto di interessi, stanzia ulteriori 40 miliardi nei prossimi tre anni per armi e dispositivi militari di guerra, addirittura prevedendo la produzione di sommergibili nucleari. Non solo tutto questo è da irresponsabili e traditori della vocazione totalmente pacifista della Costituzione, ma implica l’effetto che non vi saranno risorse sufficienti per i diritti primari previsti dalla Costituzione: politiche del lavoro, sanità, istruzione, cultura, ricerca, servizi.

Il governo e la sua maggioranza ci conducono dritti dritti al baratro per perseguire interessi personali, privatistici, affaristici, politici di parte, lobbistici. La prevalenza dell’opposizione è poi in linea su questo con il governo: Renzi, Calenda e metà del partito democratico. La deriva bellicista trova consensi in tre quarti del Parlamento e invece l’opposizione in tre quarti del popolo italiano.

Per difendere la pace, i diritti e la Costituzione è complice tacere e stare fermi, bisogna invece lottare per sconfiggere i signori della morte e i responsabili di una escalation di guerra sempre più evidente, che sembra condurci un poco alla volta verso una terribile terza guerra mondiale.

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