mercoledì 12 novembre 2025

Eugenetica e colonialismo. Nel cuore del dominio occidentale - Stefano Dumontet

La terribile situazione che stanno vivendo i gazawiti, da ormai quasi tre anni, è stata presentata dalla maggioranza dei media occidentali come la lotta di una democrazia (incarnata da Israele) per la sua sopravvivenza. Una lotta contro terroristi sanguinari di oggi e potenziali terroristi di domani (i bambini) oltre che contro le donne, fattrici di terroristi non ancora nati.  

L’unico, controverso, riferimento storico che si evoca è quello relativo alla lucida ferocia del terzo Reich, orientata contro gli ebrei. Gli israeliani, cittadini di uno stato confessionale ebraico, adopererebbero oggi mezzi e finalità analoghe a quelle utilizzate dai nazisti per portare avanti un programma di pulizia etnica attraverso un genocidio. In realtà, limitare il fenomeno dello sterminio dei palestinesi sulla contrapposizione genocidio sì / genocidio no, serve solo a distogliere l’attenzione dalla vera motivazione di tanta barbarie e della sua fanatica accettazione da parte delle élite occidentali.

Quello nazista fu un micidiale programma di pulizia etnica, sostenuto da una pseudoscienza, largamente condivisa nell’intero occidente, quella della “purezza della razza” o “eugenetica”. È bene ricordare che le teorie eugenetiche nacquero, almeno nella loro forma “scientificamente definita”, in Inghilterra in seguito al lavoro di Sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Alla Galton Society afferì, nel tempo, il fior fiore della società britannica rappresentato da aristocratici, prelati, premi Nobel, famosi scienziati, celebri intellettuali e ricchi imprenditori. Solo per fare alcuni nomi, particolarmente noti, tra i tanti che condivisero negli anni le idee eugenetiche di Galton, citiamo il celebre economista John Maynard Keynes, James Meade (premio Nobel per l’Economia nel 1977), Peter Medaware (premio Nobel per l’Immunologia nel 1987) ed il famosissimo statistico Charles Spearman (tra i padri dei test per la misura dell’intelligenza e dell’analisi fattoriale). Anche Winston Churchill era un estimatore delle teorie eugenetiche, insieme al commediografo George Bernard Shaw.

La Società Svedese per l’Igiene Razziale, fondata a Stoccolma nel 1906, mise le basi per la fondazione, nel 1922, di uno dei più influenti istituti europei per l’igiene razziale (Istituto Svedese di Biologia Razziale). Negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale, Alva e Gunnar Myrdal divennero i teorici del “nuovo umanesimo” definito dalle teorie eugenetiche. Gunnar fu poi insignito del premio Nobel per l’Economia nel 1974, mentre la moglie ottenne quello della Pace nel 1982, per il suo impegno a favore del disarmo. I Myrdal pensavano che “consentire a dei genitori non adatti di riprodursi è un argomento indifendibile, da qualsiasi punto di vista”. Furono loro a coniare il termine materiale umano, che ebbe una particolare fortuna nel lessico nazionalsocialista tedesco del Lebensborn (programma nazista di “arianizzazione”). Analoga fortuna ebbe tra i nazisti l’espressione soluzione finale, anche questa lungi dall’essere una prerogativa del terzo Reich. Cambell Scott, vice soprintendente del Dipartimento per gli Affari Indiani del Canada dal 1913 to 1932, in una sua lettera del 1910 indirizzata all’agente indiano della Columbia Britannica scrive: 

“È ben risaputo che i bambini indiani, frequentando queste scuole, perdono le loro doti naturali di resistenza alle malattie e, di conseguenza, muoiono in numero maggiore che nei loro villaggi. Ma ciò è in linea con la politica di questo Dipartimento, finalizzata alla soluzione finale del problema indiano.” 

Duncan Campbell Scott fu nominato “national historic person” nel 1948. Appare dunque evidente che lo sterminio sistematico di oppositori politici, malati mentali, comunisti, socialisti, sindacalisti, rom, omosessuali, minoranze etniche e, dopo il 1940, degli ebrei, perde molto della sua originalità, anche nell’uso dei termini associati al genocidio plurimo portato avanti dai nazisti.

Come in un gioco di specchi, nell’America degli anni ’20, i difensori dell’eugenetica cercarono di sostenere il miglioramento di una razza nordica superiore a spese di razze inferiori come i nativi americani, i messicani, gli italiani e i portatori di handicap. La loro strategia prevedeva la sterilizzazione obbligatoria, restrizioni nella possibilità di sposarsi e confinamento in speciali colonie per tutti quelli dichiarati non adatti.

La campagna eugenetica americana non si fermò ai confini di quel paese, ma fu esportata in tutto il mondo, inclusa la Germania nazista dove divenne la base per le teorie sulla supremazia della razza ariana e la copertura “scientifica” del genocidio. I nazisti adottarono in pieno e senza restrizioni i principi eugenetici americani, che furono appoggiati apertamente da scienziati ed istituzioni americane sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Hitler stesso definì “la mia Bibbia” il saggio The Passing of the Great Race (1916) dell’eugenista statunitense Madison Grant. Membri dell’élite sociale statunitense, presidenti di banche, rettori di Università, illustri scienziati, filantropici finanziatori della ricerca scientifica hanno desiderato, dai principi del ‘900 sino agli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, che tutti i membri “inaccettabili” della società venissero eliminati. Negli anni che precedettero la guerra e oltre, la Fondazione Rockfeller finanziò la creazione di una nuova specializzazione medica chiamata Psychiatric Genetics e finanziò i “Kaiser Wilhelm Institutes” tedeschi (oggi Max Planck Institute) per la Psichiatria e per l’Antropologia, l’Eugenetica e l’Eredità Umana.

Ancora oggi, Hilary Clinton spende parole estremamente elogiative nei confronti di Margaret Sanger, americana e membro, dal 1937 al 1957, dell’Eugenic Society fondata da Galton e dell’American Eugenic Society. La Sanger fondò nel 1942 la Planned Parenthood of America ed espresse idee razziste e fortemente eugenetiche nelle sue pubblicazioni e fu guidata da queste idee nelle sue attività.

La propaganda occidentale fa di tutto per nascondere il motivo profondo dell’accanimento contro il popolo palestinese in larghissima parte indifeso e, quando armato, in condizioni di evidente inferiorità rispetto a un esercito perfettamente equipaggiato con le armi più moderne e senza preoccupazioni di rifornimenti militari, forniti dagli USA e dai suoi alleati occidentali, Italia compresa.

L’intenzione del fanatico blocco di potere, schierato a difesa di Israele e dei suoi obiettivi, rappresentato dal cosiddetto occidente collettivo, ha una precisa definizione: si chiama colonialismo. È intorno alla bandiera del colonialismo che le potenze occidentali si riconoscono e si raccolgono. È lo spirito mai sopito del colonialismo che fa da collante a tutti i sostenitori di Israele. Lo stesso colonialismo che ha provocato, dal 1796 al 1900 circa 27 milioni di morti nella regione indiana del Bengala durante l’occupazione coloniale inglese, 10 milioni di morti dal 1885 al 1908 nel Congo controllato dal civilissimo Belgio. Dal 1943 al 1944 un’ennesima carestia colpì di nuovo il Bengala provocando tra 2 e 3 milioni di morti. Winston Churchill fu tutt’altro che estraneo a questa tragedia, lo stesso Churchill che, per sua diretta ammissione, non vedeva nulla di sbagliato nell’appropriazione di terre appartenenti a un popolo più primitivo da parte di un popolo più evoluto, che avrebbe potuto sfruttarle meglio. Circa 12 milioni di morti furono causati delle guerre “post-coloniali” sostenute dalle potenze occidentali in Africa dal 1962 al 2005. Almeno sette leader africani sono stati assassinati dal 1961 al 2011, direttamene o attraverso operazioni sotto copertura, dalle potenze occidentali.  Patrice Lumumba (primo ministro della Repubblica Democratica del Congo, ucciso nel 1961), Sylvanus Olympio (primo Presidente del Togo, ucciso nel 1963), Amilcar Cabral (leader rivoluzionario, Guinea Bissau, ucciso nel 1973), Murtala Mohammed (Presidente della Nigeria, ucciso nel 1976), Thomas Sankara (Presidente del Burkina Faso, ucciso nel 1987), Laurent-Désiré Kabila (presidente della Repubblica Democratica del Congo, ucciso nel 2001), Muammar Gheddafi (Presidente della Libia, ucciso nel 2011). Tutti questi leader, benché con ideologie differenti e in contesti differenti, erano accumunati dal loro rifiuto del colonialismo e dello sfruttamento dei loro paesi da parte di potenze straniere. L’occidente collettivo si è anche distinto nell’appoggio incondizionato a sanguinari dittatori come Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bédel Bokassa nella Repubblica Centroafricana, Mobutu Sese Seko nello Zaire e Macias Nguema nella Guinea Equatoriale.

Per rimanere sul continente africano, sono innumerevoli le guerre tra stati e le guerre civili fomentate dalle potenze occidentali nel loro tentativo di controllo post-coloniale, a cui si devono aggiungere i colpi di stato mirati a mettere fuori gioco i leader progressisti. Milioni di morti dimenticati causati da guerre dimenticate. Tanto per citarne solo alcune ricordiamo le guerre civili in Algeria (1992-2002I, in Libano (1975-1990), in Sudan (in varie fasi dal 1955ad oggi), in Biafra (1966-1970), in Etiopia (1974-1991), in Mozambico (1975-1992), in Angola (1975-1994), Uganda (1979-1986), Ruanda (1994), in Congo (1997-2003) che da sola ha causato, direttamente e indirettamente,  5,4 milioni di morti, in Siria (2011 – non ancora conclusa), Libia (2012 – non ancora conclusa), la guerra Iraq-Iran (1980-1988) e  la cosiddetta “Guerra del Golfo” contro l’Iraq (1990-2003) scatenata dagli USA. A questo proposito è opportuno ricordare una notissima intervista a Madeleine Albright, allora segretario di stato USA, a proposito delle morti dovute all’embargo strettissimo a cui fu sottoposto l’Iraq. Alla considerazione dell’intervistatrice, che osservava come a causa dell’embargo morirono più bambini di quanti ne fossero periti nei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, l’Albright candidamente affermò che ne era valsa la pena. Come ebbe a scrivere Conrad nel suo celebre romanzo Cuore di tenebra: “La conquista della terra, che fondamentalmente significa prenderla a coloro che hanno la pelle diversa dalla nostra o il naso leggermente più schiacciato, non è una cosa tanto bella da vedere, quando la guardi troppo da vicino”.

Ciò che sta avvenendo a Gaza è dunque il pieno dispiegamento della prepotenza coloniale in tutta la sua brutale efficacia. La pulizia etnica è l’ideologia soggiacente agli interessi coloniali, che considerano untermensch, secondo il vocabolario nazista, tutti coloro che si oppongono ai loro progetti di dominio, in piena continuità con teorie eugenetiche mai abbandonate.

Vi sono inquietanti assonanze fra la vicenda palestinese e gli eventi, in gran parte dimenticati, che videro protagonista il movimento del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino, attivo tra il 1954 e il 1962, anno della liberazione dell’Algeria dal dominio francese. La storia della lotta algerina per l’indipendenza è molto simile a quella a cui stiamo assistendo nella Striscia di Gaza e i metodi repressivi delle potenze coloniali sono sempre caratterizzati dalla stessa brutalità.

Gli antecedenti della nascita della lotta di liberazione possono essere individuati negli eventi sanguinosi avvenuti, nel 1945, nelle città di Setif e Guelma, quando nei giorni seguenti ai moti del 5 maggio, in cui gli indipendentisti chiedevano la fine dell’occupazione francese e sventolavano bandiere con la mezzaluna rossa su sfondo bianco e verde. Migliaia di algerini furono uccisi dalla polizia, dai soldati e dai coloni armati francesi. Il numero di vittime non è mai stato accertato con precisione. I servizi di informazione inglesi stimarono in circa 6.000 le vittime e in circa 14.000 i feriti. Oggi le stime sono state corrette, alcuni storici francesi ritengono che le vittime furono 20.000, mentre il governo algerino le stima in 45.000.

Il 1° novembre 1954, i guerriglieri dell’FLN effettuarono attacchi organizzati in diverse parti dell’Algeria contro installazioni militari, posti di polizia, magazzini e strutture di comunicazione. Dal Cairo, il FLN invitò alla radio il popolo algerino e gli attivisti della causa nazionale a sollevarsi per “la restaurazione dello Stato algerino, sovrano, democratico e sociale, nel rispetto dei principi dell’Islam e del rispetto di tutte le libertà fondamentali, senza distinzioni di razza e religione”.

Le forze armate francesi iniziarono una guerra senza quartiere applicando spietatamente il principio della responsabilità collettiva ai villaggi sospettati di ospitare, rifornire o collaborare in qualsiasi modo con la guerriglia. Numerosi villaggi furono sottoposti a bombardamenti aerei, anche con bombe al fosforo, e furono distrutti campi e frutteti per privare i contadini di ogni mezzo di sussistenza. I francesi concentrarono gran parte della popolazione rurale, a volte interi villaggi, in campi speciali sotto sorveglianza militare per impedire la collaborazione con i ribelli o – secondo le dichiarazioni ufficiali – per proteggerli dalla violenza del Fronte di Liberazione Nazionale. Oltre due milioni di algerini furono sradicati dai loro luoghi di origine.

La “Battaglia di Algeri” scoppiò il 30 settembre 1956, quando tre donne piazzarono bombe in tre diversi luoghi frequentati da civili francesi, uccidendo tre persone e ferendone cinquanta. La risposta francese fu violenta e brutale. Agli attacchi terroristici contro civili algerini perpetrati da gruppi di coloni francesi, assistiti dalla polizia, fece fatto seguito il dispiegamento di un corpo d’élite di 5.000 paracadutisti, che agirono al di fuori di ogni regola, uccidendo, torturando e violentando. Si stima che per l’uso della tortura da parte delle forze francesi, dei 24.000 algerini arrestati durante la battaglia, ne morirono circa 3.000.

Oltre alle innumerevoli tipologie di tortura utilizzate, gli stupri delle donne algerine furono veri e propri strumenti di una strategia di guerra repressiva e brutale. Sempre negato dalle autorità militari, lo stupro è stato uno strumento di punizione e di terrore utilizzato dalle truppe francesi contro la popolazione femminile algerina. Il picco si è verificato tra il 1959 e il 1960, soprattutto nelle zone rurali. Le truppe francesi commisero anche un’altra infamia, quella di utilizzare alcune donne rinchiuse nei campi di detenzione come schiave sessuali per soldati e ufficiali.

Il 17 ottobre 1961, l’FLN organizzò una manifestazione pacifica a Parigi, alla quale parteciparono circa 30.000 algerini. La polizia francese disperse la manifestazione sparando sulla folla. 14.000 persone furono arrestate e 200 uccise, molte delle quali furono gettate nella Senna. Il governo francese ha riconosciuto solo 32 vittime.

L’Algeria ottenne l’indipendenza nel 1962. Il prezzo della guerra fu enorme. Su una popolazione di 10 milioni di abitanti, si stima furono uccisi tra 300.000 e 1.000.000 di civili algerini (1.500.000 secondo il governo algerino) e circa 3.000.000 furono internati nei campi di concentramento. Inoltre, ci furono 28.500 morti tra i soldati francesi, da 30.000 a 90.000 morti tra i soldati algerini fedeli alla Francia, da 4.000 a 6.000 morti tra i civili europei e circa 65.000 feriti.

Va ricordato che che i partiti francesi socialisti e comunisti sostennero, di fatto, la guerra dell’imperialismo francese contro la rivoluzione algerina. Il premier socialista dell’epoca, Guy Mollet, gestì politicamente l’inasprimento della repressione in Algeria e i deputati comunisti non fecero nulla per fermare il massacro. L’unica eccezione fu Jean-Paul Sartre, il quale, con coerenza e senza compromessi, si schierò dalla parte degli indipendentisti algerini. Nel gennaio 1956, partecipò a un incontro per la pace in Algeria dove tenne un discorso che diventerà uno dei suoi testi più celebri: “Il colonialismo è un sistema”. Oggi è ricordato in Francia come un “cattivo maestro”. Morto un filosofo se ne fa subito un altro, ed ecco che il “buon maestro” Bernard Henry-Lévy ci regala un’intervista, pubblicata su La Stampa nella quale afferma che occupazione, carestia, genocidio a Gaza sono tre bugie che vanno smontate.

Il Fronte di Liberazione Nazionale, in un famoso volantino, scriveva: “il colonialismo si arrende solo con un coltello alla gola”. Mai affermazione fu più appropriata. Per questo, ogni piano di pace a Gaza è destinato a fallire. Il colonialismo che alimenta questa tragedia non ha il coltello alla gola, lo ha dalla parte del manico.

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Mamdani e l'isterismo "liberal" - Alessandro Volpi

 

L'elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York meriterebbe moltissime considerazioni, a partire da quella relativa alla straordinaria affluenza al voto, la più alta da 50 anni, a dimostrazione, forse, che solo con proposte davvero radicali è possibile rimobilitare la partecipazione elettorale, in particolare delle fasce con redditi più bassi. Ma io vorrei soffermarmi su un paio di aspetti peraltro tra loro collegati. Il primo ha a che fare con la reazione isterica di gran parte della stampa e dei media italiani. I grandi saggi Mieli, Rampini, la mobilitata redazione del "Sole 24", la grande famiglia della Rai, il pensoso Molinari si sono immediatamente prodigati nel sostenere che la vittoria di un socialista musulmano nella Grande Mela, oltre ad essere una profonda sciagura, rappresenta un unicum non certo trasferibile al caso italiano dove, affermano in coro, si vince correndo al Centro ed evitando estremismi perdenti.

Ora, varrebbe la pena ricordare a questa aulica compagnia di "liberal" che, in realtà le proposte "eversive" di Mamdami sono state parte integrante del patrimonio della Sinistra italiana dalla Costituente fino alla conclusione degli anni Settanta (Servizi pubblici gratuiti, indicizzazione delle retribuzioni, salari minimi, asili e nidi gratuiti, piani di edilizia popolare, calmiere degli affitti ed equo canone, tutela dei diritti individuali e collettivi).

La pensavano così infatti Di Vittorio, Trentin, Berlinguer, i tanti sindaci rossi a cominciare da Zangheri, Ingrao, Lombardi, ma anche La Pira, Moro e un eretico radicale come Ernesto Rossi. La pensavano così anche i movimenti che dalla metà degli anni Novanta hanno provato a rispondere alla ondata socialmente durissima della glòobalizzazione. Il patrimonio di Mamdani è dunque ben radicato nella cultura politica della Sinistra e del pensiero sociale del nostro paese che, come il neo sindaco, erano convinti della necessità di coinvolgere il mondo degli intellettuali in maniera organica, secondo la migliore tradizione gramsciana.

Il vero problema è che poi gran parte della Sinistra italiana ha abbandonato questa visione per aderire appunto al modello neoliberale dove l'assunto principale era la competizione di mercato e l'abbattimento del carico fiscale per i ricchi. Ma, pure su questo Mamdani sostiene una linea cara alla vera Sinistra che parlava di fisco negli anni 50 e 70, e a cui non sarebbe certo stata estranea l'idea di portare l'aliquota per coloro che hanno un reddito annuo superiore al milione di dollari dal 3,9 al 5,9 e quella sulle società dal 7,2 all'11%, procedendo al contempo ad una maggiorazione degli oneri di urbanizzazione e delle imposte immobiliare nelle aree di New York più ricche.

Dunque il vero punto per la futura Sinistra italiana è riconoscere in Mandani la parte migliore e più efficace della propria storia, resistendo all'offensiva dei liberali terrorizzati da un giovane sindaco molto più che da Trump perché quel sindaco ha risposto al centro il tempo cruciale: la Sinistra deve essere capace di rappresentanza di classe, intesa come quella estesissima fascia di popolazione ormai in condizioni di precarietà e di costante minaccia di povertà. E allora "alziamo il volume".

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-mamdani_e_listerismo_liberal/39602_63470/

martedì 11 novembre 2025

Par condicio nei dibattiti, gli studenti: “Così Valditara lede la libertà di pensiero. Il 14 novembre scenderemo in piazza” - Alex Corlazzoli

 

“Ma di quale par condicio parla Valditara se i nostri professori non arrivano nemmeno ad affrontare la questione Israele-Palestina nel programma? Con questa circolare si sta colpendo solo la volontà degli studenti di affrontare questioni d’attualità scegliendo da che parte stare e si stanno intimorendo anche i docenti”. Sono le parole di Angela Verdecchia, coordinatrice nazionale della Rete degli Studenti Medi. Alla ripresa della settimana scolastica ci pensano i giovani a rispondere alla nota inviata venerdì a mezzogiorno da viale Trastevere sulle “manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche”.

A firmare il documento, trasmesso ai presidi e agli uffici periferici del ministero, è il braccio destro del professore milanese ovvero il (questo è l’articolo adoperato dal Mim ndr) capo dipartimento, Carmela Palumbo. La circolare, dopo una premessa che cita per tredici righe la Legge 92 del 20 agosto 2019 ovvero l’introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica e le linee guida a firma del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, sottolinea che “l’organizzazione e lo svolgimento, all’interno delle istituzioni scolastiche, di manifestazioni ed eventi pubblici di vario tipo aventi ad oggetto tematiche spesso di ampia rilevanza politica e sociale, siano caratterizzati dalla presenza di ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza. Si ritiene, infatti, che nell’organizzazione di tali eventi, il cui valore formativo rimane indiscusso, le istituzioni scolastiche, nell’ambito dell’autonomia loro riconosciuta, debbano operare in modo da assicurare il pieno rispetto dei principi del pluralismo e della libertà di opinione e garantire, in ogni caso, il dialogo costruttivo e la formazione del pensiero critico”.

Parole che arrivano dopo il caso del convegno su Gaza al liceo romano Righi, al quale doveva prendere parte un esponente della Global Sumud Flotilla, cancellato a poche ore dall’inizio dopo che il deputato della Lega Rossano Sasso aveva fatto notare che sarebbe mancato il contraddittorio. Una nota quella di Valditara che oltre a destare la consueta polemica tra l’opposizione e la maggioranza ha smosso anche i giovani.

Nemmeno il Movimento degli studenti dell’Azione cattolica è rimasto a guardare e proprio in queste ore la segreteria nazionale si incontrerà per riflettere ed eventualmente prendere una posizione sulla nota del ministero. Intanto, è la Rete Studenti Medi a farsi sentire: “E’ dall’inizio dell’anno scolastico che Valditara con diverse dichiarazioni ha tentato di ledere la libera manifestazione del pensiero degli studenti sul conflitto in corso a Gaza. Qui non si tratta di garantire il libero confronto di posizioni diverse, a favorire una approfondita e il più possibile oggettiva conoscenza dei temi proposti ma di guardare appunto con obiettività a quanto sta accadendo: uno Stato, Israele, sta opprimendo una popolazione affamandola. La Scuola ha tutto il diritto di dire che il nostro governo ha avuto nei confronti di questa situazione una presa di posizione timida ed ipocrita”, sottolinea Verdecchia annunciando una manifestazione di tutti i movimenti studenteschi il 14 novembre.

La Rete degli Studenti Medi è preoccupata per l’atmosfera che si è creata persino attorno al convegno promosso dal Cestes (Centro studi trasformazioni economiche sociali) sulla militarizzazione nelle scuole al quale è stato impedito ai docenti di partecipare ottenendo il giorno di permesso come formazione. A prendere posizione è anche l’Unione degli studenti attraverso il coordinatore nazionale Tommaso Martelli che al Fattoquotodiano.it dice: “La circolare inviata alle scuole da parte del ministro Valditara sulla par condicio nei dibattiti scolastici è pericolosa. È perfettamente in linea con l’idea del ministro di rendere le scuole degli spazi con sempre meno autonomia di insegnamento e sempre meno possibilità di prendere iniziativa. L’idea di una par condicio, imposta arbitrariamente all’interno di ogni dibattito, solo per direttiva nazionale, se non è una disperata ricerca di imporre idee conservatrici, vecchie e di parte, vicine alle idee del ministro e del nostro governo, è quanto meno poco pensata”.

L’Uds entra anche nel merito dell’iniziativa al Righi: “Non sappiamo se il Ministro in questo caso avrebbe voluto la presenza di uno dei soldati dell’Idf che hanno arrestato i membri della Flotilla. È giusto, come è scritto nella circolare, che lo sviluppo del pensiero critico sia prerogativa delle scuole, ma se vogliamo individuare le cause dell’abbassamento della qualità formativa dobbiamo andare a guardare ai tagli all’istruzione continui negli anni proposti da questo governo, o nelle linee guida per l’insegnamento, autoritarie, conservatrici e nazionaliste imposte dal ministro”.

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Il nostro Ssn resta sottofinanziato rispetto ad altri paesi Ue: cinque proposte attuabili per migliorare - Giovanni Fattore

 

Credo che solo dal basso possano emergere soluzioni praticabili. La politica, oggi, è paralizzata da veti incrociati

Ancora una volta, il governo ha colto di sorpresa le opposizioni. Di fronte a numerose petizioni in difesa del Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), ricche di principi condivisi ma povere di proposte concrete, la manovra di bilancio introduce un aumento del finanziamento al sistema pubblico superiore alle aspettative. Questo incremento, seppur modesto, migliora il rapporto tra spesa sanitaria pubblica e Pil: è una buona notizia.

Tuttavia, il nostro Ssn resta gravemente sottofinanziato rispetto agli altri principali paesi europei. Il miglior indicatore per misurare questo divario è proprio il rapporto tra spesa sanitaria pubblica e Pil: in Italia è inferiore di un punto percentuale rispetto al Regno Unito (che ha un sistema simile al nostro) e di quasi tre punti rispetto alla Germania. Le conseguenze ricadono sui cittadini, che non ricevono tutte le risposte di cui hanno bisogno, e su circa 600.000 lavoratori del settore, penalizzati da retribuzioni troppo basse. È quindi urgente passare dai principi alle proposte concrete. Ne avanzo cinque, perché credo che solo dal basso possano emergere soluzioni praticabili. La politica, oggi, è paralizzata da veti incrociati.

1. Abolire la detrazione fiscale del 19% sulle spese sanitarie individuali, destinando integralmente il maggior gettito al Ssn. Si tratta di circa 3 miliardi di euro annui, in modo permanente. Le detrazioni sono inique: favoriscono i più benestanti, anche per via della franchigia di 129 euro sotto la quale non si ha diritto alla detrazione. Basti pensare che il 20% più povero della popolazione spende circa 200 euro in sanità privata, mentre il 20% più ricco ne spende 1.300. È evidente chi beneficia di più da questo meccanismo.

2. Rivedere il sistema dei ticket e delle esenzioni. Occorre ridurre i ticket sull’assistenza specialistica, che incentivano il ricorso al privato (una visita medica a 36 euro spinge molti fuori dal Ssn), e aumentare quelli sulla farmaceutica, dove in alcune regioni sono stati aboliti, favorendo accumuli di confezioni e prescrizioni inappropriate. Un ticket di 4 euro per confezione è sostenibile per la maggior parte degli italiani e genererebbe risorse importanti. Va anche rivisto il sistema delle esenzioni: considerare automaticamente fragili gli over 65 è ormai superato. L’età andrebbe alzata almeno a 70, se non a 75 anni. Inoltre, come avviene in molti paesi europei, si dovrebbe introdurre un tetto massimo: la spesa per ticket non dovrebbe superare il 2% del reddito; oltre questa soglia, il cittadino non paga più.

3. Riformare la governance delle aziende sanitarie pubbliche. Serve una legge nazionale che preveda la nomina, da parte del Presidente della Regione, di un Direttore Generale regionale del sistema sanitario, selezionato con criteri rigorosi. Questo Direttore dovrebbe poi nominare autonomamente i Direttori Generali delle singole aziende. Un contratto scritto tra Presidente e Direttore dovrebbe definire obiettivi, clausole di revoca e altri aspetti negoziali. L’obiettivo è limitare il clientelismo e potenziare l’autonomia manageriale, lasciando alla politica il controllo strategico del sistema e aumentando la professionalizzazione della gestione sanitaria.

4. Imporre la natura non-profit alle aziende sanitarie private sopra una certa soglia di fatturato. La ricerca del profitto in sanità genera incentivi distorti che danneggiano i pazienti. La proposta non è radicale: le aziende profit si dovrebbero trasformare giuridicamente in fondazioni o enti simili, continuando a operare come prima, ma senza distribuire profitti e con obiettivi più allineati all’interesse pubblico. Questo divieto vige in Olanda, uno dei paesi più liberisti d’Europa.

5. Investire nelle professioni sanitarie non mediche, in particolare infermieristiche. Con parte delle risorse aggiuntive per il Ssn, si dovrebbe creare un fondo per aumentare le retribuzioni, promuovere una grande campagna pubblica sul valore di queste professioni e potenziare le cattedre universitarie. È emblematico che, su mille professori nelle facoltà di medicina italiane, solo 11 siano ordinari nel settore delle scienze infermieristiche. Un dato semplicemente incredibile.

Queste proposte sono concrete, da dettagliare, migliorabili e presentate per un confronto. E sono attuabili, e forse meritano almeno un po’ di attenzione.

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lunedì 10 novembre 2025

L’ideologia del merito fa male alla scuola - Christian Raimo

 


Negli ultimi anni l’appello al merito e alla meritocrazia è tornato centrale nel dibattito pubblico, sopratutto a partire dalla crisi economica del 2008. Proprio quell’anno, tra l’altro, uscì Meritocrazia di Roger Abravanel (Garzanti). Successivamente però si sono moltiplicate le voci che ne hanno messo in discussione un uso a volte acritico, altre ideologico, se non un vero e proprio abuso. Un testo centrale, in questo senso, è stato La tirannia del merito di Michael Sandel (Feltrinelli 2021). Si è creato così un dibattito vivo e divisivo, che riguarda anche le istituzioni.

In Italia chi difende i valori del merito e della meritocrazia si rifà in genere alla seconda parte dell’articolo 34 della costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Il merito dunque deve avere diritto di cittadinanza in una democrazia come quella italiana che nella sua costituzione (articolo 3) sancisce come suo principio fondativo un’uguaglianza sostanziale? In che modo merito e uguaglianza possono stare insieme?

Chi lo difende da una prospettiva liberale di destra – il sociologo Luca Ricolfi, per esempio – se la prende soprattutto con i fantasmi di un presunto ugualitarismo nato nel sessantotto, colpevole di aver tradito il progetto dei padri costituenti, creando una “scuola facilitata”.

Chi segue una prospettiva socialdemocratica insiste sull’uguaglianza delle opportunità e sulla possibilità di costruire una scuola che si rifaccia a questo valore. Sono citati filosofi come Martha Nussbaum, Amartya Sen, John Rawls; si mette in discussione un concetto di uguaglianza più radicale, liquidato come un socialismo uniformante e utopico.

Chi lo critica a sinistra da una prospettiva socialista ritiene che quest’equilibrio tra uguaglianza e merito sia impossibile, e che produca anzi torsioni ideologiche che andrebbero invece smascherate.

Il libro che ha segnato un prima e un dopo in questa disputa è un romanzo-pamphlet del 1958. L’ha scritto il sociologo laburista inglese Michael Young, si intitola L’avvento della meritocrazia ed è estremamente profetico. Nel testo Young immaginava che nel 2033 un’utopia si sarebbe trasformata in una distopia, in cui la meritocrazia distruggeva le democrazie liberali. In questo mondo, volendo migliorare i criteri di giustizia sociale si finiva con il provocare risultati terribili e ridicoli.

Young mostra i limiti di un concetto che necessariamente vive in un campo di forze dinamico: quanto cambia il merito al cambiare di ciò che è riconosciuto come meritevole? E, soprattutto, chi decide il merito?

Pregiudizi strutturali

Proprio perché è un dibattito sui valori di riferimento, in Italia quello sul merito si è concentrato soprattutto sulle istituzioni scolastiche e sull’educazione in generale. È successo in particolare da quando il governo Meloni ha deciso di ribattezzare il ministero dell’istruzione in ministero dell’istruzione e del merito. Lo stesso ministro Giuseppe Valditara non perde occasione per ricordare la centralità di questo concetto.

L’ha fatto nel suo intervento al raduno della Lega a Pontida il 23 settembre: “Sette, otto ragazzi l’anno scorso hanno deciso di contestare il merito alla maturità. Noi siamo per il merito, e riteniamo che la scuola debba eliminare gli ostacoli, aiutare i ragazzi a risolvere i problemi, non a aggirarli, non a negarli”. L’ha fatto il 30 luglio, quando è stato dato il via libera del consiglio dei ministri alla riforma del voto in condotta, che lo rende più determinante nei percorsi scolastici: “Costruiamo una scuola autorevole. Fondamentali, merito, rispetto e centralità della persona”.

Il merito sembra un concetto neutro e positivo. Perché allora essere scettici sul suo utilizzo in ambito pedagogico, per esempio? Una buona risposta la si può trovare nel capitolo che gli dedica il docimologo, studioso di valutazione, Cristiano Corsini nel libro La fabbrica dei voti (Laterza 2025).

Spesso, mostra Corsini, i nostri giudizi su ciò che valutiamo positivamente e sul merito sono influenzati da una serie di pregiudizi strutturali che proprio le valutazioni a scuola alimentano: “Le disuguaglianze del sistema in tal modo non vengono solo riprodotte dal voto, ma anche legittimate: il vantaggio diventa merito, il privilegio diritto, lo svantaggio colpa”.

Corsini, come altri studiosi della valutazione e del merito, prova a indicare quali sono le lenti distorsive che applichiamo ai processi per riconoscere il merito.

C’è per esempio l’effetto san Matteo (ispirato al passo biblico “a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”) per cui spesso chi ha un vantaggio iniziale nell’apprendimento acquisisce maggiori competenze nel tempo. C’è l’effetto Pigmalione (ispirato alla figura mitologica del re di Cipro, che scolpì una meravigliosa statua di Afrodite e poi pregò gli dei di darle vita per sposarla), per cui “se gli insegnanti credono che un bambino sia meno dotato, o più dotato degli altri, lo tratteranno, anche inconsciamente, in modo diverso dal resto del gruppo; il bambino interiorizzerà il giudizio e si comporterà di conseguenza; si instaura così un circolo vizioso per cui il bambino tenderà a divenire nel tempo proprio come l’insegnante lo aveva immaginato”.

Ma c’è soprattutto un’impossibile pretesa di oggettività quando assegniamo note di merito e di demerito a qualcuno.

L’ascensore sociale

Già nel 1979 escono due testi che ridefiniscono il dibattito sul merito e il valore sociale dato dall’educazione. Pierre Bourdieu pubblica La distinzione, in cui sostiene che i sistemi educativi riproducono e si reggono su un classismo di tipo culturale. Nello stesso anno Randall Collins pubblica The credential society. An historical sociology of education and stratification (purtroppo mai tradotto in italiano) che dà vita a un lungo filone di riflessione sul “mercato” dei crediti, dei meriti e delle valutazioni. Da questi testi in poi è chiaro che il concetto di merito può essere molto soggettivo, e intrinsecamente relativo – si è meritevoli se qualcun altro lo è meno di noi – e serve a creare e perpetuare classificazioni sociali.

Del resto la tesi che “i capaci e i meritevoli” finiscano per appartenere sempre un po’ alla stessa classe sociale e culturale l’aveva già sostenuta sempre Bourdieu (insieme a Jean Luc Passeron) in Les héritiers (1964) e in La riproduzione (1970). E in maniera ancora più esemplare don Lorenzo Milani con i suoi ragazzi di Barbiana in Lettera a una professoressa (1967): “Ancora sostenete che dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri”.

In genere chi non rinuncia a minimizzare il problema della presenza e del peggioramento delle disuguaglianze è di orientamento liberale, e fa proprie le riflessioni di figure di liberali italiani anche autorevoli come Gaetano Salvemini o Pietro Calamandrei. Entrambi, dall’inizio del novecento agli anni del fascismo, a quelli dell’assemblea costituente e oltre, tornarono spesso sulla funzione della scuola come ascensore sociale: l’importanza di dare a tutti l’opportunità di diventare classe dirigente.

Ma nella metafora dell’ascensore sociale c’è un rischio: quello di non distinguere due aspetti significativi di una prospettiva politica che si vuole democratica. Il primo è sottintendere di vivere in una società che deve rimanere gerarchica e verticale. Il secondo è che è difficile ammettere l’equità di un ascensore sociale che per alcuni si muove anche verso il basso. Semplicemente, forse fatichiamo a riconoscere i privilegi. Li consideriamo spesso naturali o inamovibili, o perfino giusti, e altrettanto spesso li confondiamo con i meriti.

 

Anche per questa difficoltà, nella società e nella scuola italiana le disuguaglianze sono tali che parlare di merito senza pensare a come affrontarle è ipocrita. Quella più decisiva riguarda la cittadinanza. Dal rapporto di settembre di Save the children “Chiamami col mio nome” e dalle rilevazioni Istat risulta che nelle classi ci sono circa 860mila studenti non italiani, due terzi dei quali sono nati in Italia. Hanno le stesse opportunità degli altri loro compagni? Ci sarebbe più uguaglianza attraverso il sostegno ai “capaci e meritevoli”? Se ci fossero più borse di studio, come stabilito dalla costituzione e che drammaticamente mancano, le cose potrebbero andare meglio?

I dati sono significativi: la dispersione scolastica è del 30,1 per cento tra le ragazze e i ragazzi non italiani, mentre è del 9,8 per cento tra quelli italiani. Nel 2023 il 26,4 per cento degli studenti senza cittadinanza italiana era in ritardo scolastico (cioè ripetente), a fronte del 7,9 per cento di studenti senza background migratorio.

Tra i minori con origine straniera di prima generazione il 3,1 per cento ha ripetuto la scuola uno o più anni, il 17,8 una volta, il 79 per cento mai. Tra gli alunni senza background migratorio invece lo 0,6 per cento ha ripetuto più volte l’anno scolastico, il 4,6 una volta, il 94,8 mai.

Se definire cos’è il merito può essere difficile, lo è molto meno nel caso della cittadinanza. E non solo possiamo ammettere quanto questa barriera sia discriminatoria – un buon testo per conoscere lo stato dell’arte è Tra i bianchi di scuola (Einaudi 2024) di Espérance Hakuzwimana – ma sappiamo da diversi studi che la cittadinanza contribuisce a diminuire l’abbandono scolastico, ad aumentare la frequenza delle scuole superiori e a migliorare il rendimento anche in materie chiave come la matematica.

Nozioni vaghe

Di fronte a queste disuguaglianze così evidenti, parlare di riconoscere e premiare il merito a scuola e in altri contesti educativi e sociali, sembra davvero una pratica astratta, a rischio di diventare perfino controproducente dal punto di vista dell’uguaglianza e della giustizia. Eppure in Italia il discorso pubblico sull’istruzione spesso si paralizza proprio solo su questo confronto sulla valutazione di studenti, docenti e istituti (come testimonia il rituale delle classifiche di Eduscopio di fine novembre).

Quello che emerge dalla lettura dell’infinita bibliografia critica sul merito è che per cercare di definire e valorizzare un concetto che ci sembra così vago, si usano nozioni che rischiano di essere ancora più vaghe, come quelli di “talento” o di “differenza delle intelligenze”.

Una delle più interessanti sfide pedagogiche degli ultimi anni sarà invece quella che riguarda la ricerca sull’uguaglianza delle intelligenze. Le ideologie di destra, neoliberiste, conservatrici, tradizionaliste, autoritarie, postfasciste, hanno tutte un punto in comune: cercano di trovare degli elementi che giustifichino le disuguaglianze. Quest’attacco della destra arriva spesso a mettere in discussione le conquiste democratiche del secondo novecento, le costituzioni, i diritti per le minoranze. Ed è un’aggressione tanto intensa da richiamare in scena perfino un fantasma di cui pensavamo di esserci per fortuna sbarazzati per sempre: quello del razzismo scientifico, il cui ritorno nel dibattito pubblico è molto più diffuso di quello che immaginiamo. Contro questa tendenza non basta difendere il diritto all’uguaglianza delle opportunità, ma occorrerebbe forse rivendicare quella che potremmo definire l’uguaglianza delle intelligenze. È una linea molto produttiva del dibattito pedagogico attuale, che vede nella riscoperta del lavoro del pedagogista francese Joseph Jacotot (1770-1840) un punto centrale.

A partire dalla biografia politica che ne ha scritto il filosofo francese Jacques Rancière nel 1987, Il maestro ignorante (Mimesis 2008), la riflessione di Jacotot è diventata imprescindibile nella critica alle derive neoliberiste e selettive, giustificate dall’ideologia del merito.

Jacotot sostiene che tutte le intelligenze siano uguali in potenza. Non significa che tutti sappiano le stesse cose, ma che tutti abbiano la capacità di capire e imparare. In Insegnamento universale, lingua materna (Eutimia 2019) Jacotot racconta un suo esperimento a Lovanio, in Belgio, con degli studenti fiamminghi che dovevano imparare il francese. Loro non conoscevano la sua lingua e lui non conosceva la loro.

Jacotot mise a disposizione di ragazze e ragazzi ventenni un’edizione in francese e fiammingo delle Avventure di Telemaco, un romanzo popolare di Fénelon, e li invitò a ragionare sul libro per imparare in modo autonomo. Con sua grande sorpresa, confrontandosi tra loro gli studenti riuscivano a capire il testo e a mano a mano impararono a scrivere in francese, senza spiegazioni dirette.

Nella concezione dominante della pedagogia, l’insegnante è colui che sa e spiega, mentre l’allievo è colui che ignora e deve ricevere passivamente il sapere. Secondo Jacotot, questo modello non educa, ma stordisce l’intelligenza dell’allievo, mantenendolo in una condizione di dipendenza e subordinazione.

Dall’esperienza di Lovanio, Jacotot trasse la convinzione, trasformata in metodo, che il vero compito dell’insegnante è emancipare, cioè aiutare l’allievo a scoprire la propria capacità di pensare. L’uguaglianza delle intelligenze diventa così non solo un’idea pedagogica, ma anche etica e politica.

I più importanti pedagogisti europei, da Gert Biest a Philippe Meirieu, oggi riconoscono a Jacotot (grazie a Ranciére) di aver inaugurato una riflessione sull’uguaglianza più interessante e radicale anche di altri pensatori illuministi più conosciuti, da Condorcet a Helvetius, da Condillac a La Mettrie, citati da chi insiste sulla possibilità di tenere insieme merito e uguaglianza.

Jacotot, Rancière, Biesta, Meirieu, come Paulo Freire o bell hooks e molti altri pedagogisti contemporanei preferiscono dare centralità, piuttosto che al concetto di merito, a quello di emancipazione. Visto che viviamo in un tempo infelice per i diritti all’uguaglianza, non sembra per niente una brutta idea.

Per approfondire

Letture sul merito

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Quegli odiatori con la divisa che scatenano i linciaggi social - Francesca Santolini*

Io, bersaglio di attacchi dopo la pubblicazione del libro sull’ecofascismo. Turpiloquio e insinuazioni nel canale Telegram di forze dell’ordine e militari.

Il politicamente corretto minaccia la libertà d’espressione, viviamo tempi di censura, ormai “non si può più dire nulla”. Lo ripetono in molti, come un mantra e mentre si moltiplicano le lamentazioni, più o meno in buona fede, contro il cosiddetto wokismo, chi prova a raccontare fatti verificabili, che magari non sono in linea con la propaganda dominante, viene travolto da ondate di odio.

Da quasi un anno mi trovo in un vortice dai risvolti angosciosi, che ha cambiato il mio modo di guardare alla rete, e anche a me stessa. Tutto è cominciato nell’aprile 2024 con la pubblicazione di un libro in cui analizzavo il modo in cui le destre estreme si appropriano dei temi ecologici per giustificare discorsi identitari, nazionalisti, talvolta apertamente razzisti. Le prime reazioni furono prevedibili: titoli polemici, critiche ineleganti (per tenerci nel territorio dell’eufemismo), perfino stroncature quasi paranormali, perché pubblicate il giorno stesso dell’uscita, quando il libro non poteva essere stato letto da nessuno.

Poi, il 30 luglio 2024, il breve estratto di un mio intervento televisivo, pochi secondi tagliati, decontestualizzati, in sostanza manipolati, viene rilanciato sui social. La reazione è immediata, compatta, di proporzioni imprevedibili: migliaia di commenti misogini, insulti sessisti, minacce di morte e di stupro.

Chi frequenta il web lo sa: la violenza digitale non è un incidente, è un metodo, anzi un sistema. L’International press institute (Ipi), che in quel periodo stava conducendo un monitoraggio sulle minacce online ai giornalisti ambientali, include il mio caso nel suo rapporto annuale. Nelle conclusioni si legge che gli attacchi non erano casuali, ma parte di “una rete consolidata che seleziona obiettivi specifici e innesca azioni coordinate”. È un linguaggio tecnico, ma dice una cosa semplice: non si tratta di aggressioni verbali volgari, a volte orrende ma spontanee, quasi casuali; si tratta di violenza organizzata.

In ogni caso, dopo mesi di shitstorm, a gennaio 2025 decido di denunciare, segue poi una seconda denuncia a marzo, a seguito della comparsa di nuovi attacchi. Per mesi ho creduto che tutto si limitasse a una delle tante campagne virali di disinformazione, non riuscivo però a capire come ciclicamente saltassero fuori queste ondate di insulti, e soprattutto non riuscivo a capire come il mio nome fosse finito su VKontakte, il social network russo e su Gab, la piattaforma americana che raccoglie suprematisti e neonazisti. Poi pochi giorni fa, ho scoperto un nuovo tassello di questa vicenda surreale che ha cambiato il quadro. Un quadro a dir poco inquietante.

Il mio avvocato ha ottenuto copia del primo fascicolo con i nomi di alcuni hater identificati dalla polizia postale. Pochi, rispetto alle migliaia di messaggi, ma sufficienti per capire che non si trattava solo di profili fittizi. Tra loro, tanto per intenderci, figurano la segretaria provinciale della Lega di Pesaro e un ex consigliere comunale capitolino di Forza Italia: persone con nomi e cognomi, ruoli pubblici, seguito reale. La signora in questione, tanto per dare un’idea della qualità del dibattito, si chiedeva, tra le altre cose, come mai una come me potesse “piacere a un uomo bianco”. Nel medesimo orizzonte concettuale, a completamento, diciamo, un tizio mi augurava di essere ripetutamente stuprata con modalità creative da un gruppo di uomini africani.

Il dettaglio più inquietante, però, è un altro. Tre giorni dopo quel mio intervento televisivo, il video era già stato diffuso su un canale Telegram chiamato O.S.A. Italia, acronimo di “Operatori di Sicurezza Associati”, un gruppo di circa 16 mila iscritti, composto da appartenenti o ex appartenenti alle forze dell’ordine, militari e “simpatizzanti civili”. Sul sito l’associazione si presenta come promotrice della “cultura della legalità e della sicurezza”. Parole nobili, dietro le quali però si nasconde un mondo parallelo, non una realtà professionale neutrale: nei canali social si trovano messaggi polarizzanti intrisi di rancore, retoriche anti-media, teorie complottiste e una propaganda aggressiva mascherata da patriottismo.

Nel canale dove è comparso il mio video si è scatenata una valanga di insulti sessisti, turpiloqui, insinuazioni a sfondo sessuale. Molti dei profili erano riconducibili a persone che indossano, o hanno indossato, una divisa. Il presidente di O.S.A., Gianluca Salvatori detto Drago, è un ex agente della Polizia di Stato noto per le sue apparizioni televisive come “esperto di sicurezza”. Intorno a lui si muovono figure provenienti da movimenti nati durante la pandemia, No Green Pass, no vax, gruppi di protezione civile ideologizzati, oggi riuniti sotto un linguaggio pseudo-istituzionale che mescola populismo legalitario, rabbia e sfiducia verso le istituzioni.

Quando la violenza verbale arriva da chi dovrebbe rappresentare la legalità, si oltrepassa una soglia pericolosa. Il confine tra dissenso e intimidazione si dissolve. Il problema non è solo la brutalità delle parole, ma il loro effetto: normalizzano la prepotenza, danno l’idea che insultare sia un modo legittimo di partecipare al dibattito pubblico.

Un dato del rapporto dell’IPI mi ha colpita: oltre l’80% degli attacchi che ho subito proveniva da uomini. Non è una sorpresa. La violenza online contro le giornaliste ha quasi sempre una componente sessualizzata: serve a ribadire che certi argomenti – ambiente, energia, economia – restano affare maschile. Ovviamente il tema non è la mia vicenda personale. È la fotografia di un clima. La libertà di parola, in molti casi, è diventata un alibi: la scusa dietro cui si nasconde l’impunità dell’offesa. Chi invoca il diritto indiscriminato di “dire ciò che pensa” ignora che la libertà d’espressione non è un’arma per colpire, ma uno spazio di responsabilità condivisa.

Forse l’odio digitale sembra qualcosa di impalpabile, fatto solo di parole. Ma le parole non sono mai solo parole: costruiscono realtà, creano categorie, orientano comportamenti. Allora sì, forse oggi “non si può più dire nulla”. Ma non perché esista una dittatura del politicamente corretto, semmai perché è diventato normale odiare. Difendere la libertà d’espressione, oggi, significa difendere la possibilità di parlare senza essere intimiditi dalle aggressioni online come dalle querele dei potenti. Significa saper distinguere il dissenso dall’aggressione, in sostanza: la critica dalla diffamazione.

*da La Stampa

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domenica 9 novembre 2025

L’isolamento di Israele - Francesco Pallante

 

Intervenendo alla Knesset lo scorso 13 ottobre, Donald Trump ha sostenuto che, grazie al suo piano di pace, «ora il mondo ama di nuovo Israele». Per poi aggiungere – con parole rivolte direttamente a Benjamin Netanyahu – «che se foste andati avanti con la guerra e le uccisioni non sarebbe stato lo stesso» (cioè, il mondo avrebbe continuato a odiarvi).

Naturalmente, come spesso capita, anche in questa occasione il presidente degli Stati Uniti ha sovrapposto i propri desideri alla realtà. Il mondo continua a essere sgomento al cospetto della violenza scatenata, e ostentata, da Israele contro gli inermi di Gaza (e, sempre più, anche della Cisgiordania); e nessun credibile segnale mostra mutamenti nella ripulsa con cui l’opinione pubblica mondiale continua – giustamente – a considerare Israele. È, tuttavia, significativo il fatto che Trump abbia ritenuto di dover intervenire sulla reputazione dello Stato ebraico, anche perché le sue parole non sono figlie di una considerazione estemporanea. Secondo quanto riportato dal Financial Times, già durante l’estate, il 31 luglio, il presidente statunitense aveva toccato l’argomento in una conversazione privata intrattenuta con un influente donatore della sua campagna elettorale, al quale aveva confessato: «il mio popolo sta iniziando a odiare Israele». Ciò induce due considerazioni.

La prima considerazione è che dalla guerra dell’informazione Israele è uscito sconfitto, a dispetto delle enormi risorse economiche profuse in propaganda e della pletora di media, giornalisti e influencer assoldati al suo servizio. Due anni di violenza bellica contro i civili, spietata al punto da renderla genocidaria, hanno alienato allo Stato ebraico molte delle simpatie di cui tradizionalmente godeva, unitamente a quelle acquisite all’indomani dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023. Decenni d’incessante lavorio sull’inquadramento ideologico e sullo sviluppo storico del conflitto israelo-palestinese sono finiti in cenere. Feticci un tempo inscalfibili – come quelli di «unica democrazia del Medio Oriente», «minaccia esistenziale al diritto all’esistenza di Israele», «esercito più morale del mondo» – suonano oggi ridicoli; così come ridicole suonano le parole un tempo proprie del linguaggio dominante – «vittime collaterali», «territori contesi», «esodo dei palestinesi», «guerra difensiva», «civili usati come scudi umani» –, che oggi screditano chi ancora osa pronunciarle. Il vergognoso «definisci bambino» proferito durante un dibattito televisivo dal presidente dell’associazione Amici di Israele, Eyal Mizrahi, è divenuto il simbolo di una propaganda così smaccata da farsi caricaturale. E persino il solitamente compassato (nei modi) Paolo Mieli ha perso la testa quando, non avendo argomenti da spendere, si è ridotto a dileggiare pubblicamente per il suo aspetto fisico la studiosa palestinese residente in Italia Souzan Fatayer, sulla base del cortocircuito mentale per cui solo i fisicamente filiformi avrebbero facoltà di denunciare la carestia provocata da Israele a Gaza. Ciò che più impressiona è che, nel loro spregiudicato cinismo, Israele e i suoi sostenitori non hanno avuto ritegno di gettare nel discredito persino l’antisemitismo. Chiunque abbia mosso la più timida critica all’operato dello Stato ebraico o abbia osato allontanarsi dalla sua versione dei fatti o non abbia docilmente ottemperato ai suoi desiderata è divenuto, per ciò solo, «antisemita», mentre, nel frattempo, chi pronunciava tale accusa – l’accusa più infamante – non esitava ad accompagnarsi ai nostalgici del fascismo e del nazismo. È difficile immaginare per il sionismo una nemesi più radicale dell’aver reso lo Stato di Israele la più rilevante minaccia per la sicurezza degli ebrei nel mondo.

La seconda considerazione è che l’orientamento dell’opinione pubblica ha assunto una rilevanza decisiva nel determinare gli sviluppi degli eventi in Palestina. Non c’è alcun dubbio che Israele avrebbe voluto proseguire l’attacco contro Gaza, come dimostrano i ripetuti sabotaggi delle tregue e delle trattative compiuti da Netanyahu, il cui obiettivo era – ed è – l’estensione della guerra dal Mar Mediterraneo al Golfo Persico. La tregua di Sharm el-Sheikh è stata imposta a Israele dall’esterno, per via del timore suscitato nel governo statunitense dalla crescente pressione dell’opinione pubblica mondiale, la cui principale conseguenza è stata la catena di – formali, ma altamente simbolici – riconoscimenti dello Stato di Palestina, che ha indebolito la compattezza del fronte occidentale. Non è possibile sapere se la tregua terrà. Così come non è possibile comprendere quali potrebbero essere, in caso di tenuta, le evoluzioni successive. Israele mantiene il controllo di oltre la metà della striscia di Gaza e lì, a detta di James David Vance e Jared Kushner, saranno concentrati i lucrosi interventi di ricostruzione. A chi saranno destinati i nuovi insediamenti urbani? Ai palestinesi che vi risiedevano prima della devastazione bellica o a nuovi coloni israeliani? Altrettanto oscuro è quel che avverrà nella rimanente parte della striscia di Gaza. Sarà davvero schierata una forza militare internazionale di interposizione? E, se sì, composta da contingenti di quali Stati? Decisivo sarà capire se la Turchia risulterà o meno coinvolta. Come che sarà, rimane in ogni caso fermo che a determinare la tregua non è stato l’avanzamento delle trattative – le condizioni sono le medesime già discusse in passato –, ma il conto che l’opinione pubblica mondiale ha, infine, minacciato di presentare ai sostenitori di Israele nel caso in cui il genocidio e la pulizia etnica fossero proseguiti (o, almeno: fossero proseguiti con la tracotanza che li ha sinora connotati).

Ad aprirsi, ora, è la questione relativa alla punizione dei responsabili dei crimini commessi da Israele: non solo da Netanyahu, ma dal grosso della dirigenza politica e militare di Israele, oltre che dai singoli soldati sul terreno. La propaganda dello Stato ebraico già è all’opera, con l’intento di negare ogni rilevanza – storica, morale e giuridica – alle spaventose violazioni del diritto internazionale compiute. Facile prevedere il ricompattamento del fronte occidentale, non solo per via dei legami d’ideale e d’interesse con Israele, ma anche per il timore delle corresponsabilità che gravano sui tanti governanti – italiani inclusi – che i crimini israeliani hanno coperto politicamente, appoggiato militarmente e sostenuto economicamente. Accetterà l’opinione pubblica mondiale di dimenticare quanto accaduto? Di fare come se la devastazione di uno dei più antichi insediamenti umani del Mediterraneo, con le centinaia di migliaia di vittime che ha consapevolmente comportato, non fosse mai avvenuta?

Non potendo fare pieno affidamento sugli Stati, l’efficacia con cui la giustizia internazionale riuscirà a svolgere il proprio lavoro dipenderà anche – o forse: soprattutto – dall’intensità della domanda di giustizia che salirà dalle piazze che in tutto il mondo sono state dedicate a Gaza e alla Palestina.

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