lunedì 20 marzo 2023

Parole senza Rete - Michele Santoro

 

Alex Saab peggiora, gli Stati uniti lo stanno lasciando morire - Geraldina Colotti

 

La salute di Alex Saab peggiora. Sta vomitando sangue scuro. In carcere non riceve cure, ma ansiolitici non prescritti da uno psichiatra. Lo stanno portando alla morte. Camilla Fabri Saab, moglie del diplomatico venezuelano sequestrato e deportato negli Stati uniti, trattiene a stento le lacrime mentre legge il comunicato del movimento che si batte per la liberazione del marito. È pallida e smagrita, nei suoi occhi tutta l’angoscia che le hanno trasmesso i pochi minuti di colloquio telefonico con Alex, detenuto in un super-carcere di Miami, controllato giorno e notte, in ogni attimo e in ogni gesto.

Un ostaggio, un prigioniero politico. Vittima di una guerra con convenzionale scatenata dall’imperialismo più potente del pianeta contro un messaggero di pace, come Saab, che non trafficava armi o droga, ma importava alimenti e medicine al Venezuela bolivariano, un paese assediato dal “gendarme del mondo”. Un paese che, come Cuba, subisce l’imposizione di misure coercitive unilaterali illegali: non per aver aggredito o saccheggiato paesi interi, ma per aver voluto costruire il proprio destino, pensando al benessere degli “ultimi” e non a quello dei mercanti di armi e degli speculatori.

“Vogliono restituircelo in una bara?” dice Camilla alla sala gremita di giornalisti. Al tavolo, insieme a lei, i promotori della campagna Free Alex Saab - le avvocate Laila Tajeldine e Indhriana Parada, i giornalisti Pedro Carvajalino e Roigar López -rispondono alle domande della stampa nazionale e internazionale. Spiegano l’assurdo diniego di riconoscere l’immunità diplomatica dell’inviato speciale, per via dell’appoggio dato dagli Usa all’”autoproclamato” Juan Guaidó, nonostante questa strada si sia rivelata palesemente chiusa.

Il caso è evidentemente politico. La giustizia negata a Alex Saab, come essere umano e come diplomatico, è parte di una sopraffazione di carattere internazionale. Le strade per una soluzione politica, il governo bolivariano le sta esplorando tutte, compresa la possibilità di uno scambio fra il diplomatico deportato e alcuni statunitensi, detenuti per atti ostili contro le istituzioni venezuelane.

Ma ora, dato l’aggravamento delle condizioni di salute del marito, Camilla chiede una soluzione “umanitaria”, com’è facoltà del presidente degli Stati uniti, Joe Biden. Ora l’urgenza è soprattutto di carattere sanitario. Alex Saab è sopravvissuto a un tumore allo stomaco e tutto indica che il male sia tornato. Il Movimento Free Alex Saab lancia un appello al mondo per impedire che gli Stati uniti lo lascino morire.

Il caso è ormai noto a livello mondiale. A dispetto del suo statuto diplomatico, Alex Saab è stato sequestrato il 12 giugno 2020 durante una sosta per il rifornimento di carburante sull’isola di Capo Verde. Era in transito, si stava recando in Iran in qualità di inviato speciale dello Stato venezuelano. Aveva il compito di facilitare l'acquisto di alimenti, impedito dalle misure coercitive unilaterali, imposte dagli Usa persino contro i Comitati locali di approvvigionamento e produzione (Clap), un meccanismo di articolazione con le comunità che distribuisce cibo a più di 7 milioni di famiglie. Alex Saab ha anche facilitato l’invio di medicinali, un altro dei settori in cui le MCU hanno causato gravi danni, anche in piena pandemia da COVID-19.

Ora, il comunicato del movimento ricorda che, già nel luglio 2021, il gruppo di lavoro contro la tortura e diversi relatori delle Nazioni Unite avevano espresso la loro preoccupazione per l'irreparabile deterioramento dello stato di salute di Alex Saab.

Il 7 luglio 2021, nel carcere di Capo Verde, dopo molti rifiuti, Alex Saab è stato infatti visitato dal suo medico di fiducia. La relazione del sanitario aveva rilevato uno stato di salute preoccupante, soprattutto perché Saab aveva già sofferto di cancro allo stomaco. In quell’occasione, il medico aveva diagnosticato: anemia, anoressia, diabete mellito di tipo 2, ipotiroidismo, ipertensione, alto rischio di malattie tromboemboliche tra cui embolia polmonare e trombosi venosa profonda.

Inoltre, aveva riscontrato un'elevata infezione da batteri Helicobacter pylori nel sangue e l'endoscopia aveva identificato un'emorragia del tratto digerente che avrebbe potuto preannunciare un ritorno del cancro. Il medico aveva anche constatato la rottura del molare inferiore sinistro, a causa dei colpi ricevuti durante la tortura e aveva richiesto gli venissero fornite cure mediche adeguate, che non ha mai ricevuto.

Il 9 settembre 2021, una nuova relazione del medico curante tornava a chiedere un’adeguata assistenza specialistica per il paziente e chiedeva alle autorità capoverdiane assicurazioni al riguardo. Capo Verde non aveva fatto nulla, ignorando persino l’appello dei relatori Onu.

Alex Saab arriva nel territorio degli Stati Uniti, sequestrato per la seconda volta, il 16 ottobre 2021. Fino ad oggi non ha ricevuto alcun tipo di attenzione medica per le sue patologie. Si trova nel Federal Detention Center di Miami, in condizioni ancora più dure di quelle sofferte a Capo Verde. Non gli è stato permesso ricevere visite dalla famiglia. Non vede la moglie e i figli – a loro volta vittime di persecuzione da parte delle autorità nordamericane e dei loro alleati – da oltre due anni e otto mesi.

Non gli è stata neppure concessa una visita consolare, com’è diritto di ogni detenuto. Il Dipartimento di Stato USA non ha mai risposto alla richiesta dello Stato venezuelano di permettere la visita di un console, come stabilito dall'articolo 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari.

Nel referto medico effettuato a luglio, il medico di Alex Saab aveva già riferito di aver identificato un'emorragia dal tratto digerente, sintomo di un probabile ritorno del tumore. Ora – denuncia il movimento - , è estremamente allarmante apprendere che Alex Saab vomita sangue da settimane, che lo abbia fatto presente, ma che gli venga negata opportuna assistenza medica. Perché?

Tutto questo indica “il prosieguo di una politica di Stato”, illegale quanto il suo arresto e la sua deportazione. Vogliono consegnarlo morto alle autorità venezuelane? Perché, allora, non fornirgli le cure adeguate, perché impedire al suo medico di visitarlo? “Tutti sanno che la verità è dalla parte del diplomatico venezuelano, e che prima o poi gli Stati Uniti dovranno rilasciarlo, ma con questi continui rinvii processuali, c’è il rischio di non rivederlo vivo”. Da qui, la richiesta che il movimento rivolge agli Usa e a tutti coloro che, nel mondo, hanno a cuore il destino degli ultimi, i diritti umani e il rispetto della legalità internazionale.

“Noi, il movimento #FreeAlexSaab, riteniamo il governo degli Stati Uniti responsabile della vita e di ciò che potrebbe accadere al diplomatico Alex Saab Moran. Al contempo, chiediamo che la Croce Rossa Internazionale si presenti al Centro di Detenzione Federale di Miami, Stati Uniti. Sollecitiamo l'Alto Commissario del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ad agire subito, denunciando l’ulteriore violazione dei diritti umani del diplomatico venezuelano, detenuto illegalmente sul suolo statunitense. Chiediamo al Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, in quanto massimo difensore del diritto internazionale, di pronunciarsi su questo caso, che costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Chiediamo l'immediato rilascio di Alex Saab Morán, il diplomatico venezuelano rapito dagli Stati Uniti. Chiediamo urgentemente una soluzione umanitaria, politica e diplomatica a questa situazione ingiusta. È tempo di una soluzione che porti benefici a entrambe le nazioni, è tempo di andare avanti. Esortiamo il governo degli Stati Uniti a portare a termine un accordo, accogliendo la disponibilità del Venezuela a trovare una soluzione”.

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domenica 19 marzo 2023

Diventare neri, la politica fuggitiva - Rebecca Rovoletto

 

Nel pensiero e nel linguaggio di Bayo Akomolafe, psicologo clinico, filosofo e poeta transnazionale di origini yoruba – cui ci introduce un prezioso e appassionato articolo di Rebecca Rovoletto – la blackness e la whiteness non hanno davvero nulla a che vedere con il colore della pelle o con l’identità di singoli individui. Diventare neri è sì un processo di ricongiunzione con le proprie radici culturali ma è soprattutto un percorso che configura percezione e comprensione del mondo reintegrandovi degli attori in-visibili. Vuol dire, tra le altre cose, sottrarsi agli imperativi e ai giochi egemonici della “nave schiavista” che fa di tutto per mantenerti tonico. Diventare neri è diventare fuggiaschi, rallentare recuperando l’attenzione, trovando altre temporalità, sapendo che in nessun luogo arriveremo intatti. Ed è anche accorgersi delle crepe, tastarne i bordi, abitarne i paradossi… Non solo quel che viene escluso dal computo capitalista, ma anche ciò che resta fuori dalle coscienze collettive “bianche” imperniate nella separatezza e nei binarismi. Perché una cosa è lasciarsi trasformare dal contatto con alterità radicali, altro è reinscriverle nei recinti eurocentrici. Una cosa è pensare l’emancipazione in termini di “fuggitività” dalla reclusione neoliberista, altra è accarezzare un posto al tavolo del potere. La postura di radicale decolonialità di Akomolafe ci interroga in profondità: quando e come reiteriamo o rinforziamo il sistema contro cui ci battiamo? In che modo diventiamo iatrogeni nel pensiero e nelle azioni che vorrebbero essere di cambiamento? Le sue domande segnano il solco tra l’ambizione di occupare la tolda della “nave schiavista” e il fuggirne. Non si tratta di soluzioni, dice. Si tratta di meravigliarsi, di costruire nuove alleanze con il mondo che ci circonda (e non solo con gli umani) per diventare diversi. Toccando il corpo materiale dell’attivismo e lasciandolo rabbrividire

 

Nel 2020, l’onda ecologica partita da Wuhan, nel suo incontenibile percorso di perturbazione verso occidente, ha raccolto e trasportato con sé inedite voci. Una di queste appartiene a Bayo Akomolafe[1]. Intercettando alcuni “punti ciechi” del nostro praticare militanza e attivismo, ha stimolato un gruppo di umani italici a seguirne le tracce, riflettere sulla sua prospettiva e impegnarsi nell’approfondire e restituire almeno in parte il suo pensiero.

Il risultato, sin qui, è la pubblicazione a maggio della traduzione italiana del suo saggio Queste terre selvagge di là dallo steccato, per i tipi di Exòrma, e la nascita di un sito dedicato a raccogliere e tradurre molti dei suoi contributi[2].

Ma facciamo un passo indietro. Per chi ha intensamente frequentato il pensiero e le epistemologie meso-sudamericane dei popoli Maya, Aymara o Mapuche; per chi ha sostato con le proposte di Ivan Illich e Gustavo Esteva, con le analisi di Raúl Zibechi, con le visioni e le pratiche cosmo-politiche di Silvia Rivera Cusicanqui e dei femminismi comunitari di Lorena Cabnàl e Julieta Parédes (e i molti altri raccolti da Francesca Gargallo)[3], con le vivide esperienze delle cosiddette autonomie indigene, a partire da quella zapatista; ebbene, a questi “noi” – cui si aggiungono i conoscitori dell’ampio spettro dei black studies e dei femminismi neri – non mancheranno numerose risonanze con quanto ricorre, dall’altra parte del globo, nell’elaborato pensiero di Bayo Akomolafe.

«Se c’è una cosa che l’Antropocene non sa fare è rendere conto delle perdite. Non sa guardare al passato come ancora persistente, vuole guardare nel futuro per risolvere i problemi nel futuro; tracciare gli algoritmi che ci aiuteranno a raggiungere il 2050 e oltre. Ma non sa come rendere conto dell’espropriazione, delle ossa e dei ricordi sepolti sotto l’asfalto e le autostrade del progresso. Ci sono spiriti, ci sono animali, ci sono esseri vitali, c’è più-dell’umano… tutto quello che sta accadendo, compresi virus e cambiamento climatico, suggerisce un’insurrezione delle cose in-visibili».

Nulla di nuovo, quindi? Non proprio. La sua originalità è quella di intrecciare una formazione prettamente occidentale – che attinge ad alcune delle sue punte più avanzate[4] – con la tradizione delle sue origini Yoruba, usando un potente linguaggio figurativo al tempo stesso poetico e ironico, ricco di tropi e neologismi spiazzanti. Ma, soprattutto, è capace di indicarci che “il re è nudo” anche riguardo a molto pensiero critico e pratiche dell’attivismo contemporaneo, quando si limita alla sola dialettica con le strutture dominanti.

Così come sappiamo guardare in faccia il predatore (il capitalismo globalizzato, variamente declinato) e le sue molte teste (patriarcato, razzismo, colonialismo, misoginia, eccetera), allo stesso modo in cui vediamo gli effetti dei suoi arbitri – che chiamiamo Antropocene, caos climatico, ecocidio, ingiustizie sociali e ambientali – dovremmo osservare e chiederci quando rischiamo di replicare lo stesso modello che vorremmo superare. Ricordo molto bene le parole dello stesso Galeano fu Marcos, quando nel 2015 diceva: «Noi vediamo che si continua a ricorrere agli stessi metodi di lotta. Si continua con gli stesi cortei, reali o virtuali, con elezioni, con sondaggi, con riunioni. (…) Come se anche il sistema fosse lo stesso e uguali le forme di sottomissione e distruzione. Come se là in alto il potere avesse mantenuto invariato il suo funzionamento. (…) Ma ancora una volta vediamo che quelli che pensano ed analizzano non dicono niente di questo. Continuano a ripetere le cose di vent’anni fa, quarant’anni fa, un secolo fa… E vediamo che organizzazioni, gruppi, collettivi, persone, continuano a fare le stese cose (…)».

Wifredo Lam — Sombre Malembo, Dieu du carrefour -1943, immagine tratta dal blog Clinica della crisi, dove trovate Èsù al crocevia, un brano tratto da Queste terre selvagge di là dallo steccato  di Bayo Akomolafe, edito da Exòrma

Da attivista e studioso, e da una postura di radicale decolonialità, Akomolafe parte proprio da queste domande: quando e come reiteriamo o rinforziamo il sistema contro cui ci battiamo? In che modo diventiamo iatrogeni nel pensiero e nelle azioni che vorrebbero essere di cambiamento? Quando e come nel voler ‘combattere’ la crisi diventiamo parte della crisi? E se il modo in cui vediamo il problema, interiorizzato su sistemi normativi di ri-produzione capitalista, fosse il problema?

Del resto, l’Antropocene non è certo qualcosa là fuori, non è il climate change:

«Il climate change non è la vorticosa nuvola grigia fuori dal centro congressi costruito per combattere il climate change. Il climate change è la nuvola vorticosa, il centro congressi e il nostro attivismo. Siamo strettamente legati al mondo e nulla è assolto o al sicuro: né la memoria, né la cognizione, né i sentimenti, né l’azione, né il pensiero, né i nostri corpi».

Non è semplice, ma ce lo dobbiamo pur dire. Perché una cosa è lasciarsi trasformare dal contatto con alterità radicali, altro è reinscriverle nei recinti eurocentrici. Una cosa è pensare l’emancipazione in termini di “fuggitività” dalla reclusione neoliberista, altra è accarezzare un posto al tavolo del potere – politico, accademico, leaderistico, autoriale – esserne normalizzati e funzionali, servendo su un piatto d’argento nuove “nicchie” da mettere a valore e gentrificare.[5]

«Se siete stati buoni alleati bianchi mi complimento con voi. E anche se ho bisogno di voi non posso restare qui. E questo probabilmente è vero anche per voi. Non posso rischiare di essere incluso in questi luoghi di potere. Occupare la tolda della nave schiavista mi lascia pur sempre qui, ci lascia qui sulla stessa imbarcazione. E non voglio un posto al tavolo, voglio volare via come gli uomini e le donne Igbo che volarono via da Dunbar Creek. Forse nel mio volo potreste accorgervi che nel più ampio fluire delle cose potrebbe non essere così importante essere stati o meno buoni cittadini…».

In qualche collettivo, tempo fa, è girato un testo cui anche Akomolafe fa riferimento. Si tratta di  Undercommons. Pianificazione fuggitiva e studio nero di Stefano Harney e Fred Moten che l’anno scorso è stato il nucleo dell’edizione del Black History Month di Torino. Gli autori, citando Frank B. Wilderson III, usano la metafora della nave schiavista, non soltanto come strutturazione delle gerarchie capital-colonialiste, ma anche come luogo in cui incontrare una “compagnia visionaria” con cui pianificare una politica fuggiasca.

Akomolafe riprende la stessa metafora per leggere la condizione di tutti i corpi (umani e alterumani) nella modernità, sottolineando che da quel vascello non siamo mai sbarcati, quel vascello si è soltanto diffratto e riversato sulla spiaggia, diventando il porto, la città e le relazioni, i movimenti e le posture che i corpi s(tereo)tipati sono obbligati ad assumere dall’assemblaggio stesso della struttura “navale”. Ma sottolinea anche la generatività delle spaccature che si aprono nel suo fasciame, quando ci sbalzano in un crocevia, quando diventa impossibile tirare dritto:

“Ésù è il trickster Yoruba, dio dei crocevia – ricco in agentività, colui che disciplina le nostre pretese di completezza con dosi omeopatiche di mostruosità, rompe i binarismi con cui osserviamo il mondo e apre una terza via. Questo è il dono di Ésù. Il dono dei crocevia. [Colui che] trasformò un veliero di tortura in un grembo di legno, gravido di un popolo diasporico che ha arricchito il mondo di magica vitalità. (…) E posso fornire molti esempi di come l’oppressione sia diventata l’alchimia della trasformazione. Come i corpi disarticolati sono diventati portali per altri modi di essere: nella danza, nella musica, nei rituali, nei modi di interagire con il mondo, nelle religioni, nei sistemi spirituali”.

 

Per Akomolafe, cresciuto in una Nigeria “post-coloniale” impegnata a diventare il più occidentale possibile, “diventare nero” è stato un processo di ricongiunzione con le proprie radici culturali –   scorticate dalle tratte transatlantiche, dalla spoliazione degli ecosistemi, dal missionarismo, dalle ristrutturazioni del FMI – ma è soprattutto un percorso che riconfigura percezione e comprensione del mondo reintegrandovi gli attori in-visibili, i geni dei luoghi, gli abitanti nonumani che co-creano mondo assieme a noi, le temporalità della memoria, le mitopoiesi, l’incontro con le figure trickster.

Nella epistemologia di Akomolafe “nerità” e “bianchità” non hanno nulla a che vedere con il colore della pelle o con l’identità di singoli individui: la Whiteness è «un sistema razzializzato che produce corpi e li colloca gerarchicamente. Mi piace dire che i corpi bianchi sono diventati bianchi per via della “bianchità”». È la cartografia terra-formante del mondo tracciata dalle rotte estrattiviste in nome del progetto prometeico dell’Umano cartesiano-illuministal’appiattimento di tutte le discontinuità, la separazione dal “mondo naturale” ridotto a merce. Bianchità è infatti:

«il modo in cui gli alberi vengono abbattuti e gli ecosistemi ripuliti per fare spazio ai parcheggi, il modo in cui le popolazioni indigene nelle Americhe sono state sterminate, il modo in cui le montagne sono state fatte esplodere per costruire un porto per le navi che trasportavano generazioni africane in Brasile».

La visione ecologica, decoloniale e postumana proposta da Akomolafe, che chiama queer, disturba come un’interferenza il confortevole palinsesto della quotidiana routine, scuote le fondamenta di questioni come il concetto stesso di identità, di corpo individuale, di agentività esclusiva e di reattività coatta.

Diventare neri è quindi sottrarsi gli imperativi e ai giochetti egemonici della “nave schiavista” che fa di tutto per mantenerti tonico. È diventare fuggiaschi, è rallentare nell’emergenzialità permanente (etero- e auto-diretta) come funzione dell’attenzione, trovando altre temporalità (che chiama in modo geniale cronofemminismo), sapendo che non arriveremo intatti. È accorgersi delle crepe e sottrarsi alla foga di aggiustarle o amplificarle, ma tastarne i bordi, abitarne i paradossi (“squattarle”, come direbbe Timothy Morton), sgusciarvi attraverso e incontrare tutto ciò che da “moderni” abbiamo occultato, ignorato, reso negletto o folckloristico. Non soltanto tutto quello che viene escluso dal computo capitalista, ma anche ciò che resta fuori dalle coscienze collettive “bianche” imperniate nella separatezza e nei binarismi.

Per Akomolafe si tratta di compostare, fare humus, creolizzare idee, codici, prospettive, politiche e posture, compreso l’attivismo[6].

«Quando le persone sentono parlare di tecnologie fuggitive, dicono: beh, ecco una pratica che se la faccio, potrei essere salvo; ecco un prodotto, chiamiamolo “sistema di guarigione razziale”; ecco una app per l’emancipazione; ecco un’idea, un concetto che è già ben confezionato. La stessa presenza della parola fuggitivo lo smonta. Il fuggitivo è una figura in continuo movimento, quindi non parlo dello stato di arrivo (…) sono all’opera schemi e formule viscose che vengono occluse quando pensiamo a noi stessi come singoli attivisti. (…) il cambiamento non è umano, non è opera nostra. Possiamo solo allearci e costruire coalizioni più forti con il mondo che ci circonda (e non solo con gli umani). Non si tratta di soluzioni, anche se le soluzioni sono benvenute. Si tratta di meravigliarsi, costruire nuove alleanze per diventare diversi. Toccando il corpo materiale dell’attivismo e lasciandolo rabbrividire».


[1] Bayo Akomolofe, psicologo clinico, filosofo e poeta, è di origini nigeriane (Yoruba), attualmente residente in India con la famiglia. Viaggia tra India, Europa, USA e Sudamerica come Visiting Professor in varie università, tra cui Berkley, tenendo conferenze in mezzo mondo. Attualmente, è professore aggiunto al Pacifica Graduate Institute, California, e co-fondatore dell’associazione The Emergency Network.

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sabato 18 marzo 2023

Il corpo nero - Anna Maria Gehnyei

 All’inizio del libro Anna Maria è una bambina, figlia di genitori africani (che sono arrivati dalla Liberia, con l’aereo, non con il barcone).

È una bambina amata, ha una famiglia che la ama e cresce contenta come capita ai bambini fortunati.

Intanto scopre che abita in un posto sbagliato, secondo alcuni, nonostante l’articolo 3 della Costituzione italiana, in troppi le fanno capire che la sua casa è l’Africa, in Italia dovrà sudare per trovare uno spazio.

Anna Maria è nata a Roma, ma non è italiana, secondo le leggi (ingiuste) della penisola, finché non diventerà adulta e passerà un “esame”.

E l’Africa non l’ha mai vista, solo nei racconti dei genitori.

Intanto cresce, va a scuola, ha delle amiche e degli amici, si trova a combattere un razzismo strisciante, ma non solo.

E poi trova una sua strada, diventa una musicista (in arte Karima 2G), e riesce a vedere l’Africa, al paese del padre sembra che l’aspettino da una vita.

Il libro merita di essere letto, vi farà conoscere la storia di Anna Maria, che racconta la sua vita (anche le umilianti e offensive file in questura per il rinnovo del permesso di soggiorno), ma non si piange addosso, trova la forza per occupare il suo posto nel mondo, in un Italia che non sa accogliere.

Intanto potete ascoltare la sua musica qui:

 

Per molto tempo ho trovato insopportabile il fatto di non essere italiana anche in via ufficiale, sentivo di non poetr più andare in giro bollata solo da un codice, in attesa di avere un permesso di soggiorno o la cittadinanza, né italiana né liberiana. Per anni sono stata un numero di pratica, ma quel numero non ero io, anche se finivo per identificarmici. Ricordo le file interminabili davanti all’ufficio Immigrazione. Avevo due anni quando una, se non due volte l’anno dovevo andare in questura a rinnovare il permesso di soggiorno. In braccio alla mamma o al papà, aspettavamo il nostro turno. Ricordo tutte le volte in cui la maestra delle elementari entrava in classe dicendo che << i figli di immigrati non arrivano lontani nella vita. Sono incapaci di studiare in quanto figli di immigrati>>. Il suo buongiorno era: <<L’Italia è degli italiani>> e non <<degli immigrati che si sentono italiani>>. Per alcuni sono troppo nera per parlare egregiamente l’italiano, per altri sono troppo nera per essere istruita. Ciononostante partecipo alla vita politica e sociale di questo Paese. Un luogo, l’Italia, in cui il corpo nero è senza anima, un oggetto da non valorizzare o una pratica dimenticata tra gli scaffali della prefettura. Tra questi corpi sospesi vi sono bambini, ragazzi ormai divenuti adulti, scrittori, atleti e intellettuali, tutte e tutti parte del cambiamento per un futuro migliore. Sono anche loro figli dell’Italia che mira al successo e al progresso.

Anna Maria Gehnyei, nota con il nome di Karima 2g, è cantante, danzatrice, e producer italiana di origine liberiana. La sua carriera artistica inizia come danzatrice ma presto diventa vocalist professionista dalle consolle delle maggiori discoteche italiane. Nel 2014 esordisce come solista e i video dei primi due singoli, Orangutan e Bunga Bunga, provocano reazioni in pubblico e critica dalle riviste musicali passando per il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano e Vogue. Grazie al suo percorso artistico, la John Cabot University le riconosce una borsa di studio internazionale, e nel 2020 si plurilaurea in Communications e Political Science. Nel 2022 debutta con il suo primo spettacolo teatrale If There Is No Sun, di cui è anche autrice. Il corpo nero è il suo primo romanzo.

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Alessandro Barbero - Un presente senza Storia. La Storia può essere ancora maestra?

 

venerdì 17 marzo 2023

Il Consiglio dei Ministri del 16 marzo ha gettato la maschera. Ed è apparso il vero volto di Maja - Paolo Maddalena

 

Mentre l’affermazione del sistema economico predatorio neoliberista, che pone tutte le ricchezze nelle mani di privati, evitando di porre fuori commercio quei beni di preminente interesse generale, necessari per soddisfare i bisogni e i diritti fondamentali del Popolo, sta dimostrando la sua incapacità a mantenere la stabilità dei mercati, come provano i crolli bancari a catena che partono dalla Silicon Valley statunitense per arrivare a destabilizzare le banche europee e in particolare la Credit Swisse svizzera, il governo Meloni, a occhi bendati, va avanti nell’attuazione di questo malefico e distruttivo sistema economico, apertamente in contrasto con gli interessi dell’intero Popolo.

 

Infatti nell’importante Consiglio dei Ministri di ieri si è dato il via libera all’attuazione completa della flat tax per tutti, con una forte riduzione del prelievo fiscale, ma senza indicare con quali siano i mezzi finanziari per farvi fronte.

 

Si è deliberato inoltre di dare via libera al mostruoso Ponte di Messina che comporta danni incalcolabili all’ambiente, nonché alla flora e alla fauna marina, molto densa in quello Stretto.

 

E infine si è dato via libera all’Autonomia differenziata che distrugge in pratica l’eguaglianza economica, sociale e politica dello Stato italiano.

 

La presentazione di questi tre passi falsi è stata effettuata con argomenti che danno l’idea di una fiera della menzogna, e soprattutto senza tenere in minimo conto le gravissime violazioni degli intoccabili principi e diritti fondamentali della Costituzione, che vengono violati in tutte e tre le menzionate materie.

 

Per quanto riguarda la flat tax, la violazione riguarda decisamente il criterio della progressività del sistema tributario, sancito dall’articolo 53 Cost., nonché l’altro principio fondamentale, secondo il quale la previsione di nuove e maggiori spese (nel caso derivanti dall’attuazione della flat tax) deve indicare i mezzi per farvi fronte (art. 81 Cost.).

 

Per quanto riguarda il Ponte di Messina, come risulta da un numero incalcolabile di perizie tecniche, si tratta di un’opera che viola l’articolo 9 della Costituzione, principio fondamentale inderogabile, che tutela il paesaggio, il patrimonio storico artistico della nazione, la biodiversità, l’ecosistema e l’ambiente, nonché l’articolo 41 della Costituzione che tutela, contro l’iniziativa economica privata, l’ambiente e l’utilità sociale.

 

Ultima fortissima violazione della Costituzione è quella delle autonomie differenziate che hanno la loro origine nella incostituzionale abrogazione, da parte della legge numero 3 del 2001, di riforma del titolo V, dell’originario articolo 117 della Costituzione, secondo il quale : “la regione emana le sue leggi nei limiti fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, sempre che le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quelle di altre regioni”.  

 

Una violazione che trova preciso riscontro nel terzo comma dell’articolo 116 del riformato titolo V della Costituzione, secondo il quale: “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia…possono essere attribuite ad altre regioni con leggi dello Stato”.

 

Norme che violano la struttura stessa dello Stato-Comunità sancito in Costituzione. E in particolare l’articolo 1, secondo il quale: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al Popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, nonché l’articolo 5 Cost., secondo il quale: “la Repubblica è una e indivisibile”.

 

In sostanza quanto deciso nella citata seduta del Consiglio dei Ministri dimostra che questo governo agisce in contrasto con i principi e i diritti fondamentali dell’intero Popolo sovrano e contro, come già accennato, la struttura stessa dello Stato-Comunità.

 

È arrivato il momento in cui il Popolo deve far ricorso al suo diritto di resistenza contro i soprusi del governo, facendo ricorso, alla indizione, ai sensi dell’articolo 75 Cost., di un referendum popolare che abroghi gli atti legislativi, varati a seguito dell’ultimo Consiglio dei Ministri, appena verranno in essere, tenendo presente che è in gioco l’eguaglianza economica e sociale, di cui all’articolo 3 della Costituzione, e che questo governo sfacciatamente sposta sui più deboli gli oneri sociali che invece dovrebbero gravare, secondo il citato criterio della progressività, sulle classi più abbienti. 

da qui

Matteo Saudino sulla strage di Cutro e su De Andrè