venerdì 26 luglio 2024

I 10 principi per la pace perpetua nel XXI secolo - Jeffrey Sachs

 Le strutture basate sulle Nazioni Unite sono fragili e hanno bisogno di un aggiornamento urgente; dovremmo prendere in considerazione questo aspetto al Vertice del futuro delle Nazioni Unite di settembre.

 

L'anno prossimo ricorrerà il 230° anniversario del celebre saggio di Immanuel Kant sulla “Pace perpetua” (1795), nel quale il grande filosofo tedesco propose una serie di principi guida per raggiungere la pace tra le nazioni del suo tempo. Alle prese con un mondo in conflitto e con il rischio terribile dell'Armageddon nucleare, dovremmo applicare l'approccio kantiano al nostro tempo e proporre una serie di principi aggiornati per la pace perpetua al Vertice Onu del Futuro che si terrà a settembre.

Kant era pienamente consapevole che le sue proposte avrebbero incontrato lo scetticismo dei politici “pratici”:  


Il politico pratico assume l'atteggiamento di guardare con grande autocompiacimento al teorico politico come a un pedante le cui idee vuote non minacciano in alcun modo la sicurezza dello Stato, in quanto lo Stato deve procedere su principi empirici; così al teorico è permesso di giocare il suo gioco senza interferenze da parte dello statista che sa come va il mondo.

 

Tuttavia, come ha notato lo storico Mark Mazower nel suo magistrale resoconto sulla governance globale, quello di Kant è stato un “testo che ha influenzato in modo costante generazioni di pensatori sul governo mondiale fino ai nostri giorni”, contribuendo a gettare le basi per le Nazioni Unite e il diritto internazionale sui diritti umani, la pratica di guerra e il controllo degli armamenti.

Le proposte principali di Kant erano incentrate su tre idee. In primo luogo, il diniego degli eserciti permanenti, che “minacciano incessantemente gli altri Stati con il loro apparire in ogni momento pronti alla guerra”. In questo modo, Kant ha anticipato di un secolo e mezzo il famoso avvertimento del Presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower sui pericoli di un complesso militare-industriale. In secondo luogo, Kant chiedeva di non interferire negli affari interni di altre nazioni. Da questo punto di vista, il filosofo tedesco anticipava la condanna di quelle operazioni segrete che gli Stati Uniti hanno usato senza sosta per rovesciare governi stranieri. In terzo luogo, Kant chiedeva una “federazione di Stati liberi”, che nel nostro tempo è diventata l'ONU, una “federazione” di 193 Stati che si impegnano a operare secondo la Carta delle Nazioni Unite.

Kant riponeva grandi speranze nel repubblicanesimo, in contrapposizione al governo di una sola persona, come freno alla creazione di guerre. Il filosofo Tedesco, infatti, ragionava sul fatto che un singolo governante avrebbe ceduto facilmente alla tentazione della guerra:

 

... una dichiarazione di guerra è la cosa più facile del mondo da decidere, perché la guerra non richiede al sovrano, che è il proprietario e non un membro dello Stato, il minimo sacrificio dei piaceri della sua tavola, della caccia, delle sue case di campagna, delle sue funzioni di corte e simili. Può quindi decidere di fare la guerra come una festa di piacere per i motivi più banali, e lasciare con perfetta indifferenza la giustificazione che la decenza richiede al corpo diplomatico che è sempre pronto a fornirla.

 

Al contrario, secondo Kant:

 

... se per decidere di dichiarare la guerra è necessario il consenso dei cittadini (e in questa costituzione [repubblicana] non può che essere così), non c'è nulla di più naturale che essi siano molto cauti nell'iniziare un gioco così povero, decretando per sé tutte le calamità della guerra.

 

Kant era troppo ottimista sulla capacità dell'opinione pubblica di limitare la guerra. Sia la repubblica ateniese che quella romana erano notoriamente bellicose. La Gran Bretagna è stata la principale democrazia del XIX secolo, ma forse la potenza più guerrafondaia. Per decenni, gli Stati Uniti si sono impegnati in guerre senza sosta e in rovesciamenti violenti di governi stranieri.

Ci sono almeno tre ragioni per cui Kant si è sbagliato. In primo luogo, anche nelle democrazie, la scelta di scatenare guerre spetta quasi sempre a un piccolo gruppo elitario, di fatto largamente isolato dall'opinione pubblica. In secondo luogo, e altrettanto importante, l'opinione pubblica è relativamente facile da manipolare attraverso la propaganda che riesce a portare le masse a sostenere il conflitto. In terzo luogo, l'opinione pubblica può essere isolata nel breve periodo dagli alti costi della guerra, finanziando la guerra con il debito piuttosto che con le tasse, e affidandosi ad appaltatori, a reclute pagate e mercenari piuttosto che alla coscrizione.

Le idee fondamentali di Kant sulla pace perpetua hanno contribuito a portare il mondo verso il diritto internazionale, i diritti umani e la condotta dignitosa in guerra (come le Convenzioni di Ginevra) nel XX secolo. Tuttavia, nonostante le innovazioni nelle istituzioni globali, il mondo rimane terribilmente lontano dalla pace. Secondo il Doomsday Clock del Bulletin of Atomic Scientists, mancano solo 90 secondi alla mezzanotte: siamo più vicini alla guerra nucleare che in qualsiasi altro momento dall'introduzione dell'orologio nel 1947.

L'apparato globale delle Nazioni Unite e il diritto internazionale hanno probabilmente impedito una terza guerra mondiale fino ad oggi. Il Segretario generale dell'ONU U Thant, ad esempio, ha svolto un ruolo fondamentale nella risoluzione pacifica della crisi dei missili di Cuba del 1962. Tuttavia, le strutture delle Nazioni Unite sono fragili e necessitano, con urgenza, di essere riformate.

A tal fine, invito a formulare e adottare una nuova serie di principi basati su quattro realtà geopolitiche chiave del nostro tempo.

In primo luogo, viviamo con la spada di Damocle nucleare sopra le nostre teste. Il Presidente John F. Kennedy lo disse in modo eloquente 60 anni fa nel suo famoso discorso sulla pace, quando dichiarò:

Parlo di pace a causa del nuovo volto della guerra. La guerra totale non ha senso in un'epoca in cui le grandi potenze possono mantenere grandi forze nucleari relativamente invulnerabili e rifiutarsi di arrendersi senza ricorrere a tali forze. Non ha senso in un'epoca in cui una sola arma nucleare contiene quasi 10 volte la forza esplosiva erogata da tutte le forze aeree alleate nella Seconda guerra mondiale.

 

In secondo luogo, siamo arrivati a un vero multipolarismo. Per la prima volta dal XIX secolo, l'Asia ha superato l'Occidente in termini di produzione economica. Abbiamo superato da tempo l'era della Guerra Fredda in cui dominavano gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, o il “momento unipolare” rivendicato dagli Stati Uniti dopo la scomparsa dell'Unione Sovietica nel 1991. Oggi gli Stati Uniti sono una delle diverse superpotenze, tra le quali annoveriamo Russia, Cina e India, oltre a diverse potenze regionali (tra cui Iran, Pakistan e Corea del Nord). Gli Stati Uniti e i loro alleati non possono imporre unilateralmente la loro volontà in Ucraina, in Medio Oriente o nella regione indopacifica. Gli Stati Uniti devono imparare a cooperare con le altre potenze.

In terzo luogo, oggi disponiamo di un insieme storicamente senza precedenti di istituzioni internazionali per la formulazione e l'adozione di obiettivi globali (ad esempio, in materia di clima, sviluppo sostenibile e disarmo nucleare), per l'applicazione del diritto internazionale e per l'espressione della volontà della comunità globale (ad esempio, nell'Assemblea generale e nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite). Certo, queste istituzioni internazionali sono ancora deboli quando le grandi potenze scelgono di ignorarle, ma offrono strumenti preziosi per costruire una vera federazione di nazioni nel senso kantiano del termine.

In quarto luogo, il destino dell'umanità è più strettamente interconnesso che mai. I beni pubblici globali - sviluppo sostenibile, disarmo nucleare, protezione della biodiversità della Terra, prevenzione della guerra, prevenzione e controllo delle pandemie - sono molto più centrali per il nostro destino comune che in qualsiasi altro momento della storia umana. Anche in questo caso, possiamo ricorrere alla saggezza di JFK, che vale oggi come allora:

 

Non siamo ciechi di fronte alle nostre differenze, ma concentriamoci anche sui nostri interessi comuni e sui mezzi con cui queste differenze possono essere risolte. E se non possiamo porre fine alle nostre differenze, almeno possiamo contribuire a rendere il mondo sicuro per la diversità. Perché, in ultima analisi, il nostro legame comune più fondamentale è che tutti noi abitiamo questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali.

 

Quali principi dovremmo adottare nel nostro tempo per contribuire alla pace perpetua?  

Propongo 10 principi per la pace perpetua nel XXI secolo e invito gli altri a rivedere, modificare o creare il proprio elenco.

I primi cinque principi sono i Principi di coesistenza pacifica proposti dalla Cina 70 anni fa e successivamente adottati dai Paesi non allineati. Questi sono:

 

  1. Rispetto reciproco dell'integrità territoriale e la sovranità di tutte le nazioni;
  2. Non aggressione reciproca;
  3. Non interferenza reciproca di tutte le nazioni negli affari interni di altre nazioni (ad esempio attraverso guerre di scelta, operazioni di cambio di regime o sanzioni unilaterali);
  4. Uguaglianza e vantaggi reciproci nelle interazioni tra le nazioni.
  5. Coesistenza pacifica di tutte le nazioni.

 

Per attuare questi cinque principi fondamentali, ne raccomando altri cinque che richiedono azioni specifiche:

 

  1. La chiusura delle basi militari all'estero, di cui gli Stati Uniti e il Regno Unito ne hanno di gran lunga il maggior numero.
  2. La fine delle operazioni segrete di cambio di regime e delle misure economiche coercitive unilaterali, che sono gravi violazioni del principio di non interferenza negli affari interni di altre nazioni. (La politologa Lindsey O'Rourke ha documentato attentamente 64 operazioni segrete di cambio di regime da parte degli Stati Uniti nel periodo 1947-1969 e la pervasiva destabilizzazione causata da tali operazioni).
  3. Adesione di tutte le potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) all'articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare“Tutte le Parti devono perseguire negoziati in buona fede su misure efficaci relative alla cessazione della corsa agli armamenti nucleari e al disarmo nucleare, e su un trattato sul disarmo generale e completo sotto un rigoroso ed efficace controllo internazionale”.
  4. L'impegno di tutti i Paesi “a non rafforzare la propria sicurezza a scapito della sicurezza di altri Paesi” (come da Carta dell'OSCE). Gli Stati non stringeranno alleanze militari che minaccino i loro vicini e si impegneranno a risolvere le controversie attraverso negoziati pacifici e accordi di sicurezza sostenuti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
  5. L'impegno di tutte le nazioni a cooperare nella protezione dei beni comuni globali e nella fornitura di beni pubblici globali, compreso l'adempimento dell'accordo di Parigi sul clima, gli Obiettivi di sviluppo sostenibile e la riforma delle istituzioni delle Nazioni Unite.

 

 

Gli attuali scontri tra grandi potenze, in particolare i conflitti degli Stati Uniti con la Russia, la Cina, l'Iran e la Corea del Nord, sono in gran parte dovuti al continuo perseguimento dell'unipolarismo da parte dell'America attraverso operazioni di cambio di regime, guerre di scelta, sanzioni coercitive unilaterali e la rete globale di basi e alleanze militari statunitensi. I 10 principi sopra elencati contribuirebbero a portare il mondo verso un multilateralismo pacifico governato dalla Carta delle Nazioni Unite e dallo Stato di diritto internazionale.

 

(Traduzione de l'AntiDiplomatico)

Fonte: https://www.commondreams.org/opinion/10-principles-peace-21st-century

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giovedì 25 luglio 2024

L’Ucraina sull’orlo della bancarotta - Giacomo Gabellini



Il vertice della Nato di Washington, tenutosi tra il 9 e l’11 luglio, si è concluso con un documento finale in cui i Paesi membri si impegnano, tra le altre cose, ad adottare un approccio maggiormente aggressivo nei confronti della Cina e a rendere “irreversibile” il processo di adesione dell’Ucraina all’Alleanza Atlantica.

Sebbene non specifichi entro quale orizzonte temporale e in base a quali frontiere dovrebbe realizzarsi l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, il pronunciamento riveste un’indubbia rilevanza. Soprattutto se correlato al contenuto dell’intesa raggiunta a Davos lo scorso gennaio tra il presidente ucraino Volodymyr Zelen’skyj e alcuni dei massimi rappresentanti della finanza statunitense, come Jamie Dimon di Jp Morgan Chase,  Stephen Schwarzman di Blackstone, Lakshmi Mittal di Arcelor Mittal, David Rubenstein del Carlyle Group e Philipp Hildebrand di BlackRock.

Quest’ultimo, in particolare, aveva convinto in quell’occasione gli altri partecipanti all’incontro a raccogliere circa 15 miliardi di dollari per la ricostruzione post-bellica dell’Ucraina attraverso un fondo ad hoc da istituire in Lussemburgo. A sua volta, l’accordo confermava quanto stabilito nel dicembre del 2022, quando lo stesso Zelens’kyj aveva incaricato Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, di «coordinare gli sforzi di tutti i potenziali investitori e partecipanti alla ricostruzione del nostro Paese». Come risultato, BlackRock si era impegnato a rastrellare e incanalare capitali internazionali in una vasta gamma di settori dell’economia ucraina, e a fornire a Kiev indicazioni su come strutturare i fondi per la ricostruzione della nazione.

La situazione sembra tuttavia aver preso una piega ben diversa da quella auspicata sia dalle autorità di Kiev che dai grandi fondi coinvolti nel progetto concepito da BlackRock. Le forze armate russe avanzano lungo gran parte del fronte e l’esercito ucraino manifesta preoccupanti segnali di cedimento in alcuni settori chiave, cosa che rende pressoché irraggiungibile l’obiettivo di riportare sotto il controllo dell’esecutivo ucraino le regioni attualmente controllate da Mosca. Nelle quali, come ha recentemente denunciato il senatore repubblicano della North Carolina Lindsey Graham in uno slancio di sincerità, si trovano materie prime critiche per un controvalore compreso tra i 10 e i 12 trilioni di dollari. «Se sostenessimo l’Ucraina al meglio delle nostre possibilità – ha spiegato Graham – potremmo trasformarla nel miglior partner commerciale che abbiamo mai sognato. Quei 10-12 trilioni di dollari di risorse minerarie essenziali potrebbero essere utilizzati dall’Ucraina e dall’Occidente, anziché da Putin e dalla Cina». Ragion per cui, conclude il senatore, «l’Occidente non può permettersi di perdere […]. Sono seduti su una miniera d’oro. Consegnare a Putin 10 o 12 trilioni di dollari di minerali essenziali che condividerà con la Cina è inconcepibile».

Le valutazioni di Graham riflettono i contenuti di un’analisi pubblicata nell’agosto 2022 dal «Washington Post», in cui si definiva la guerra in Ucraina come «una battaglia per la ricchezza mineraria ed energetica della nazione […].. L’Ucraina ospita alcune delle maggiori riserve mondiali di titanio, minerale di ferro, carbone e litio. Il loro valore ammonta a decine di trilioni di dollari». Senza contare la «miriade di altre materie prime fondamentali, tra cu gas naturale, petrolio e terre rare che potrebbero ostacolare la ricerca da parte dell’Europa occidentale di alternative alle importazioni da Russia e Cina». Nel complesso, conclude il «Washington Post», l’Ucraina è «sede di 117 dei 120 minerali e metalli più diffusamente utilizzati, nonché una delle principali fonti di combustibili fossili».

La questione era stata affrontata dai legislatori statunitensi già nel 2021, quando nel Code of Laws of the United States of America fu inserita una nuova sezione dedicata alla Cooperazione tra Stati Uniti e Ucraina in merito all’industria del titanio, in cui si afferma che «il governo degli Stati Uniti è chiamato a intensificare la cooperazione con le controparti ucraine in materia di sviluppo congiunto dell’industria del titanio quale potenziale alternativa alle fonti di approvvigionamento cinesi e russe da cui Stati Uniti ed Europa dipendono attualmente».

Le riserve di materiali critici situate in larghissima parte nei territori ucraini attualmente presidiati dalle forze armate russe risultano fondamentali non soltanto per alimentare il processo di reindustrializzazione messo in cantiere dagli Stati Uniti, di cui il cosiddetto friendshoring rappresenta un presupposto fondamentale, ma anche per porre Kiev nelle condizioni di onorare i propri impegni debitori nei confronti dei grandi investitori internazionali. I quali, dinnanzi all’invasione russa del febbraio 2022, avevano concordato con Kiev la posticipazione del pagamento del capitale e degli interessi per il biennio 2022-2023 su un ammontare di titoli del Tesoro ucraino dal valore complessivo di circa 20 miliardi di dollari, equivalenti al 15% del Pil ucraino. La moratoria scade tuttavia il primo agosto, cosa che obbliga l’esecutivo ucraino a intavolare trattative con creditori del calibro di BlackRock, Pimco, Fidelity e Amundi per la ristrutturazione del debito. La mediazione “benevola” di Bruxelles rappresenta un fattore di indubbio vantaggio per Kiev, che punta a una haircut del 60% (24 miliardi di dollari) a fronte del 20% proposto dalla comunità dei creditori privati, assai meno malleabili rispetto a quelli statali (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Germania e Giappone) che hanno manifestato la disponibilità a estendere la moratoria su un debito di 4 miliardi di dollari fino al 2027. Lo rivela il «Wall Street Journal», secondo cui i grandi creditori privati dell'Ucraina stanno «perdendo la pazienza» e premono affinché Kiev riprenda immediatamente a pagare gli interessi sul debito pubblico una volta scaduta la moratoria. Il quotidiano statunitense fa esplicito riferimento a BlackRock e Pimco, le quali esigerebbero il pagamento degli interessi sul debito per un importo complessivo di circa 500 milioni di dollari all’anno in cambio del placet alla svalutazione del debito ucraino, e sarebbero in procinto di costituire una commissione incaricata di negoziare la ripresa dei pagamenti sospesi dopo l’inizio della guerra. Anche le questione delle “pendenze” che l’Ucraina ha nei confronti del Fondo Monetario Internazionale, pari a 15,6 miliardi di dollari più interessi, dovrà essere affrontata dalle autorità di Kiev, che si ritrovano così a ristrutturare in posizione di debolezza una massa debitoria colossale mentre le aree più ricche di risorse naturali del Paese rimangono sotto il controllo della Russia e la popolazione continua a diminuire per effetto diretto delle implicazioni della guerra. E in assenza di un accordo con i creditori, sottolinea il «Wall Street Journal», l’Ucraina potrebbe andare in bancarotta alla scadenza della moratoria sul debito.

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Macabre liturgie di fine impero - Fabio Vighi

 

‘Che grande abilità scenica quella del capitale che ha saputo fare amare lo sfruttamento agli sfruttati, la corda agli impiccati e la catena agli schiavi.’ (Alfredo Bonanno)

Il modello economico imposto dalla finanza occidentale è caratterizzato da una logica ormai strutturale di “creazione distruttiva”, che è l’opposto della “distruzione creativa” teorizzata da Joseph Schumpeter quale ‘fatto essenziale del capitalismo’[1]. La “creazione” oggi non interessa primariamente quel meccanismo di innovazione tecnologica per cui nuove unità produttive sostituiscono quelle obsolete e in tal modo aumentano la performance macroeconomica. Piuttosto, va riferita all’espansione a leva (debito) del capitale speculativo trainato dalle matrioske dei derivati, ​​che richiede l’abbandono del quadro di valori liberal-democratici già messo a tutela del capitalismo industriale. Il paradosso cui ci troviamo di fronte è che l’innovazione tecnologica distrugge il capitalismo a base industriale (il “mondo del lavoro”) e simultaneamente ci assoggetta alle strategie manipolatorie delle oligarchie finanziarie. Tradotto: le élite gestiscono la crisi terminale del capitale facendola pagare a masse sempre più immiserite, e regimentate attraverso l’imbonimento di scenari apocalittici “provocati dal Nemico”, che in tale contesto diventa un bene più prezioso delle terre rare.

Se proprio vogliamo parlare di “sostenibilità” – concetto ideologico per eccellenza – almeno non facciamoci prendere per i fondelli. Perché il lemma non ha nulla a che vedere con i 17 obiettivi di “sviluppo sostenibile” solennemente dichiarati dall’ONU (debellare la povertà e la fame, migliorare la salute e il benessere, lottare contro il cambiamento climatico, per la parità di genere, ecc.). “Sviluppo sostenibile” va piuttosto riferito a un modello socioeconomico in avanzato stato di putrefazione che spinge Wall Street ai massimi storici facendo pagare il conto di tale exploit alla gente comune attraverso contrazione economica reale, erosione del potere d’acquisto, e terrore emergenziale a getto continuo. La questione della sostenibilità, quindi, andrebbe eventualmente posta nel seguente modo: siamo felici di ricevere bastonate sui denti per sostenere i privilegi degli ultraricchi e la loro sinistra idea di “migliore dei mondi possibili”?

Comprendere il presente significa guardare oltre i rituali ormai folkloristici della politica. Si tratta infatti di riflettere sul legame causale che lega la sopravvivenza dell’impero del Bene alla disperata evocazione del Nemico (il Male) da combattere ad ogni costo. Se la disinformazione russa, come ci dicono, arriva ovunque, noi non viviamo certo nel regno della trasparenza. Per esempio, i nostri media omologati (quelli dello ‘sbarco in Lombardia’ ripetuto su quattro TG concorrenziali nel fantastico mondo della “libera informazione” italiana) si guardano bene dall’informarci che, dopo la decisione del G7 di utilizzare i beni russi congelati per finanziare un nuovo pacchetto di 50 miliardi di dollari per l’Ucraina, il rublo si è notevolmente apprezzato rispetto al dollaro. Perché la valuta russa si rafforza? Non ci avevano assicurato che le sanzioni avrebbero trasformato il rublo in carta igienica, e che di conseguenza Putin avrebbe fatto la fine di Ceausescu? O di Nicola II, l’ultimo degli zar? Ma allora perché l’economia russa cresce di oltre il 3% mentre le nostre ristagnano, come certifica non la TASS ma il Fondo Monetario Internazionale? Possiamo prendere atto che dall’inizio del conflitto ucraino la produzione industriale tedesca, misurata in ordinativi, è crollata di più del 20%? Che dire poi di un debito sovrano USA che cresce al ritmo di 1 trilione ogni 100 giorni, e che supererà i 54 trilioni (circa la metà dell’attuale PIL globale) entro il 2034? Tale proiezione ha spinto Borge Brende, Presidente del World Economic Forum (WEF), ad affermare: ‘non vedevamo questo tipo di espansione del debito dai tempi delle guerre napoleoniche.’ Ma Brende ha dimenticato di aggiungere che nei prossimi mesi andranno a maturazione Treasuries per un valore di circa 10 trilioni di dollari. E forse è per questo che persino Janet Yellen è costretta ad ammettere che la de-dollarizzazione non è il soggetto di un film di fantascienza. Quo vadis, dunque, impero del Bene?

Nel frattempo, la Federal Reserve – il manovratore occulto – continua nel gioco delle tre carte: da un lato pompa liquidità nel settore finanziario ricorrendo ad acrobazie monetarie di varia specie (dalla rediviva Operation Twist all’utilizzo delle Supplementary Leverage Ratios)[2]; e dall’altro mantiene invariati i tassi d’interesse. In altre parole, a Wall Street vengono somministrate endovenose di liquidità aggiuntiva che però rimangono fuori dal bilancio Fed – manipolazione monetaria allo stato puro. Un QE mascherato, basato su immissione latente di denaro digitato al computer che, appunto, spinge l’azionario a frantumare record dopo record. Ovviamente, tutto ciò non ha nulla a che vedere con alcuna crescita reale. Al contrario, si tratta di un fenomeno di dipendenza monetaria che nasce dalla mancanza strutturale di sufficiente valorizzazione reale di capitale. Oggi più che mai, il capitalismo è un’illusione ottica, un enorme deep fake macroeconomico. E l’occidente, tenuto in pugno dall’ultra-finanza, affronta la sua grottesca crisi di debito facendo altro debito – meccanismo che garantisce profitti stellari ai pochi e impoverisce i molti, perlopiù ignari di quanto accade attorno a loro.

L’attuale contesto pan-emergenziale è dunque sintomo di crescente fragilità sistemica, interna al dispiegamento della logica implosiva del capitale. Dovremmo allora apprezzare la logica invertita di quanto sta accadendo: i war games alla periferia dell’impero del Bene, così come gli inside jobs al suo interno – si pensi al recente attentato a Donald Trump, che ha risvegliato il metabolismo complottista anche dei commentatori più allineati – non sono la causa del declino dell’occidente; piuttosto, il sistema alla canna del gas si prodiga di attivare scontri di ogni genere nel tentativo di nascondere la propria insolvenza. Nulla come l’industria del caos e della destabilizzazione consente oggi di monetizzare. Le guerre, per esempio – specie quando pubblicizzate come umanitarie o difensive – non sono che mezzi criminali per giustificare il confezionamento di quel “denaro facile” che viene sparato nelle bolle speculative, mentre le effettive condizioni economiche di milioni di lavoratori (o di “forza lavoro inattiva”) crollano verticalmente. L’emergenza Putin, così come l’emergenza Covid, o quella del terrorismo islamico subito prima, e magari dell’influenza aviaria già in rampa di lancio[3], sono la leva biopolitica della leva finanziaria che sorregge l’impero targato USA, che dopo mezzo secolo di dominio globale cerca disperatamente di nascondere il proprio tracollo.

Ma di queste cose non è dato ragionare pubblicamente, perché tutto può far notizia tranne la conferma della raggiunta insostenibilità del sistema. Con “insostenibilità” non s’intende che domani il mondo cadrà dal proprio asse. Piuttosto, più sobriamente, che i gestori delle economie occidentali continueranno a trovare il modo di gonfiare la mega-bolla speculativa, alimentando così ulteriormente un’inflazione strutturale che, peraltro, serve a mitigare i costi di rifinanziamento del debito (attraverso tassi reali negativi). Perché un modello economico che vive di espansione monetaria artificiale e cartolarizzazione infinita del debito può solo ambire a capitalizzare la svalutazione che spontaneamente ingenera. Indipendentemente da ciò che si pensa di Russia, Cina e altre autocrazie capitaliste, viene difficile biasimare il crescente numero di paesi del “sud del mondo” che fanno la coda per entrare nell’alleanza BRICS. Non hanno forse il diritto di provare a liberarsi da quella trappola economica che, grazie a entità misantropiche quali il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank, impone la dipendenza debitoria dal dollaro statunitense, con tutto il carico di macelleria sociale che ne consegue?

Prendiamone atto: la sostenibilità del “capitalismo neofeudale” in cui siamo entrati richiede rituali sempre più macabri. Dopo decenni di stabile declino, le economie “avanzate” non solo accelerano verso le sabbie mobili della stagflazione, ma sprofondano nel più totale delirio di onnipotenza autolesionistica. È il triste spettacolo dell’impero che inghiotte sé stesso. Finché, in un recente passato, si trattava di blandire i produttori di plusvalore alternando colpi di manganello alla carota del salario e del consumo, tutto bene. Veniva fin troppo facile fingersi buoni, democratici, e liberali. La scenografia che oscurava la prigione collettiva era ancora credibile, quasi realistica, persino appetibile. Le macchie di sangue sui muri venivano cancellate da passate di vernice chiamate “progresso”, “mobilità sociale”, “democrazia”, “consumismo”. Il capitale e i suoi burocrati riuscivano, insomma, nell’impresa di tenere accesi i desideri di quelle masse che al contempo sfruttavano, umiliavano, o contribuivano a massacrare in varie parti del “terzo mondo”.

Ora però la festa è finita. Il più grande teatro illusionistico della storia incanta solo gli opportunisti e gli utili idioti. E poiché l’American Dream si trasforma in incubo anche per le classi medie, non resta che passare alle maniere forti: propaganda, censura, inaudite manipolazioni di massa, somministrazione quotidiana di scenari farsesco-apocalittici, persino pulizie etniche e il ritorno della violenza politica contro i non-allineati. È il pilota automatico di un sistema che per sopravvivere al proprio fallimento trasforma ogni visione del futuro, dunque del possibile, in una visione di terrore. Siamo al divide et impera ontologico, per cui la crisi del capitale, che non ha vie d’uscita, viene scaricata direttamente sui teatri di guerra, e sulla retorica di divisioni politiche alimentate a tavolino. L’allarmismo H24 fa da necessario contrappeso agli effetti soffocanti di un “modello di crescita” basato su investimenti finanziari a leva affidati ad algoritmi quantistici – applicazione di intelligenza artificiale che qui come altrove non può che portare alla demolizione (in)controllata di intere società “(s)fondate sul lavoro”. In particolare, l’impero del Bene trasforma le proprie contraddizioni interne nell’imperativo morale della lotta contro un Nemico che s’accanisce contro vittime innocenti, e dunque va (o, nel caso della Russia, andrebbe) rieducato con le bombe.

È impressionante osservare quanta fatica impieghino anche le menti più acute a comprendere la logica immunitaria che lega un dispositivo socioeconomico obsoleto al proliferare di narrazioni escatologiche basate sulla produzione seriale di nemici. Soprattutto, non si afferrano le ragioni elementari per cui l’occidente continua a comportarsi come un ubriaco che cerca la rissa. Eppure, la logica è semplice: l’implosione viene affogata in un’assordante cacofonia di eventi dai toni più o meno catastrofici. Il suono delle bombe in Ucraina, Gaza, e Medio Oriente, così come il terrorismo da guerra ibrida, le minacce di escalation nucleare, e gli attentati politici, sono l’accompagnamento sinfonico all’inarrestabile declino dell’impero del Bene. Solo il continuo “rumore emergenziale” può preservare l’illusione della sostenibilità di un modello di civiltà arrivato a fine corsa. Ma è doveroso chiedersi: fino a che punto sarà possibile riciclare il presagio dell’inaudito nella mera provocazione apocalittica?

Guardiamoci intorno, i pupazzi sono usciti allo scoperto. Non si nascondono più dietro a narrazioni finto-idealistiche come l’esportazione della democrazia e del benessere. Piuttosto, da miseri burocrati in carriera quali sono, leggono dallo stesso copione distopico. Il frontman NATO Jens Stoltenberg (nomen omen) incita al conflitto diretto con la Russia, dichiarando senza alcun pudore che dietro la crociata in Ucraina c’è lo scontro con la Cina. Larry Fink (capoccia di BlackRock, con Vanguard la vera cupola dell’impero) sdogana la tesi eugenetica della riduzione della popolazione come incentivo alla competitività: ‘I problemi sociali legati alla sostituzione degli esseri umani con le macchine saranno più facili da gestire nei paesi sviluppati che hanno una popolazione in declino.’ Forse allora dovremmo chiederci: declineremo da soli o ci declineranno loro? E quali sono le vere alternative? Ormai in molti hanno compreso che i barbari non sono alle porte, perché sono tutti dentro. Fanno parte dell’impianto scenico, una coreografia da film hollywoodiano distopico. Per questo non ci è difficile ipotizzare che il capitale e i suoi viscidi funzionari possano ricorrere a soluzioni eugenetiche. Perché nei termini utilitaristici del capitale-mondo, l’energia di una forza-lavoro ridondante deve estinguersi o essere distrutta.

Amin Samman e Stefano Sgambati hanno osservato che ‘l’attuale sistema finanziario opera sulla base di una “apocalisse mobile”, programmando e rinviando continuamente milioni di punti terminali attorno ai quali sono organizzate vite e mezzi di sostentamento.’

‘In questo modo, la finanziarizzazione del capitalismo installa l’escatologia nel cuore della vita quotidiana, vincolando il soggetto contemporaneo alle finalità della finanza attraverso la circolazione infinita del debito. Viviamo tutti all’ombra dell’eschaton finanziario, indipendentemente da come ci troviamo inseriti nella macchina finanziaria, e il risultato è un trasferimento sull’economia del debito di tutto il carico psicologico precedentemente riservato alla fine della storia.’[4]

Questa argomentazione può essere sviluppata rigirandola su sé stessa: la bomba a orologeria inserita nel cuore dell’economia a leva viene ora impiegata direttamente come arma bio- o geopolitica, affinché incarni esplicitamente “il tempo della fine” (eschaton) nell’immaginario collettivo. Ciò porta alla luce il contenuto represso della tesi sulla “fine della storia” di Francis Fukuyama[5]. La famosa affermazione che la liberaldemocrazia occidentale rappresenta la forma finale del governo umano si realizza, oggi, nel collasso del futuro in un presente claustrofobico, soffocato nelle dinamiche violente del debito e nella continua minaccia di catastrofi globali: le liturgie escatologiche, ma prive di redenzione, di ciò che ho definito “capitalismo emergenziale”, o “economia libidica dell’apocalisse”.

Qui occorre essere precisi: l’annullamento del futuro coincide con la crisi finale del capitale, ben rappresentata dalla crescente inconsistenza del denaro. Il capitale monetario emerge ora come pura performatività autoriflessiva, circolazione infinita di debito improduttivo, che non realizza altro se non il nulla della propria auto-proliferazione. Nell’era del capitalismo dell’ultra-finanza, il denaro viene creato ex nihilo sotto forma di byte elettronici sugli schermi dei computer delle banche, e quanto più velocemente circola come debito da rifinanziare, tanto più accelera verso il suo destino rovinoso. Se è vero che nell’olimpo finanziario il debito non viene saldato ma piuttosto cartolarizzato e investito come asset in un loop potenzialmente infinito, in realtà questo meccanismo è sempre più esposto a fragilità estreme – motivo per cui il fantasma dell’apocalisse deve circolare direttamente nella realtà quotidiana, sotto forma di catastrofe pandemica (Covid), naturale (cambiamento climatico), geopolitica (Putin), e chissà cos’altro ancora. La caratteristica principale del soft power occidentale è questa forma di governo totalitario basato su retorica allarmistica, capace di spostare la criticità di sistema su entità esterne, aliene, e minacciose rispetto al nostro “stile di vita”.

Negli ultimi anni abbiamo assistito all’accelerazione di questo modello di governance. In passato bastava soffiare sul fuoco, magari con un ventaglio di bigliettoni verdi. Così fu, per esempio, nell’ex-Jugoslavia quando, dal 1993, i sauditi finanziarono un’operazione segreta per la consegna di 300 milioni di dollari in armamenti al governo bosniaco, con la tacita collaborazione degli Stati Uniti e in diretta violazione dell’embargo delle Nazioni Unite (che la stessa Washington si era impegnata a far rispettare). Questo come viatico alle criminali bombe NATO sulla Serbia; sulle quali, ricordiamolo, disegnarono cuoricini anche Massimo D’Alema (Presidente del Consiglio), Sergio Mattarella (Vicepresidente del Consiglio, con delega ai servizi di sicurezza), e tutto il governo italiano di “centro-sinistra”, evidentemente ansioso di accompagnare la NATO nell’espansione a Est. Come ha riassunto Jeffrey Sachs[6] in una recente intervista: ‘Nel 1999 abbiamo bombardato Belgrado [senza autorizzazione ONU] per 78 giorni, al fine di dividere la Serbia attraverso la creazione di un nuovo stato, il Kosovo, dove ora abbiamo la più grande base militare NATO nell’Europa sudorientale (Bondsteel).’

Oggi la guida USA-NATO istruisce i cagnolini europei ad abbaiare più forte contro il Nemico, e i sottoposti, impegolati in antiche gelosie, fanno a gara per ritagliarsi lo spazio warholiano dei quindici minuti di protagonismo geopolitico. Dopo le sanzioni boomerang arrivano i missili boomerang: l’autorizzazione a colpire il suolo russo con armi occidentali che, se insistita, non potrà che ritorcersi contro i sudditi europei mandati ad immolarsi per l’Imperatore. E come non bastasse è arrivato anche il taglietto della BCE ai tassi d’interesse (mentre la medesima alza le stime inflazionistiche!), che di fatto segna un ulteriore sacrificio a sostegno della bolla azionaria USA. Perché la decisione di svalutare l’euro dello 0.25% non serve a nulla se non a dirottare capitali verso il mercato statunitense, la cui ampiezza (rapporto tra azioni in rialzo e azioni in calo in un dato indice), come sottolinea persino Bloomberg, ha raggiunto il suo punto più basso dal 2009, ed è sorretta quasi esclusivamente dal comparto tech (Nvidia in primis).

Ecco dunque svelata la funzione del “progetto UE,” che, come ci ricorda Giorgio Agamben, non ha alcuna validità politico-giuridica in quanto mero patto tra stati privo di fondamento popolare: la Costituzione Europea (2004) fu clamorosamente bocciata nei referendum francesi e olandesi del 2005, poi accantonata, e infine sostituita dal Trattato di Lisbona (2007) – documento che ci si guarda bene dal sottoporre all’approvazione del popolino brutto sporco e cattivo. D’altronde, è arcinoto che il Parlamento europeo è un organo velleitario in quanto privo di quel potere legislativo che invece afferisce alla Commissione, la cui attuale papessa (Ursula) è espressione diretta delle élite di Washington e dunque lontana dall’elettorato quanto la stella Earendel dal pianeta Terra.

Tuttavia, l’occidente continua a rifiutare l’introspezione, preferendo invocare l’Altro come male assoluto. Per quanto l’esaurimento della civiltà capitalistica sia globale, e sullo scacchiere geopolitico non s’intraveda alcun modello di emancipazione realmente alternativo a quello attuale, l’odierno sentimento antirusso è frutto di una consolidata tradizione ideologica. Perché i russi sono da sempre considerati razza inferiore, barbari mischiati con i Mongoli e dunque di natura infida, dalle “caratteristiche asiatiche.” La russofobia è un’arma di tutto riguardo nell’arsenale della dottrina geopolitica occidentale. Non importa se zaristi, socialisti o capitalisti di ultima generazione, visti da ovest i russi da sempre ci appaiono come autocratici sottosviluppati affetti da libidine da dominio. Freud, giustamente, direbbe che proiettiamo sul Nemico mangiabambini le violente pulsioni coltivate nell’orto di casa. E oggi questa secolare russofobia – sorta di discarica a cielo aperto del rimosso occidentale – serve a nascondere il fatto che il capitalismo, nella sua veste più moderna e avanzata di “stamperia globale”, ha raggiunto l’età dell’impotenza. Detta con Hegel, l’occidente è una ‘forma di vita invecchiata’ – che però si crede ancora giovane e piena di energia.

Nel frattempo, il viagra del denaro facile sottoscritto dalle banche centrali ha talmente rincitrullito le oligarchie occidentali da far loro dimenticare di essersi deindustrializzate al punto da non poter più neppure produrre armi e munizioni sufficienti a salvare le apparenze. E così ripartono i mega investimenti (a debito) per il comparto tech-militare. Alla base della nuova corsa alle armi c’è sempre la dipendenza dal feticcio della bolla speculativa: trilioni (quadrilioni se contiamo i derivati) di denaro privo di sostanza valoriale – cioè scorporato dal lavoro umano – che orbitano sopra le nostre teste a ritmi vertiginosi grazie a massicce iniezioni di moneta inflattiva. Come dire: la virtualizzazione dell’economia (denaro che si auto-feconda senza valorizzarsi, ovvero senza attraversare i corpi dei lavoratori che producono merci) ingenera ora una serie di grotteschi spettacoli da grand guignol che potremmo leggere, in chiave ironica, attraverso l’immortale adagio di Totò: ‘armiamoci e partite, io vi seguo dopo.’ Questo perché l’occidente arriva per primo all’esperienza del collasso. Negli anni in cui Fukuyama vergava il suo poco lungimirante classico, la fuga dei capitali nell’eldorado finanziario aveva già iniziato a decostruire le società capitalistiche “avanzate”, spingendole all’attuale condizione parossistica per cui si spende più per rifinanziare il debito sovrano che per la riproduzione sociale (lavoro, infrastrutture, trasporti, agricoltura, educazione, sanità, ecc.). Non per nulla Fredric Jameson definì il postmodernismo (e la decostruzione) come una sorta di tintura per capelli del “tardo capitalismo” neoliberista, in quanto consegnava a quel progetto di violenta frammentazione sociale una hybris culturale tipicamente borghese: ‘tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo: in questo senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è sangue, morte, tortura e orrore.’[7]

D’altronde, è difficile immaginare che una civiltà si sbarazzi allegramente degli idoli che ne hanno segnato la storia. La Russia è in questo senso un obiettivo storicamente comodo, pratico, e funzionale. Che nell’epoca moderna sia stata bersaglio di espansionismo da ovest era un tempo materia da scuole medie. Polonia (inizio Seicento), Impero svedese (fine Settecento), Impero napoleonico (inizio Ottocento), Germania (Prima e Seconda guerra mondiale) – invasioni che si sono tradotte in territori occupati, risorse devastate e depredate, perdita di una parte ingente della popolazione; e altrettante sconfitte. Il crollo dell’URSS determinò poi un vuoto geopolitico in cui si infilò subito l’egemone, installando al potere un presidente alcolizzato (Boris Eltsin) che avvallò il saccheggio sistematico delle immense risorse, liberalizzando e privatizzando tutto il possibile. Imperialismo allo stato brado passato per spontaneo processo di democratizzazione. Il risultato, per la popolazione russa, fu un’enorme catastrofe sociale, economica, culturale, e demografica.

Per comprendere l’attuale ondata di russofobia basterebbe consultare La Grande Scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, di Zbigniew Brzezinsky (uscito nel 1997). Brzezinsky – consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale (1973), e nota eminenza grigia della politica estera statunitense dall’amministrazione di Lyndon Johnson fino a quella di Barack Obama – espone chiaramente l’importanza dell’Ucraina come ‘perno geopolitico’ per il mantenimento della supremazia statunitense nel continente eurasiatico – a conferma che “l’operazione Ucraina” era da tempo stata messa in cantiere. Dare sostegno all’indipendenza ucraina, offrendo l’adesione alla NATO e all’UE (Brzezinsky parla del decennio 2005-2015 come ‘periodo di tempo ragionevole’), sarebbe stato fondamentale per raggiungere questo scopo. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto ‘attribuire un valore aggiunto all’intrigo e alla manipolazione al fine di prevenire l’emergere di una coalizione ostile che potesse eventualmente cercare di sfidare il primato americano. […] Il compito più immediato è quello di garantire che nessuno stato o combinazione di stati acquisisca la capacità di espellere gli Stati Uniti dall’Eurasia o di diminuire significativamente il loro ruolo egemonico.’[8]

Condizioni altrettanto chiare venivano poste alla Russia: accettare il primato globale degli Stati Uniti o auto-condannarsi al ruolo di “emarginato eurasiatico”. Per quanto Brzezinsky avesse previsto rischi e difficoltà, contava sul fatto che la terapia d’urto dell’ultra-liberalizzazione imposta tramite Eltsin avrebbe a lungo favorito gli USA. Ma presto l’ottimismo degli anni Novanta svanì, ed emerse un quadro diverso. La ripresa della Russia sotto Putin, la crescita economica sostenuta della Cina, e il fallimento della politica estera neocon dopo l’11 settembre hanno, da una parte, spinto Washington a mettere quasi tutte le uova capitaliste nel paniere finanziario; e dall’altra ad accelerare l’opzione del sabotaggio delle relazioni tra UE (Germania in primis) e Russia. È in tale contesto che va collocata l’escalation di quella strategia di ‘intrigo e manipolazione’ già caldeggiata da Brzezinsky.

Nel frattempo, la NATO era entrata in Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria (1999), paesi baltici, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia (2004), Albania e Croazia (2009), mentre già dal 2008 si preparavano le carte a Georgia e Ucraina. Poi vi fu il golpe antirusso di piazza Maidan del 2014, la secessione delle Repubbliche russofone del Donbass, l’annessione della Crimea, la strage ucro-nazista di Odessa, e i ripetuti bombardamenti del Donbass (circa 14,000 vittime), fino all’Operazione Speciale del 2022 (tuttora venduta alle masse come invasione dei Cosacchi che presto, come da retorica da Guerra Fredda, porteranno i cavalli ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro). Ma il piano originario di far implodere la Russia tramite sanzioni e armi all’Ucraina è subito fallito, rivelandosi un bluff da giocatore di poker (più che di scacchi). Ora l’autorizzazione a colpire il territorio russo con armi occidentali (maneggiate da intelligence occidentale) è, evidentemente, la mossa disperata di chi non ha altri argomenti che aumentare la percezione del rischio per proteggere gli ultimi due fragilissimi bastioni imperiali: il dollaro quale traballante valuta globale, e il complesso militar-industriale, funzionale alla creazione di finanziamenti dal nulla a sostegno della gigantesca bolla equities cui è appeso per la sacca testicolare il destino dell’impero stesso.

Contemporaneamente, sul fronte palestinese l’occidente tiene deliberatamente acceso un teatro di guerra ancor più raccapricciante: esseri umani da più di 70 anni trattati peggio delle bestie vengono fatti spostare tra le macerie per poi essere sterminati senza pietà, arsi vivi nella plastica dei loro miseri accampamenti, maciullati dalle bombe nelle scuole e negli ospedali. E su questa barbarie assoluta, che di per sé mette una pietra tombale sulla presunta superiorità morale e politica dell’occidente, si costruiscono solo penose recite mediatiche tra la fazione dei moralisti, improvvisamente risvegliatisi da istintivo torpore, e quella dei prezzolati propagandisti di regime. In pochi hanno il coraggio di collegare i puntini e mettere il dito nella piaga di un modello socioeconomico che si aggrappa alla guerra per non cadere nel vuoto. Perché al sistema servirebbe proprio un salto di qualità nel gioco al massacro, un sacrificio umano di dimensioni inaudite che consenta al capitale di fare quello che ha sempre fatto: riprodursi. Il capitalismo solipsistico dell’ultra-finanza si è già messo all’angolo da solo. Da almeno mezzo secolo lavora alla propria dissoluzione, che gestisce seminando panico e distruzione, fino alla promessa dell’apocalisse. Ma essendo null’altro che dinamismo pulsionale – ossessione per il rendimento oggi affidata all’algoritmo – il capitale non è in grado di riflettere su sé stesso in quanto causa del proprio male. Il suo motore auto-espansivo si è già schiantato contro un muro. Continuando ad accelerare arriverà presto alla completa auto-combustione.

Alleato alla tecnologia di terza e quarta rivoluzione industriale, il capitale è giocoforza asociale ed eugenetico. Ha da tempo inibito il suo dispositivo di riproduzione sociale incentrato sulla “necessità economica” dell’estrazione di plusvalore dalla merce-lavoro (l’ossessione per la fatica che ancora contraddistingue i moderni) da convertire in profitto attraverso la competizione. Su questo versante non c’è più nulla da fare: o si comincia realmente a costruire un mondo oltre il capitalismo, pianificando una via d’uscita collettiva dal cerchio magico della merce (“merda metafisica”, parafrasando Marx), o la tendenza distruttiva non potrà che accelerare. Pensiamo davvero che ci siano altre soluzioni, magari riformiste? C’è ancora chi ha il coraggio di usare questa parola in buona fede, senza sentirsi attraversato da un profondo senso di inutilità esistenziale? Siamo ben oltre il tempo massimo per le riforme. Siamo già nella fase in cui il capitale divora tutto, incluso sé stesso, pur di sostenere l’illusione della propria immortalità (illusione particolarmente dura a morire).

Le tecnologie digitali si sviluppano a ritmi incontenibili. Ma nonostante questa crescita esponenziale renda precario un sistema che insiste a definirsi “fondato sul lavoro produttivo di valore”, rimaniamo così legati alle categorie del capitale, e dunque alla sua autorità, che per disfarcene avremmo bisogno di uno sconvolgimento profondo delle nostre abitudini, e del coraggio di sgombrare l’ego dai suoi attuali contenuti. Viceversa continuiamo ad aggrapparci all’illusione che, se solo gestito meglio, il capitale saprà ancora una volta uscire vincitore dalla sua crisi “ciclica”. Scriveva l’anarchico Bonanno: ‘Gli sfruttati hanno quasi nostalgia di questa illusione. Hanno fatto il callo alle catene e ci si sono affezionati. Sognano qualche volta affascinanti sollevamenti e bagni di sangue, ma si lasciano abbagliare dalle parole delle nuove guide politiche.’[9] D’altronde, già Etienne de La Boétie, nel sedicesimo secolo, aveva posto la medesima questione nel Discorso sulla servitù volontaria: ‘Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura.’[10]

Oggi questa passione per la sudditanza, tra il nevrotico e il perverso, sembrerebbe seguire una doppia logica, che testimonia della natura divisa del potere stesso. Da una parte, sappiamo che ogni emergenza può essere manipolata attraverso il monopolio del codice del potere. Il capitale globalizzato si permette il lusso di fomentare conflitti per poi scommettere su entrambe le posizioni; ogni disputa può coincidere con i giochi di equilibrismo di chi manovra le leve del potere. Ma, occorre ribadirlo, il limite di questa visione sta nel sottovalutare la cecità autodistruttiva di un modello di socializzazione che ha come unico fine la propria espansione. Oggi il capitalismo d’emergenza ci lega al cappio dell’eschaton finanziario: come dimostrato nel 2020, una psico-pandemia può servire a chiuderci in casa e permettere al sistema di stampare trilioni di dollari da iniettare direttamente nel corpo finanziario, così da rinviarne il collasso. Tuttavia questi subdoli e criminali azzardi generano esplosive contraddizioni che le élite faticano a tenere sotto controllo. L’odierna manipolazione a sfondo escatologico può rapidamente avverarsi, trasformandosi in barbarie globale. Presumere che chi detiene il banco sia in grado di bluffare in eterno significa cedere alla più pericolosa delle illusioni.


[1] Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy (New York: Harper & Bros, 1942).

[2] L’Operation Twist è una strategia di politica monetaria (già utilizzata dopo la crisi del 2008) che consiste nella vendita di titoli di debito a breve termine finalizzata all’acquisto di titoli di debito a lunga scadenza, i cui tassi in questo modo vengono tenuti sotto controllo. Con l’utilizzo della Supplementary Leverage Ratio, invece, le banche beneficiano di una leva pressoché illimitata per l’acquisto di debito USA a un costo di finanziamento dello 0%; operazione che, in sostanza, consente alle grandi banche di fare QE per conto della Fed, assorbendo cioè quei titoli del Tesoro USA sempre più bistrattati.

[3] Al prossimo convegno sulla Bird Flu a Washington, DC (2-4 ottobre 2024) sono in programma gruppi di discussione sui seguenti temi: •Pianificazione della gestione delle morti di massa •Sorveglianza e gestione dei dati •Fornitura di vaccini e farmaci antivirali •Contromisure mediche •Impatto socio-economico sulle industrie del pollame e dell’allevamento •Valutazione rischi-benefici: sanità pubblica, industria e prospettive normative •Sforzi di educazione alla prevenzione e comunicazione dei rischi •Comando, controllo e gestione •Gestione della risposta alle emergenze •Pianificazione aziendale •Pianificazione dell’educazione scolastica •Pianificazione delle comunità.

[4] Amin Samman and Stefano Sgambati, ‘Financialising the Eschaton’, in Clickbait Capitalism. Economies of Desire in the Twenty-First Century (ed. Amin Samman and Earl Gammon), pp. 191-208 (193) (mia traduzione dall’inglese).

[5] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man (London: Penguin Books, 1992).

[6] Insieme ad altri accademici USA come Richard Falk e John Mearsheimer, Sachs da tempo condanna gli errori (e crimini) in politica estera commessi dai politici statunitensi, da Bill Clinton a Joe Biden passando per George W. Bush, Barack Obama, e Donald Trump. Gli illustri politologi non riconoscono però il legame causativo profondo tra l’implosione economica e l’emergenzialismo/avventurismo bellico.

[7] Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo (Milano: Garzanti, 1989), p. 15.

[8] Mia traduzione dall’inglese.

[9] Alfredo Bonanno, La gioia armata (Catania: Edizioni anarchismo, 2013 [1977]), p. 13.

[10] Etienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (Milano: Jaka Book, 1983), p. 42.

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mercoledì 24 luglio 2024

notizie dalle prigioni

“Il caldo, il puzzo di orina e la voglia di farla finita”. Lettera dall’inferno

La lettera dei detenuti del carcere di Brescia-Canton Mombello restituisce in tutta la sua drammaticità le condizioni ai limiti dell’umano in cui si vive nella maggior parte dei penitenziari italiani. I numeri sono spietati: a metà 2024 siamo già a 45 suicidi. Un macabro record assoluto, se confrontato con lo stesso periodo degli anni precedenti. Il sovraffollamento comincia ad avvicinarsi ai livelli della sentenza Torreggiani della Cedu. In Italia, secondo il Dap, al 31 maggio ci sono 61.547 reclusi, 1.381 in più rispetto a inizio anno (+ 2,3%).

a cura  di Damiano Aliprandi da il dubbio

Fa caldo, il sudore scivola sulla pelle, e si appiccica con i vestiti addosso, sono madido, e si sono ormai impregnati lenzuola e materasso, anch’essi di sudore come i miei panni e le nostre membra. Si boccheggia, in cella, e l’acqua che ci trasciniamo dietro, dopo la tanto sofferta e agognata doccia, evaporando riempie d’umidità l’angusto luogo.

L’aria satura d’umidità, sudore, miasmi, la puoi tagliare con un coltello, in verità, farlo è impossibile, i coltelli sono di plastica riciclata, e si rompono anche solo a guardarli. Devo andare in bagno, ma è occupato, altri 15 sono in fila davanti a me. Un anziano di circa 74 anni ha il mio stesso problema, purtroppo per lui, e per noi, non fa in tempo a dire che gli occorre con urgenza il bagno. Ha una scarica di dissenteria, mentre dimenandosi cerca di alzarsi a fatica dalla branda con il materasso vecchissimo in gomma piuma. In un attimo, lenzuola e materasso s’impregnano di liquame e urina, lui non sa come comportarsi, indifeso, imbarazzato, umiliato, impietrito, attonito. Piange, un uomo di settantaquattro anni, i capelli radi e canuti, piange e si scusa, geme, si lamenta, impreca, bestemmia, chiede a Dio di morire. La sua colpa è quella d’aver commesso un grave reato: bancarotta fraudolenta.

I suoi carnefici sono fuori, si sono approfittati di lui, di un vecchio che a stento sa leggere e scrivere. L’hanno circuito, e lui, e qui, in questo piccolo inferno, devastato nel corpo nella mente e nell’anima, ma in fondo questo non è un nostro problema. II nostro problema sono gli odori. Il problema è suo, infatti, uno della cella si sta alzando irritato, gridando qualcosa d’incomprensibile nella sua lingua. Probabilmente vuole mettergli le mani addosso, non lo fa per mera cattiveria, e lo stress, il caldo, gli odori insopportabili, il fatto che non parla la nostra stessa lingua e che non riesce a sentire la sua famiglia se non per dieci minuti a settimana. È stanco arrabbiato, sofferente, lo siamo tutti. Qualcuno si alza per ragionarci, per calmarlo, ma subito Faria s’infiamma, cominciano a volare parole grosse e i primi spintoni, per fortuna altri intervengono e si riesce a placare gli animi.

Questa volta è andata bene, ma la situazione è sempre questa, e purtroppo, non tutte le volte termina cosi. 15 e un solo bagno, un vero e proprio stabilimento balneare per germi e batteri, per loro e la condizione migliore, una festa, per noi, forse un po’ meno. Questa combinazione è il cocktail perfetto per far insorgere discussioni, litigi e tutto quanto di brutto può conseguirne. Oltretutto il cesso è una vecchia turca fatiscente con sopra un tubo dell’acqua per farsi la doccia, che d’estate scotta dannatamente, e d’inverno, e maledettamente fredda. A pochi centimetri, sempre nel bagno, cuciniamo i nostri pasti, e se è vero che quando tiri lo sciacquone, le feci nebulizzate schizzano fino a due metri, allora cosa stiamo mangiando da anni?

In fondo pero, è notevolmente migliore della sbobba che ci servono dal carrello. In quindici è pressoché impossibile permanere in piedi in cella, figuriamoci seduti tutti al piccolo tavolino per mangiare, quindi facciamo a turno. Nei turni con noi, si accodano cimici, scarafaggi e altre bestiacce, che non ne vogliono sapere di rispettare la fila. Ben pensandoci pero, più che mancanza d’intimità, non stiamo forse parlando di una vera e propria violenza? Violentati, intimamente, mentalmente, moralmente, proprio in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Di persone non auto sufficienti in questo Istituto ce ne sono parecchie, si può spaziare dalle malattie psichiatriche più accentuate sino alla tossicodipendenza, e come visto sopra, a malattie senili. Il sovraffollamento in un carcere causa tutto questo, o meglio, in tutte le carceri di questo paese, non puoi aspettarti altro. E cosi, come soffriamo noi allo stesso modo, soffrono gli operatori che ci devono assistere, dagli Agenti per la sicurezza al personale sanitario, e che dire di quelle migliaia che in carcere sono finite, ma nulla avevano fatto per meritarlo?

Tutte persone incrinate, inevitabilmente, irreparabilmente, una tristezza desolante e sconfinata, per i rei e non. Elevati sono i suicidi in carcere, 45 in soli cinque mesi e mezzo dall’inizio dell’anno, un gesto troppo estremo? Forse, ma e quello che viviamo qui che porta queste persone a compiere certi gesti, e qui di persone ce ne sono sicuramente troppe. I gesti estremi accadono sempre vicino a noi, ti svegli una mattina e forse mestamente ti accorgi che nel bagno un tuo cancellino ha reso l’anima, oppure accade al vicino o al dirimpettaio. È aberrante.

Siamo sovraffollati, in condizioni che rasentano la disumanità, definite di tortura dall’Unione Europea, sopra, lo abbiamo ben spiegato. La domanda giusta da porsi è: come può funzionare il reinserimento? La così chiamata rieducazione? Come si possono svolgere i corsi organizzati? Non solo manca personale, sono concretamente assenti gli spazi. Sappiamo che alcuni di voi sono già venuti a vedere le nostre celle, ma viverci è molto diverso. Voi ci dovete credere, queste non sono lamentele, non vogliamo né impietosire né mendicare, né invocare clemenza, ma solo riportare quanto è vero è ahinoi terribile. Sì certo, alcuni di noi meritano di stare in carcere, hanno commesso reati, e altresì verosimile che, questa mancanza pressoché totale, di umanità nei confronti dei carcerati non è forse pari a commettere dei reati?

È giusto pagare per chi ha sbagliato, perché occorre rieducazione; è altresì vero che oggi, con questo sovraffollamento, le persone detenute vengono poco alla volta, giorno dopo giorno, defraudate della loro umanità, e questa cosa deve fare paura, e fa concretamente spavento. La violenza fatta a quell’anziano prima citato, non è simile a compiere un reato, è uno dei tanti, è vero, ma quanti ce ne sono come lui, non sono dei veri e propri reati, trattare le persone in questo modo, e non è forse vero che le condizioni in cui ci troviamo in carcere sono un costante incitamento al suicidio?

Pensiamo sia non edificante, ma umanamente avvilente per un agente di turno dover sciogliere un nodo che un detenuto esanime si è messo al collo ponendo fine alla propria esistenza. Tutti possono sbagliare, ma il carcere deve essere impostato per rieducare, non per toglierci di mezzo, non pensiamo che lo Stato attuale sia uno Stato non improntato al dialogo, anzi! Proprio per questo possono nascere dal dialogo vere e proprie soluzioni. Signorie Vostre, voi ci rappresentate, indifferentemente dall’appartenenza politica, voi ci rappresentate come persone, come abitanti di questo Bel Paese, l’Italia. Il problema carceri in Italia è grande, non è di sicuro il nostro fiore all’occhiello. In Europa ci rimproverano (2006- 2013) per il nostro sistema carcerario: perché quindi, non provare ad ascoltare chi in carcere ci vive per immaginare possibili soluzioni? Questo non vuol dire scendere a patti con nessuno, ma semplicemente sarebbe un atto di democrazia, un modo per riuscire a sistemare questo problema carceri, o perlomeno un punto da cui cominciare. Da questo punto potrebbero nascere idee, e qui a Canton Mombello, il problema del sovraffollamento è eclatante, quindi perché non cominciare da qui? Sarebbe bello che compiendo un atto di umanità il nostro Paese venisse visto in maniera diversa, in maniera positiva anche per il sistema carcerario, oltre a tutto quello che di bello in Italia già c’è. Leggendo i giornali abbiamo letto che alcuni, considererebbero la concessione dei giorni in più di liberazione anticipata come un fallimento dello Stato. Noi ci chiediamo: perché concedere dei giorni in più di liberazione anticipata a persone “meritevoli” sarebbe un fallimento? Abbiamo visto che non è facile essere meritevoli, sappiamo che solo chi ha fornito prova di partecipazione a un percorso rieducativo e riabilitativo può beneficiare di detti giorni, abbiamo osservato come non sia semplice rientrare nelle maglie di questa rete. Quindi, davvero sarebbe un fallimento?

Personalmente crediamo che non si tratti per nulla di un fallimento, al contrario sarebbe la concreta dimostrazione che lo Stato c’è, e ha vera volontà di cambiare le cose, di migliorare la vita a tutti i suoi cittadini, anche a quelli che hanno sbagliato, ma che comunque non sono esclusi. Ad oggi, causa il sovraffollamento, il carcere non mette in condizioni nessuno di essere rieducato, e fa vivere pesanti condizioni anche ai suoi operatori. Come può un sistema che mette in avaria il suo stesso personale, passando da quello sanitario, dell’area educativa sino agli Agenti che con un giuramento si prodigano tutti i giorni in questo lavoro, funzionare? Così come i detenuti vivono quotidianamente con il sovraffollamento, gli stessi operatori sono costretti a conviverci e a fare i conti con i problemi che causa. Tutti quanti sono messi a dura prova ogni giorno, e alla nostra sofferenza si somma la loro. Chi vuole, cerca e si prodiga per la rieducazione, conscio dei propri errori, si ritrova a lottare per frequentare corsi, che non possono esserci per tutti, poiché siamo davvero tanti. Qui nessuno chiede alcuna misura di grazia, desideriamo solamente poter avere un percorso corretto, giusto, che ci consenta di migliorarci come persone. E a cosa servirebbero i giorni aggiunti di liberazione anticipata, se non a migliorare questo sistema? Con la concessione di questi giorni, non solo si allevierebbe la sofferenza dei detenuti e degli operatori del carcere diminuendo sensibilmente il problema del sovraffollamento, ma s’incentiverebbe un sistema virtuoso che dà una speranza ai meritevoli.

I detenuti della Casa Circondariale “Nerio Fischione” Di Canton Mombello, Brescia

da qui

 

 

Cosa sappiamo sulla rivolta nel carcere di Trieste

Giovedì 11 luglio in una parte della casa circondariale “Ernesto Mari” di Trieste è scoppiata una rivolta repressa dalle forze dell’ordine, sembra anche con l’uso di gas lacrimogeni, per cui si è arrivati alla chiusura per alcune ore dell’accesso all’adiacente via del Coroneo.

da Monitor

 

La rivolta sarebbe scaturita da una contestazione disciplinare che il direttore ha fatto insieme a un agente. Dopo la contestazione il detenuto, molto giovane, di origine straniera, sarebbe tornato in sezione molto agitato sostenendo di avere ricevuto uno schiaffo. Durante la rivolta alcuni detenuti sono arrivati in infermeria, sfondando i cancelli. Il giorno dopo il magistrato di sorveglianza è entrato e ha sentito i “rivoltosi” (che saranno trasferiti). Le loro richieste erano soprattutto sulla riduzione dell’affollamento. La direzione del carcere sostiene che non sia stato necessario usare la forza per sedare la rivolta.

A differenza delle carceri più recenti l’istituto triestino, risalente alla prima metà del Novecento, è stato costruito nel centro della città, addirittura attaccato all’edificio del tribunale locale. Diversi edifici residenziali si affacciano sulle strade che circondano l’istituto e da lì in pochi minuti a piedi si arriva alla stazione centrale. Durante le prime ore della rivolta le forze dell’ordine hanno impedito l’avvicinamento al carcere, mentre intorno alle 23 la sorveglianza è stata allentata ed è stato possibile transitare almeno a piedi. Anche se a quel punto la situazione si era tranquillizzata, rimanevano diverse ambulanze e automediche con il motore accesso, mentre agenti della polizia penitenziaria facevano capannello davanti all’ingresso e nei ristoranti ancora aperti dei dintorni, commentando quanto accaduto. Da alcune finestre di una delle sezioni maschili ogni tanto si affacciavano pochi reclusi. Nel frattempo, dalle finestre che danno sulle scale interne si vedeva un certo viavai. Quando sembrava tutto finito una persona detenuta è stata portata fuori in barella: sembrava sedata, ma una volta nell’ambulanza ha iniziato a muoversi e poi ha alzato la testa. Poco dopo l’ambulanza è andata via, accompagnata da due macchine della polizia penitenziaria.

Difficile negare che ci si sia trovati di fronte a una situazione straordinaria. Il 12 luglio Antonio Poggiana, il direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina (Asugi), ha fatto diffondere un comunicato in cui si ringrazia tutto il personale per aver “gestito correttamente una situazione potenzialmente molto rischiosa”. Secondo l’azienda sanitaria la rivolta sarebbe stata portata sotto controllo dopo una “mediazione” accettata dai detenuti. Leggendo il comunicato si apprende anche che per fare fronte alla rivolta l’Asugi avrebbe attivato il Piano di emergenza interna per il massiccio afflusso di feriti (indicato nel comunicato con l’acronimo Peimaf), con dieci ambulanze e due automediche. In un comunicato uscito lo stesso 11 luglio l’Azienda parlava di “maxi-emergenza” e diceva di aver trasportato al pronto soccorso sette pazienti: quattro con malori, uno con un’intossicazione da fumo e due per problemi legati a delle cardiopatie. Venerdì 12 due persone risultavano ancora ricoverate in medicina d’urgenza.

Nel frattempo però una persona, il quarantottenne sloveno Zdenko Ferjančič, è stata trovata morta in cella. Non faceva colloqui, probabilmente non aveva famiglia in Italia. Aveva un reato di droga ma non era in carico al Serd. Le notizie trapelate fino a questo momento parlano di metadone sottratto dall’infermeria durante la rivolta, che avrebbe causato al detenuto un’overdose. La presunta morte per overdose di metadone porta la mente alle rivolte della primavera del 2020 e soprattutto alla strage del carcere di Modena. È il caso di ricordare che il metadone è un oppioide sintetico che viene usato nel trattamento delle dipendenze da alcuni tipi di stupefacenti. Secondo la rilevazione di Antigone del 30 giugno 2024 nel carcere giuliano ci sarebbero cinquantadue persone tossicodipendenti, ma mancherebbe una sezione apposita per loro.

Il carcere diTrieste, composto da sette sezioni maschili e da una femminile, è come tanti altri strutturalmente sovraffollato. A fronte di una capienza di 150 posti, il documento di Antigone parla di 257 persone presenti (25 donne e 232 uomini). Di queste, 164 sono straniere. Nello stesso testo si fa presente che alcune celle sono infestate da cimici dei letti, mentre altre sono prive di riscaldamento e acqua corrente. All’interno del carcere triestino 89 persone farebbero uso di sedativi mentre 35 prenderebbero stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Nonostante ciò, non esisterebbe un servizio psichiatrico quotidiano nella struttura, ma solo in base alle necessità degli individui. Al momento, inoltre, secondo i dati diffusi da Antigone, solo tre persone detenute possono uscire per lavorare all’esterno.

Poche ore dopo la rivolta, Enrico Trevisi, vescovo di Trieste dal 2 febbraio 2023, ha diffuso una nota in cui invita a tenere alta l’attenzione sulle persone detenute. Trevisi fa notare che lo Stato, nel punire chi ha infranto le leggi, a sua volta non rispetta la normativa sulla detenzione visto che “il sovraffollamento […], l’inadeguatezza delle strutture e l’impossibilità di sanificarle […] rendono le pene inumane. Il caldo con strutture sovraffollate rende tutto ancora più esasperante”.

Nella sua nota Trevisi si sofferma anche sul concetto di pena, sostenendo la necessità di lavorare a delle alternative a quella detentiva. Forse è proprio questo uno dei punti cruciali, in un momento in cui il numero di suicidi in carcere continua ad aumentare e l’idea della privazione della libertà come retribuzione per un torto arrecato alla società sembra sempre meno convincente. Sarebbe il caso di riflettere anche sul concetto di rieducazione del condannato sancito dalla Costituzione, ricordando che lo stesso testo non dà per scontata l’esistenza, e quindi la necessità, del carcere.

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