lunedì 25 settembre 2023

Dall’istruzione alla formazione - Giacomo Tinelli

Una critica alla più recente riforma della scuola italiana.

 

Che della scuola si senta in diritto di parlare chiunque, da Diego Abatantuono a Claudio Santamaria, in una rassegna di non sequitur, petizioni di principio, luoghi comuni e idiosincrasie, è sintomo del grande rumore e diciamo pure dell’anomia dei nostri tempi. Che gli addetti ai lavori e i ministri avvicendatisi al governo, assieme con i settori dirigenziali del paese e del continente (le associazioni di categoria dell’industria e del commercio, i singoli imprenditori) ne parlino, di contro, in un quadro di mero senso comune, è il segno che una parte della società non è per nulla confusa, a riguardo. Quella tra saggi improvvisati ed élite di buon senso è in realtà una contrapposizione fittizia, che compone una diade complementare nella sua funzione discorsiva e politica. Se si osserva il quadro nel suo complesso, infatti, si vede bene come la funzione egemonica della società civile e di quelle voci che hanno un’autorevolezza socialmente riconosciuta (la competenza è un dettaglio irrilevante) preparino un consenso ideologico generalizzato verso la funzione direttiva della società politico-economica, le cui scelte hanno trasformato in senso neoliberista la scuola, il suo mandato sociale e l’originaria funzione democratico-costituzionale. 

La scuola di oggi ha dismesso gli strumenti simbolici in grado di conferire un orizzonte civile e politico al senso di un’istruzione di massa.

La scuola di oggi ha dismesso gli strumenti simbolici in grado di conferire un orizzonte civile e politico al senso di un’istruzione di massa, al significato collettivo che l’emancipazione educativa assumeva per chi in passato accedeva alla scuola dopo secoli nei quali l’educazione era riservata a un’élite. L’intera responsabilità educativa (anche e soprattutto nei suoi tratti disfunzionali) è oggi ridotta ideologicamente a responsabilità individuale del singolo studente: la recente scelta di affiancare al termine istruzione la parola merito non è che l’ultimo epifenomeno di un processo ideologico di lungo corso, che da ormai diversi anni inquina il dibattito pubblico (M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019). 

Secondo questa prospettiva, il principale problema della scuola è da collocarsi nell’orizzonte della formazione anziché in quello dell’educazione o dell’istruzione – si tenga a mente questo scivolamento semantico per nulla secondario, ancorché spesso inavvertito –, ed è sinteticamente riassunto da un anglicismo: mismatch tra formazione e mondo economico, disallineamento tra offerta di competenze tecniche acquisite dalla manodopera e necessità di forza lavoro del sistema produttivo e commerciale. Una circostanza della quale, naturalmente, è sempre e solo la scuola, e in particolare la secondaria di secondo grado (la scuola superiore), a doversi fare carico, poiché è il luogo formativo nel quale si cerca di fare fronte al rapido cambiamento delle competenze tecniche richieste dal settore economico dell’industria e dei servizi. A sentire l’apparato dirigente, il “naturale” sviluppo delle scuole, e in particolare delle scuole tecniche e professionali, dovrebbe dare risposta a questa domanda di innovazione e divenire, senza troppi mezzi termini, un grande corso di formazione. Il processo è già in corso, sebbene la rapidità dei cambiamenti non consenta alla scuola, pachiderma dal provvidenziale ventre molle, di tenere dietro alle richieste dell’ultima innovazione tecnologica. Meglio così, anche se si tratta di una tendenza destinata a logorare gli effetti democratici dell’istruzione di massa. Il vero sogno proibito della classe imprenditoriale europea non è una scuola che educhi ma, secondo la distinzione deweyana, che addestri. Vediamo in che senso.

A sentire l’apparato dirigente, il ‘naturale’ sviluppo delle scuole, e in particolare delle scuole tecniche e professionali, dovrebbe dare risposta alla domanda di innovazione e divenire un grande corso di formazione.

La riforma più recente degli istituti superiori (tracciata dal decreto legislativo n.61, del 13 aprile 2017 e seguenti atti normativi) riguarda le scuole professionali, che, come è noto, raccolgono le iscrizioni degli studenti più deboli dal punto di vista della capacità di concentrazione e di astrazione, spesso appartenenti agli strati sociali più svantaggiati. Proprio per questo gli interventi legislativi e le trasformazioni dell’assetto istituzionale e didattico dei professionali sono un indice particolarmente sensibile di cosa si chiede alla scuola, in termini di obiettivi sociali e civili. È di particolare interesse la lettura delle Linee guida del passaggio al nuovo istituto professionale, lo strumento operativo per chi deve implementare la riforma, dalla quale – limato il gergo pedagogico, ridotto ormai a un espediente eufemistico-burocratico per intorbidire le acque – si trae l’impressione complessiva di un violento classismo, mascherato da un confuso zelo pedagogico paternalista. Il primo obiettivo, candidamente dichiarato, è infatti rafforzare la distanza, e sin dal primo biennio, tra gli istituti professionali e le scuole tecniche, conciliando invece i primi con l’IeFP (cioè con gli Istituti di istruzione e formazione professionale, di durata triennale e di competenza regionale), cosicché siano più agevoli i passaggi degli studenti verso la formazione professionale, nell’ambito della quale gli aspetti di istruzione sono ridotti ai minimi termini. Come a dire: scaviamo una trincea tra chi, a tredici anni, sceglie che il suo futuro sarà quello di cameriere (pardon: operatore del settore dell’accoglienza e del turismo) e chi invece diventerà un quadro tecnico di qualche settore industriale; al limite si può consentire un riorientamento al ribasso, per cui il futuro cameriere può scegliere, attraverso la qualifica professionale regionale, di semplificarsi la vita levandosi dai piedi gli impacci istruttivi. A che pro, del resto, un futuro cuoco dovrebbe confrontarsi con le paturnie linguistiche di Dante o con l’astrazione matematica? E allora, perché ostacolarne il successo formativo con i vecchi cascami scolastici? Perché insistere sulle leggi della fisica quando possiamo avere un buon operaio meccanico o tessile?

Dalla riforma si trae l’impressione complessiva di un violento classismo, mascherato da un confuso zelo pedagogico paternalista.

Un’altra raccomandazione delle linee guida, quasi ossessiva, è l’attenzione alla “vocazione del territorio”, parafrasabile senza troppe perdite semantiche con la forza lavoro necessaria alle aziende del distretto territoriale dell’istituto, la cui attività didattico-formativa, del resto, viene inquadrata attraverso i codici ATECO che rimandano all’ambito di produzione, al pari di qualsiasi altra attività economica, in modo da rendere chiara la spendibilità di chi completa il ciclo di istruzione e favorirne il fantomatico match. Pertanto, ciascun istituto avrà facoltà di manovra nella distribuzione delle ore disciplinari, che potranno essere articolate secondo le esigenze “territoriali”, in armonia con ciò che la Regione di appartenenza indica quanto a necessità di figure professionali. Ciò ha anzitutto una diretta conseguenza didattica: è possibile, ad esempio, abolire l’ora di storia nella prima classe (una sola: la stessa riforma riduce le ore di storia da due a una) per redistribuirla verso altre discipline, percepite come “più utili” alla formazione professionalizzante. Una seconda conseguenza, più generale e sistemica, è che gli istituti sono spinti non solo a collaborare con le Regioni, presso le quali tra l’altro possono accreditarsi come certificatori di percorsi regionali di formazione professionale (vale a dire che uno studente può fermarsi al terzo anno e ottenere la qualifica regionale come se avesse frequentato l’IeFP), ma soprattutto a seguirne indicazioni rispetto agli obiettivi finali e allo sviluppo o al rafforzamento di questo o quell’indirizzo. Le Regioni assumono dunque un ruolo di orientamento inedito in ambito di istruzione: un dettaglio non secondario in un momento storico in cui i tempi sembrano maturi per la regionalizzazione dell’istruzione, di fatto già parzialmente avviata per quanto riguarda gli istituti professionali.

C’è però un’ulteriore indicazione che a mio avviso rivela in modo chiaro, ancorché complicato dalla macchinosità del congegno burocratico, la logica profonda di questa riforma, che attraverso l’alibi pseudo-progressista del successo formativo intende introdurre una consequenzialità naturale tra la scelta di una scuola professionale e la quieta accettazione del ruolo subordinato di manodopera nella società. Mi riferisco alla programmazione per unità di apprendimento (UDA). Funziona così: vengono definite dodici competenze di area generale (ossia di quelle materie che pertengono all’istruzione: lingua e letteratura italiana, storia, inglese eccetera) e dodici professionalizzanti, specifiche per ciascun indirizzo. Esse sono stabilite dal ministero secondo indicazioni europee e rappresentano l’orizzonte di obiettivi che ciascuno studente deve raggiungere al termine del percorso di istruzione. La programmazione didattica di ciascuna materia (ossia il lavoro di progettazione degli insegnanti) dovrà essere organizzata in coerenza con tali competenze finali, in un percorso che va strutturato a partire dalla conclusione. 

La riforma, attraverso l’alibi pseudo-progressista del successo ‘formativo’, introduce una consequenzialità tra la scelta di una scuola professionale e la quieta accettazione del ruolo subordinato di manodopera nella società.

Si hanno, così, due fondamentali conseguenze. La prima appare tutto sommato condivisibile – benché solo a un primo livello teorico: si tratta dell’interdisciplinarità delle unità didattiche, che dovrebbero proporre dei pacchetti di insegnamento nei quali le diverse discipline si intreccino e offrano un’organizzazione della conoscenza che valorizzi le interrelazioni tra i saperi. Dunque se si affronta, ad esempio, il funzionamento meccanico di un tornio è possibile far convergere più argomenti di diverse discipline: la storia dell’industria meccanica, il testo regolativo, la comprensione di indicazioni d’uso in lingue straniere, le astrazioni matematiche e fisiche che ne regolano l’attività, e così via. È tutto così pedagogicamente bello… e così didatticamente irreale: la scuola è da lungo tempo sottofinanziata e non ha gli spazi, gli strumenti, le possibilità che tale organizzazione comporta; gli insegnanti, inoltre, non sono pronti per una simile impostazione didattica, che richiederebbe un’adeguata formazione e moltissime ore di progettazione comune, per le quali non è previsto alcun riconoscimento economico. D’altra parte in pochi anni di insegnamento si apprende rapidamente che ogni trasformazione metodologico-pedagogica – che quasi sempre fornisce l’occasione, guarda caso, di una diminuzione della spesa pubblica – ricade sul piano materiale dell’organizzazione del lavoro, nella pressoché totalità dei casi aggravandola.

Per comprendere la seconda conseguenza a proposito dell’organizzazione didattica secondo UDA occorre osservare più da vicino il contenuto delle competenze finali. Lo farò dal punto di vista di un’insegnante di materie umanistiche. Il documento che le riporta, nel complesso, fa a pezzi l’impianto storicistico-idealistico sul quale la scuola è stata fondata sin dalla sua comparsa come istituzione di massa. Il programma storico-diacronico è ridotto a pochi cenni, che fanno pudicamente riferimento alla “diffusione della specie umana nel pianeta”, alle “civiltà antiche e alto-medievali” e alle “Principali persistenze e processi di trasformazione tra il secolo XI e il secolo XXI in Italia, in Europa e nel Mondo”. Fine. Per il resto, nell’ambito dell’asse culturale storico-sociale, è tutto un fiorire di anacronismi (cui l’editoria scolastica ha prontamente dato seguito, infarcendo i testi di attualizzazioni ardite e discutibili), ristretti, tra l’altro, al campo professionale e territoriale cui pertiene la scuola: “Innovazioni scientifiche e tecnologiche e relativo impatto sui settori produttivi sui servizi e sulle condizioni economiche”; “Problematiche economiche, sociali ed etiche connesse con il settore produttivo e i servizi in cui si opera”; “Aspetti caratteristici del patrimonio ambientale e urbanistico e i principali monumenti storico-artistici del proprio territorio”. 

Ancor più che la storia in sé, tuttavia, è la storia della letteratura che appare violentemente decurtata, laddove invece si insiste molto sui caratteri sincronici della lingua e della letteratura (in particolare della narrativa). Al di là del merito dei problemi posti dall’insegnamento della letteratura incardinato a un’impostazione storica (a proposito del quale il dibattito è complesso e per nulla scontato – si veda, per esempio, la discussione che segue questo articolo), è necessario interrogarsi sulle ragioni profonde di una sparizione per molti versi eclatante, visto che la storia della letteratura e delle forme letterarie, nel dettato desanctisiano e postunitario aggiornato al Novecento, rappresenta l’impianto ideologico che ha guidato alla conoscenza delle lettere milioni di studenti negli scorsi decenni. Un’urgenza che appare tanto più evidente in quanto nelle altre scuole la storia della letteratura non scompare affatto, ed è anzi ancora rintracciabile nelle linee guida per i tecnici e nelle indicazioni nazionali dei licei

Ogni trasformazione metodologico-pedagogica – che quasi sempre fornisce l’occasione, guarda caso, di una diminuzione della spesa pubblica – ricade sul piano materiale dell’organizzazione del lavoro, nella pressoché totalità dei casi aggravandola.

Nella celebre introduzione al Secolo breve, lo storico britannico Eric Hosbawm scrive: “La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella della generazioni precedenti è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono”. In questo eterno tempo presente, che nei primi decenni del nuovo millennio non ha fatto che rafforzare il proprio isolamento, le innovazioni formali della poesia di Leopardi o l’importanza dei Promessi sposi nella storia del romanzo italiano non hanno più senso di essere studiate da chi è destinato al lavoro manuale. Semmai, gli autori del canone andranno compendiati e semplificati nei loro aspetti biografici o nelle loro opere più famose e spendibili, sempre e solo come elementi di conoscenza che possano essere messi a valore nelle professioni per le quali ci si prepara.

C’è da temere, perciò, che la citata interdisciplinarità sia da interpretare non tanto come tentativo di insegnare a osservare la realtà in modo complesso e stratificato, quanto piuttosto come espediente per addestrare a mettere a frutto le conoscenze in un mercato che invade ogni ambito della vita e che sempre di più richiede un supplemento immaginario per rivalutare i prodotti in vendita. Così, nell’insegnare a un alberghiero, ho assistito a diverse cene pirandelliane o ad aperitivi futuristi; ho visto redigere alcuni menu che riportavano le “penne alla Pascoli” o le “fettuccine a Silvia”. Conoscenze disarticolate, curiosità, che confluiscono in uno storytelling giocoso e promozionale, tutto orientato a un’idea di vendita che al prodotto o al servizio fornisce il valore aggiunto di una creatività narrativa semplice e ripetitiva, che affabuli l’interlocutore-cliente. In effetti, nello stesso professionale alberghiero, durante un collegio docenti, la dirigente scolastica (ex professoressa di lingua e letteratura italiana) disse sardonicamente che non capiva perché noi insegnanti di italiano continuassimo a incaponirci con la storia della letteratura, visto che “gli studenti non la comprendono” poiché “non ne intendono il fine”. Avremmo dovuto, invece, puntare molto di più sulla narratologia e sulla lingua (cioè sul programma del biennio iniziale), poiché, quello sì, stimola gli studenti e può essere utile alla loro futura professione di venditori di esperienze. Lo strutturalismo semplificato, il formalismo smart trionfano sulla pesantezza della macchina storicistica. Ho menzionato l’ambito alberghiero da un lato per esperienza personale, dall’altro perché mi pare un settore su cui il nostro paese ha puntato, decisamente e sciaguratamente – vista la miseria salariale e la devastazione dell’ambiente e delle città che provoca. D’altra parte sono evidenti le difficoltà nell’applicazione di un simile modello in un settore che esuli il campo commerciale. Lascio al lettore il compito di immaginare come possa realizzarsi un simile progetto in un professionale meccanico oppure odontotecnico. 

Si sta tornando a un’idea di istruzione precedente alla riforma del 1963, cioè a un’era in cui la scuola concepiva se stessa come un organo di riproduzione sociale, che divide brutalmente chi può studiare e chi deve zappare.

Nel film La scuola (Daniele Luchetti, 1995), il grottesco professore di francese Mortillaro ripete continuamente un leitmotiv reazionario: “c’è chi è nato per zappare e c’è chi è nato per studiare.” Quella scuola cinica e dispotica per fortuna non esiste più, ed è per questo che la comicità caricaturale del personaggio è tanto esilarante: il suo pontificare delirante ritorna da un passato ormai sepolto, sotto forma di smorfia. Eppure ho l’impressione che, nel silenzio generale – o forse si tratta di tacita approvazione? –, si stia rapidamente tornando a un’idea di istruzione precedente alla riforma della scuola media unica del 1963, cioè a un’era in cui di fatto la scuola concepiva se stessa come un organo di riproduzione sociale, che divide brutalmente tra chi può studiare e chi deve zappare. La riforma che ho tentato di mettere a critica traccia, dissimulato dal gergo mellifluo, un solco feroce tra due società dai caratteri incommensurabili, che non si incroceranno mai: chi deve studiare incontrerà la scuola, con le sue richieste mnemoniche o di astrazione – certo, talvolta assurde o inattuali –; chi invece è destinato al lavoro incontrerà la formazione, l’alternanza scuola-lavoro e i pacchetti culturali di sapere commerciabile. Dietro l’alibi dell’inclusività vi è in realtà un’inaccettabile rinuncia all’aspirazione, eticamente alta e politicamente importante, di fornire un’istruzione comune a tutti e tutte, anche a coloro che hanno scelto una scuola orientata al lavoro. Istruzione comune che, oltre a fornire un terreno di identificazione collettivo (che in qualche modo crea un, pur problematico, legante sociale) è altresì il luogo a partire dal quale sono attinti gli strumenti di autonomia e consapevolezza per orientarsi nei problemi del presente. Includere Sayef o Luca, iscritti al professionale sulla base di una scelta spesso dettata da condizionamenti o addirittura necessità sociali, non può voler dire incasellarli in un ruolo di manovalanza come se fosse l’unico possibile per loro, come se ne fossero costretti dal fato. O almeno, non può essere questo l’obiettivo di una scuola che si dica libera e democratica. Ammesso che ancora la scuola voglia ancora definirsi tale.

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domenica 24 settembre 2023

Lontano dagli occhi del mondo, in Cisgiordania è in corso un incredibile trasferimento di popolazione - Gideon Levy e Alex Levac

 

Terrorizzati dai coloni, i pastori palestinesi in Cisgiordania sono costretti a lasciare i villaggi in cui vivono da decenni. La scorsa settimana è stata la volta di Al-Baqa’a

Tutto ciò che rimane nella valle è terra nera e bruciata, un ricordo di quello che fino alla scorsa settimana era un luogo di abitazione umana. C’è anche un recinto per le pecore, che i residenti cacciati hanno lasciato come ricordo o forse anche nella speranza di giorni migliori, quando potranno tornare alla loro terra, una prospettiva che al momento sembra davvero molto lontana.

Di fronte al terreno annerito si profilano due tende che preannunciano il problema, insieme a un furgone e a un trattore, tutti appartenenti ai signori della terra: i coloni che hanno invaso questa comunità di pastori e hanno terrorizzato i suoi abitanti giorno e notte fino a quando, venerdì scorso, l’ultima delle famiglie, che viveva qui da più di 40 anni, è partita verso il deserto per trovare un nuovo luogo di abitazione. Non potevano più sopportare gli attacchi e le incursioni dei coloni e il loro sfacciato pascolare le greggi sulla terra dei palestinesi, le intimidazioni ai figli dei pastori, le minacce, i furti e le aggressioni. Anche la vantata sumud (fermezza) dei palestinesi ha i suoi limiti.

Una comunità dopo l’altra di pastori beduini, la popolazione più debole e indifesa della Cisgiordania, sta abbandonando la terra che abita da decenni, non riuscendo più a sopportare la violenza dei coloni, che negli ultimi mesi ha subito un’impennata. Lontano dagli occhi degli israeliani e della comunità internazionale, è in corso un incredibile trasferimento sistematico di popolazione: di fatto la pulizia etnica di vaste aree nelle Colline a Sud di Hebron, nella Valle del Giordano e ora anche di aree nel cuore della Cisgiordania.

A luglio abbiamo assistito alla partenza della famiglia Abu Awwad dal proprio villaggio, Khirbet Widady, dopo essere stata costretta ad andarsene a causa delle tattiche intimidatorie dei coloni di Havat Meitarim. Un mese prima, abbiamo accompagnato 200 membri di famiglie che vivevano a Ein Samia e che hanno dovuto fuggire per salvarsi la vita a causa delle violente vessazioni dei coloni degli avamposti non autorizzati vicino all’insediamento di Kochav Hashahar.

Questa settimana siamo arrivati ad Al-Baqa’a, una distesa arida ai piedi delle montagne desertiche che si affacciano sulla Valle del Giordano. I circa 60 membri di questa comunità sono stati costretti a lasciarsi alle spalle la terra su cui hanno vissuto per circa 40 anni, e con essa a lasciare i loro ricordi, prima di disperdersi nel paesaggio desertico. L’appropriazione da parte dei coloni non solo priva le persone delle loro proprietà, ma distrugge anche comunità abituate a vivere insieme per generazioni.

La terra – che in questo caso è proprietà dei residenti del villaggio palestinese di Deir Dibwan – è rocciosa, arida e praticamente inaccessibile. La pulizia etnica in quest’area continua senza sosta. Terra senza arabi, la più “pura” possibile: una condizione che si raggiunge più facilmente quando sono coinvolte comunità di pastori beduini.

Incontriamo il capo della comunità di Al-Baqa’a, Mohammed Melihat, 59 anni, nel nuovo sito in cui i suoi due figli hanno stabilito la loro casa, a circa cinque chilometri a sud di dove vivevano un tempo, in mezzo al nulla.

I due figli hanno piantato qui cinque tende a brandelli. Un cane e un gallo si riparano sotto il contenitore dell’acqua, cercando di sopravvivere al caldo estivo. I membri della famiglia allargata si sono trasferiti qui il 7 luglio; nel tempo trascorso da allora hanno ricevuto tre ordini di sfratto dall’Amministrazione Civile del governo militare. Il termine ultimo per andarsene è il 20 settembre.

Melihat ha sei figli e una figlia; due dei figli, Ismail, 23 anni, e suo fratello maggiore, Ali, 28, si sono trasferiti qui con le loro famiglie. Il padre alloggia da un amico nel villaggio di Ramun, a nord di Al-Baqa’a, ma sta aiutando i figli a stabilire il loro nuovo “avamposto” su un terreno privato ricevuto dagli abitanti di Deir Dibwan. Del gregge originario della famiglia, composto da 600 pecore, ne rimangono solo 150.

Al-Baqa’a era la loro dimora dal 1980. Le 25 famiglie iniziali che vi si erano insediate si erano gradualmente disperse in seguito agli ordini di demolizione emessi dalle autorità israeliane e alla violenza esercitata dai coloni israeliani. Negli ultimi anni sono rimaste solo 12 famiglie, tra cui 30 bambini, e anche loro hanno iniziato a disperdersi in vari modi. Solo i Melihat sono finiti nel nuovo sito che stiamo visitando.

È impossibile immaginare che un essere umano possa vivere in questa regione inospitale, montagnosa e arida, senza acqua corrente o elettricità, senza strade di accesso, scuole o cliniche in vista. In un Paese gestito correttamente, quest’area diventerebbe un patrimonio culturale: “Ecco come vivevano i pastori secoli fa”. Le scolaresche verrebbero portate qui per vedere questa meraviglia. Ma in Israele è solo un altro bersaglio dell’avidità dei coloni e della loro insaziabile brama di proprietà immobiliari.

La cosa peggiore è che queste persone non hanno alcuna protezione contro i loro oppressori. Nulla. Né dalla polizia, né dall’esercito, né dall’Amministrazione Civile, né dall’Autorità Palestinese. Con la loro vita e le loro proprietà in bilico, sono stati costretti a cedere, ad arrendersi e ad abbandonare la loro casa. Completamente indifesa, la famiglia Melihat non ha avuto altra scelta che seguire l’esempio di altre famiglie.

Dal 2000, la vita ad Al-Baqa’a è diventata impossibile. I coloni, apparentemente sostenuti dai soldati e talvolta anche con la loro partecipazione attiva, hanno reso la vita dei palestinesi un continuo tormento. Venivano lanciati gas lacrimogeni e granate stordenti nelle tende, venivano rubati abbeveratoi e pecore. All’inizio, i predoni provenivano dall’avamposto di Mitzpeh Hagit, guidato da un colono di nome Gil. Secondo Mohammed, l’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite OCHA ha documentato tutto. Mentre parliamo con lui durante la nostra visita di questa settimana, arriva Patrick Kingsley, il capo ufficio del New York Times per Israele e i Territori Occupati. Lui e il suo giornale sono molto più interessati alla sorte della popolazione di qui rispetto alla maggior parte dei media israeliani.

Nel settembre 2019, un colono israeliano di nome Neria Ben Pazi ha invaso un’area vicino a Ramun, dopo di che i problemi dei residenti della zona sono diventati ancora più gravi. Qualche mese prima, Ben Pazi aveva iniziato a far pascolare le sue pecore su terreni di proprietà beduina. È stato allontanato due volte dall’Amministrazione Civile, ma è tornato ogni volta poche ore dopo, grazie a quello che può essere interpretato come il tacito consenso e l’inazione delle autorità israeliane. La situazione era ormai compromessa.

Secondo il rabbino Arik Ascherman, direttore dell’ONG Torat Tzedek (Legge di Giustizia) che negli ultimi mesi ha passato molti giorni e notti a proteggere i residenti di Al-Baqa’a dalla violenza dei coloni, Ben Pazi è il “campione” degli avamposti dei coloni. Ne ha già fondati quattro; alcuni dei suoi figli vivono con lui.

I coloni hanno iniziato a rubare ai pastori beni e attrezzature agricole, compresi i pezzi di ricambio per i trattori. All’inizio, dice Ascherman, erano cauti, ma dopo l’avvento dell’attuale governo hanno abbandonato ogni ritegno e la violenza è diventata più brutale. I residenti locali hanno chiesto la protezione dell’Amministrazione Civile e uno dei suoi rappresentanti, il “capitano Fares”, ha detto loro di tenersi in contatto in caso di problemi. Non è passato quasi un giorno senza problemi, ma era inutile anche solo pensare di presentare reclami.

Negli ultimi mesi le azioni dei coloni contro i poveri pastori beduini sono state documentate da Iyad Hadad, ricercatore sul campo dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem. I coloni hanno impedito alle autobotti dei pastori di raggiungere la comunità e hanno portato le proprie greggi per bere agli abbeveratoi dei beduini. In un caso hanno anche bruciato una tenda. Il risultato: circa 400 ettari di terra sono stati svuotati di palestinesi e sequestrati dagli avamposti.

Il 10 luglio, la maggior parte delle famiglie ha lasciato Al-Baqa’a e solo due sono rimaste. In breve tempo una di esse, la famiglia di Mustafa Arara, se n’è andata dopo che il figlio di 7 anni è stato ferito da un colono. La seconda famiglia, quella di Musa Arara, se n’è andata una settimana dopo, dopo che tutti e 13 i loro abbeveratoi erano scomparsi; Ascherman ha visto i contenitori trasportati da un trattore dei coloni.

La famiglia di Musa si è trasferita per il momento nella zona del Wadi Qelt, che nasce vicino a Gerusalemme e sfocia nel Mar Morto; Mustafa e la sua famiglia si sono trasferiti nella zona di Jab’a, nella Cisgiordania centrale. Altre tre famiglie vivono nei pressi di Taibe, a nord-est di Gerusalemme. Il tessuto stesso della loro vita familiare, culturale e sociale è stato fatto a pezzi.

Dove andremo? La domanda di Mohammed Melihat viene inghiottita dalla vastità del deserto. “Se vengono a demolire anche qui, dove potrò andare?”, chiede ancora, inutilmente. I suoi antenati della tribù dei Kaabneh – che Israele ha sfrattato dalle colline meridionali di Hebron nel 1948 e la cui terra è diventata parte dello Stato di Israele – si sono posti la stessa domanda.

“Immaginate cosa significhi”, dice Melihat, “lasciare un villaggio in cui si è vissuta la maggior parte della propria vita e dove sono nati i propri figli”.

 

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

 

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sabato 23 settembre 2023

Perché Khaled fa paura a Israele

 

Pasquale Liguori intervista Luigi Daniele

 

Cittadino italiano e palestinese, Khaled el Qaisi, studente di Lingue e Civiltà Orientali all’università la Sapienza di Roma e traduttore di testi preziosi come quelli di Ghassan Kanafani, è rinchiuso in un carcere israeliano. Fino ad oggi nessuna autorità ne ha spiegato le ragioni. Al termine di una vacanza in Palestina con la famiglia, il 31 agosto, Khaled è stato improvvisamente ammanettato, davanti alla moglie e al bambino, mentre attraversava il valico di Allenby, tra Cisgiordania e Giordania, prima di rientrare in Italia. Sappiamo solo che tre udienze ne hanno prorogato la detenzione “cautelativa”. Il silenzio delle autorità politiche italiane sulla sua detenzione è sconcertante. Nei giorni scorsi, a conclusione di un’assemblea all’università romana, i familiari – insieme con il legale italiano incaricato di rappresentarli – hanno promosso la costituzione di un comitato per la sua liberazione. A partire dal rischio paventato dal legale della famiglia el Qaisi – lo “slittamento” del procedimento da un piano penale, che presume un’imputazione, con diritto alla difesa legale, a un piano di detenzione amministrativa (un “mostro” giuridico in uno stato di diritto, che in Italia è ben noto perché abitualmente utilizzato nella guerra contro i migranti) – Pasquale Liguori ha intervistato sul caso di Khaled, Luigi Daniele, Senior Lecturer in Diritto dei Conflitti Armati e Diritto Internazionale Penale presso la Nottingham Trent University in Inghilterra. Ne è nata un’ampia e straordinaria disamina che mette in luce l’intero torvo profilo, ma anche molti degli aspetti meno noti, della giustizia militare di quella che gran parte dei media e degli esponenti politici italiani si ostina a chiamare la sola democrazia del Medio Oriente. Si tratta di un sistema abietto che, spiega Luigi Daniele, sul piano giuridico rappresenta il medioevo, il pre-moderno in tutta la sua violenza. Anche per questo, per esser riuscito – suo malgrado – ad aprire uno spiraglio di luce sul complice silenzio che avvolge quel sistema (anche giuridico) di apartheid, dobbiamo ringraziare Khaled el Qaisi. E dobbiamo pretendere che ci venga restituito domani, che venga sottratto all’arbitrio di chi l’ha gettato in un carcere. Proprio come accade ogni giorno a fiumi di altre persone che Israele considera, oltre che meritevoli di soprusi e umiliazioni, ostili e pericolose. Perché forse quel che Israele teme più di ogni altra cosa è la verità.

Sono trascorse quasi tre settimane da quando la luce del giorno si è dissolta nel buio di una tetra galera israeliana. Khaled el Qaisi, palestinese e cittadino italiano, è da allora detenuto in un carcere di sicurezza nei pressi di Tel Aviv e non ci è dato sapere per quale motivo.

Strappato alla famiglia dopo ruvidi controlli alla frontiera che separa Territori Occupati e Giordania mentre rientrava a Roma al termine di una vacanza nei luoghi di origine, si sa soltanto che il malcapitato studente di Lingue e Civiltà Orientali all’università della Sapienza è in stato di isolamento con scarsa, quasi nulla possibilità di accesso al supporto di un legale del luogo.

Dal momento del suo arresto, el Qaisi è stato sottoposto a udienze farsa, atte solo a prolungare il suo stato di detenzione. Motivazioni, appunto, non pervenute.

Di fronte a quello che ha tutti i contorni di un palese, ennesimo uso arbitrario sia di forza che di strumenti giudiziari da parte di Israele, neanche un minimo riferimento alla vicenda è stato proposto dai principali notiziari televisivi e radiofonici nostrani. Fatta salva qualche lodevole eccezione, rari sono stati e prevalentemente striminziti, inesatti o tendenziosi i pavidi interventi pubblicati dalla carta stampata. A ciò si aggiungono le sparute istanze parlamentari emerse in dibattiti d’aula o di commissione con loro esiti impercettibili e un vigore pari a quello dell’isolata particella di sodio nella nota acqua minerale.  

Soprattutto, nemmeno un cenno, una timida dichiarazione pubblica da parte della patriota Meloni e del competente, per mansione, ministro Tajani.

Dopo la recente vicenda Zaki, uno sarebbe indotto a immaginare autorità italiane scaltrite, più reattive nella difesa di tutele e diritti delle vittime di metodi criminali, soprusi, e torture messi in atto da parte di regimi esteri. Sussistono, per il caso el Qaisi, aree di sovrapposizione e apparente somiglianza con quegli accadimenti, tranne per il fatto che Khaled è sequestrato da quella che i potenti d’Occidente celebrano quale esemplare e unica democrazia del Medio Oriente. Oltretutto, diciamolo, per gli etno-sovranisti di casa nostra Khaled el Qaisi è in qualche modo portatore di una fastidiosa anomalia: è sì di madre e cittadinanza italiane, ma resta pur sempre palestinese. Per l’alleato Israele, dunque, pregiudizialmente potenziale terrorista. A tal punto terrorista da insanguinare strade e piazze del mondo diffondendo, anche mediante l’attività del Centro di documentazione da lui stesso fondato, quelle pagine meravigliose di cultura del suo Paese di origine. Uno dei suoi peggiori attentati? Aver analizzato, tradotto e curato opere mirabili come quelle di Ghassan Kanafani. Già! Tipiche, inoppugnabili prove che tracciano l’identikit di un carnefice.

Non si fa fatica a supporre che, per lui, fascismi di vario calibro e tono non si asterrebbero da decisioni repressive con tanto di chiavi della segreta da buttare via.

In una folta assemblea all’Università della Sapienza, i suoi familiari insieme con il legale italiano incaricato di rappresentarli hanno promosso la costituzione di un comitato per la liberazione dell’italo-palestinese. Consapevoli della difficoltà relazionale con l’arrogante e pervicace controparte israeliana, si è scelta una strada di civica sollecitazione volta a favorire l’esito auspicato di una rapida scarcerazione di Khaled.

Non può esser, però, taciuto il tattico, assordante, omertoso silenzio circa i misfatti del regime di occupazione israeliano al quale, anche in questa occasione, è stata rinnovata l’offerta-zerbino della subalternità psicopolitica e mediatica. Un nostro connazionale è detenuto senza che gli siano stati contestati specifici capi d’accusa, tratto in arresto da forze militari che indebitamente occupano un territorio da tanti, troppi decenni con crimini, illeciti e violazioni di ogni genere a carico di migliaia e migliaia di prigionieri solo perché palestinesi. La cosa è di tale portata che non può scivolar via senza interessare profondamente le coscienze di chi abbia a cuore valori universali di garantismo e giustizia. Né può tale circostanza di lotta e sensibilizzazione essere di pertinenza dei soli addetti ai lavori, esperti e intellettuali che sostengono la via all’autodeterminazione palestinese in uno scenario di pace e giustizia le cui proposte sono però spesso paralizzate da divisioni e protagonismi delle varie anime che compongono il variegato panorama dell’attivismo filopalestinese in Italia. Un cambio di passo, anche generazionale, potrebbe forse offrire l’approdo a più efficaci istanze a sostegno dei palestinesi e del ritorno alla loro terra, in un proprio Stato.

Tra circa un mese, Meloni e una nutrita delegazione di suoi ministri saranno ospitati da un’omologa compagine israeliana in un vertice intergovernativo finalizzato a consolidare accordi strategici, economici, militari e politici tra le parti. Attorno a quel tavolo siederanno non pochi fascisti, oltranzisti e razzisti. Il caso el Qaisi – si spera vivamente, all’epoca di quel prossimo summit, già risolto da tempo – non rivestirebbe comunque gli interessi primari in agenda. Tuttavia, non vorremmo si tramutasse in un omaggio di Netanyahu alle “virtù” politico diplomatiche dell’underdog nazionale con tanto di grancassa propagandistica ed elettorale.

A quel tavolo si può essere ragionevolmente sicuri che non si parlerà del contesto crudele e penalmente rilevante sul piano delle violazioni di diritto internazionale derivanti dall’occupazione e colonizzazione dei Territori palestinesi da parte di Israele.

In questa temperie è maturato l’arresto dello stesso el Qaisi. Di tale contesto abbiamo parlato con Luigi Daniele, Senior Lecturer in Diritto dei conflitti armati e Diritto Internazionale Penale presso la Nottingham Trent University in Inghilterra.

L’avvocato Albertini Rossi che assiste la famiglia el Qaisi ha paventato il rischio di “detenzione amministrativa” per cui Khaled si troverebbe al cospetto di rinvii continui della sua scarcerazione e detenzioni prolungate per motivi di sicurezza senza che vi sia straccio di prova a suo carico. Che giustizia è questa?

Mi lasci innanzitutto osservare che in Italia esistono molte sensibilità, reti e associazioni (incluse le associazioni forensi) consapevoli dell’importanza del diritto penale minimo in un sistema democratico ed impegnate a contrastare i disastri prodotti da classi dirigenti che sempre più costruiscono il proprio consenso tramite forme radicali di populismo penale. Troppo spesso, però, questo contrasto si limita alla sfera nazionale e alla giustizia penale domestica, perdendo di vista le grandi spinte sovranazionali che contribuiscono a normalizzare quelle autoritarie ancora più gravi e distruttive per i diritti fondamentali dei ‘clienti’ dei sistemi di repressione delle democrazie liberali e dei loro alleati nel mondo. Il sistema giudiziario dell’occupazione israeliana, da questo punto di vista, è particolarmente allarmante, poiché nella sua interezza è orientato alla tutela di un’impresa proibita – nella modernità giuridica – da norme perentorie di diritto internazionale, cioè la conquista di territorio tramite uso della forza armata. È curioso che ci sia così poca discussione in Italia a riguardo, proprio mentre si proclama l’intollerabilità dell’uso della forza armata a scopi di conquista nel contesto di un’altra occupazione illegale, ovvero quella della Federazione Russa in Ucraina.

Considerazioni fondamentali che, giustamente, fanno da premessa ai rischi connessi al caso el Qaisi…

Nel merito, l’avvocato di Khaled el Qaisi parla del rischio di “slittamento” del procedimento da un piano penale, che presume un’imputazione, con diritto per l’imputato alla difesa legale, a un piano di detenzione amministrativa. La detenzione amministrativa è una misura praeter delictum, preventiva, ufficialmente intesa a scongiurare un pericolo di sicurezza o per l’ordine pubblico. Avendo collaborato anni fa alla ricerca di un team euro-mediterraneo, guidata da un collega italiano, il Prof. Mariniello, sulla pratica delle detenzioni amministrative nel territorio palestinese occupato, è per me doveroso segnalarne l’incompatibilità radicale con gli standard internazionali minimi di tutela dei diritti fondamentali. Migliaia di detenuti amministrativi palestinesi ogni anno cadono vittima di questa forma di privazione sommaria della libertà, che è ormai prassi dei comandanti militari che la ordinano e delle corti militari di occupazione che la convalidano. Ciascuno di questi detenuti non viene messo al corrente degli elementi a proprio carico (spesso secretati per motivi di ‘sicurezza’), non ha possibilità di contestarne la fondatezza in un regolare processo e la detenzione stessa può essere rinnovata ogni sei mesi senza alcun termine massimo. Abbondano, inoltre, le denunce di tortura di questi detenuti da parte di organizzazioni per i diritti dell’uomo israeliane, palestinesi ed internazionali. Ma il problema è strutturale. Si dice che si privano questi civili protetti dal diritto internazionale della libertà poiché rappresenterebbero una minaccia per la sicurezza. Ma di quale sicurezza si parla? Questo concetto di sicurezza è andato evolvendosi, nei 57 anni dell’occupazione israeliana, sino a significare sicurezza non di Israele e dei suoi cittadini, ma – al contrario – dell’occupazione stessa. La conseguenza è intuitiva: anche un palestinese che contrasti pacificamente l’occupazione, che rivendichi il diritto del proprio popolo all’autodeterminazione e si impegni pubblicamente in questo senso, è una minaccia per la sicurezza dell’occupazione. Per capirci, parliamo di reati di ‘assembramento politico o dalle intenzioni politiche’, o ‘istigazioni a turbare l’ordine pubblico’ dell’occupazione… Puniti con dieci o venti anni di reclusione!

Perché la pubblica opinione, ma se vogliamo il panorama politico in generale, sembrano così distanti dalla consapevolezza e conoscenza di temi così delicati e importanti?

La mia impressione è che i cittadini siano ben consapevoli dell’intollerabile privazione di diritti civili che da quasi sessant’anni (contando solo le violazioni conclamante delle rilevanti risoluzioni ONU) continua a danno del popolo palestinese. Tuttavia, media, politica e istituzioni sembrano sordi. In questo senso, la questione palestinese è una cifra dello smantellamento del nesso di rappresentanza e della ‘decostituzionalizzazione’ (come l’ha chiamata Ferrajoli) del nostro sistema politico. Ad una opinione pubblica solidale e convinta che l’Italia debba agire per una pace giusta e basata sulla legalità internazionale fa da contraltare un ceto politico che chiama crimini di guerra (come le demolizioni di proprietà e l’esproprio forzato di terreni a danno della popolazione civile di un territorio occupato) “dispute sulle case”… Regredendo ad uno stadio pre-giuridico dei propri posizionamenti. Quanto alle privazioni arbitrarie della libertà, tra cui incarcerare civili per conquistare territorio con la forza, nel caso dell’occupazione russa in Ucraina orientale i grandi media occidentali hanno apertamente parlato di campi di concentramento. Nel caso che qui discutiamo, per quanto la brutalità delle pratiche possa variare, la sostanza giuridica delle violazioni, come incarcerare a tempo indefinito e senza processo cittadini stranieri, residenti in un territorio che la potenza occupante intende annettere, è la stessa. 

Può esercitare simili azioni una potenza occupante dal punto di vista del diritto?

Il diritto internazionale non riconosce alcuna autorità sovrana a quell’entità statale che si trova nella posizione occupante, se non minime misure emergenziali in caso di necessità militare che, comunque, devono essere aderenti al diritto e motivate da esigenze legalmente ammissibili. In sostanza il diritto internazionale prende atto delle situazioni di occupazione militare e, temporaneamente, le ammette, dettando precise tutele per la popolazione civile che si trovi sottoposta al controllo territoriale di un esercito straniero. Israele, in ciò isolata nella comunità internazionale, si rifiuta di riconoscere il territorio palestinese occupato per ciò che è, ovvero un territorio militarmente occupato. Disconoscendo questo status internazionale, di fatto Israele rifiuta e contraddice l’unica premessa giuridica che conferirebbe ad esso autorità di temporanea e limitata amministrazione legale. Ciò che ne discende è una macroscopica violazione delle norme fondamentali dell’ordine giuridico internazionale.

Sul vasto capitolo delle violazioni ritorneremo a breve. Che idea ha dunque maturato sulla vicenda el Qaisi?

Desidero precisare che non dispongo di dettagli riguardanti il caso. Tuttavia, va segnalata, almeno sino ad ora, la gravità di un mancato intervento istituzionale italiano. Il silenzio del governo è assordante. Solleva il sospetto di un’ingiustificata sudditanza nei confronti dell’alleato israeliano: i diritti umani fondamentali dei cittadini italiani all’estero non sono un’optional. Ogni governo ha il dovere di agire affinché siano tutelati e rispettati. Indipendentemente dai sistemi di alleanze politiche internazionali, il nesso tra costituzione e diritto internazionale detta un obbligo di tutela dei diritti fondamentali sovraordinato alla discrezionalità politica. È gravissimo che il governo sia silente su questa vicenda. Partendo da queste garanzie, abbiamo anche il dovere di segnalare che gli stessi doveri istituzionali valgono per tutti i titolari di quei diritti umani. Sono diritti non dei cittadini, ma appunto diritti umani, protetti dalle rilevanti convenzioni internazionali. Ciò che Khaled sta subendo è un esempio di ciò che intere generazioni di palestinesi subiscono da decenni. In fondo il tema è proprio questo: le politiche di un governo alleato che considerano un popolo, quello sottoposto alla propria occupazione, meno umano e per nulla titolare degli stessi diritti umani dei propri cittadini.

Prima, stava infatti accennando alle violazioni di Israele in quanto potenza occupante…

La prima cosa da ribadire è che nel diritto internazionale il regime giuridico che governa le situazioni di occupazione militare non conferisce nessun potere sovrano alla potenza occupante. È un regime di eccezione, anzi forse il regime di eccezione per eccellenza, che ammette uno iato, temporalmente limitato, tra sovranità democratica e controllo di un territorio. Israele ha travalicato tutti i limiti di questa eccezione. L’occupazione israeliana è diventata perenne e si è progressivamente trasformata in annessione armata. Ha quindi cessato da decenni di rispettare i diritti della popolazione civile, che sempre più l’infrastruttura dell’occupazione-annessione e i partiti dei coloni hanno configurato come minaccia in sé, la cui esistenza come gruppo nazionale autonomo e autodeterminato non è più prevista. Ma l’autodeterminazione è un diritto inalienabile, così come inalienabili sono le garanzie di un giusto ed equo processo.

Cosa che, notoriamente, è elusa da Israele.

Fin dal 1967, Israele si arroga il diritto di privare della libertà personale, indiscriminatamente, i palestinesi considerati ostili all’occupazione. Parliamo di ostilità politica, non militare. I militanti dei gruppi armati sono obiettivo dichiarato di omicidi mirati, non di cattura e processi. È importante comprendere che, per la stragrande maggioranza dei palestinesi detenuti, non siamo nel contesto di un sistema di giustizia civile bensì dinanzi a un sistema di giustizia militare di occupazione. La prima ordinanza militare che ha fondato questo sistema di giustizia militare è stata la proclamazione nel 1967 del comandante militare delle IDF in Cisgiordania, nelle cui mani venivano a concentrarsi potere legislativo, esecutivo e giudiziario nel territorio occupato. Il popolo palestinese, da allora, è vittima di un sequestro del proprio diritto all’autodeterminazione, ivi compreso il diritto di esprimersi sulle proprie istituzioni e di essere giudicato dal potere giudiziario del proprio stato. Ciò, per i cittadini di qualsiasi stato democratico nel mondo, significa poter essere giudicati sulla base di reati codificati da un potere legislativo eletto. I palestinesi sotto occupazione sono invece da quasi sessant’anni giudicati dalla giustizia militare delle forze di occupazione. L’esercito israeliano è insomma per i palestinesi, e solo per essi, uno e trino, cioè contemporaneamente potere legislativo, esecutivo e giudiziario.

Un trattamento che Israele si guarda bene dall’applicare, invece, ai coloni stabiliti illegalmente in Cisgiordania in avamposti e insediamenti.

Sì, la giustizia militare viola il principio di territorialità e viene applicata su basi etnico-razziali solo ai palestinesi, tant’è che grandi organizzazioni internazionali a difesa dei diritti dell’uomo considerano ciò uno dei formanti fondamentali del sistema di apartheid a cui sono sottoposti. Per i coloni israeliani si utilizza il diritto “domestico”, fungendo così da vettori di annessione giuridica, che portano con sé il diritto della potenza occupante come pertinenza personale. Un diritto domestico, ovviamente, caratterizzato da garanzie e tutele diametralmente opposte agli arbìtri del diritto militare applicato ai palestinesi.

Può fare degli esempi rilevanti di questo doppiopesismo discriminatorio nei riguardi dei palestinesi?

Certo. Ad esempio, il periodo massimo di custodia senza convalida da parte di un magistrato nel diritto domestico israeliano è di sole 24 ore mentre diventa di 8 giorni per i palestinesi giudicati dalla giustizia militare di occupazione. Ancora: il periodo massimo di custodia prima di poter essere assistiti da un legale è di 48 ore per civili e coloni israeliani mentre è di 90 giorni per un palestinese. Inoltre, fino al 2011, epitome della discriminazione, l’età dell’imputabilità per reati nel diritto domestico israeliano era di 18 anni. A quell’epoca, nel sistema di legislazione militare di occupazione, bambini palestinesi dai 12 anni in su potevano essere arrestati e interrogati e quelli dai 16 anni in su venivano considerati giovani adulti. Nonostante gli emendamenti alla legislazione militare, va comunque sottolineato che continuano a tutt’oggi fermi e pratiche violente di interrogatorio di bambini palestinesi minori di 16 anni .

È logico attendersi che, per quel che riguarda i provvedimenti di condanna, le statistiche risultino ovviamente sbilanciate a sfavore delle pene comminate ai palestinesi.

L’aspetto che esprime maggiormente la discriminazione di cui parliamo è il tasso di condanne e assoluzioni. Tra gli imputati palestinesi di fronte alla giustizia militare, circa il 90-95% viene annualmente condannato con un record nel 2011 pari al 99,74% di condanne. Un dato senza eguali al mondo. Per i reati commessi dai coloni, l’85,3% delle inchieste è chiusa per impossibilità di localizzare il sospetto o per insufficienza probatoria. Il 7.4% delle inchieste conduce a una richiesta di rinvio a giudizio, ma la probabilità che dopo quel rinvio a giudizio si giunga a condanna è di circa l’1.8%, quindi quasi nulla.

Le condotte di Israele mirano alla conquista territoriale con alterazione demografica del territorio colonizzato. Esistono storicamente esempi di un colonialismo così violento?

Non so dire se ci siano esempi storici di colonialismo in cui la potenza coloniale puntasse alla progressiva alterazione demografica del territorio colonizzato, rendendola omogenea alla potenza coloniale tramite progressiva espulsione della popolazione indigena. Del resto, quello sulle politiche di alterazione demografica è uno dei quesiti che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con voto a larghissima maggioranza, ha posto alla Corte Internazionale di Giustizia per l’importante parere consultivo che si attende tra qualche mese. La Corte dovrà pronunciarsi sulla legalità o illegalità complessiva dell’occupazione israeliana e sulle conseguenze legali della stessa.

I Territori Palestinesi Occupati sono insomma il teatro di una sommatoria, unica nel suo genere, di gravi violazioni del diritto internazionale.

In effetti, varie violazioni si intersecano. Violazioni di norme che si considerano cosiddette di ius cogens a livello internazionale. Si tratta di norme perentorie, inderogabili, di tale importanza che un ipotetico trattato volto a stabilire deroghe a queste norme sarebbe privo di validità. Tra queste, il divieto di acquisizione, quindi di conquista di territorio tramite uso della forza militare. Aspetto su cui, ad esempio, c’è stata la convergenza delle condanne di tutti i Paesi occidentali nel caso dalla Federazione Russa in Ucraina. Il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia di cui le parlavo prima e riguardante le violazioni israeliane verterà anche su questo aspetto. Ciò è molto rilevante, anche in considerazione del fatto che le prerogative di governo del territorio occupato sono in corso di trasferimento a ministri oltranzisti quali Smotrich e Ben Gvir, con conseguente cessione a funzionari civili di quei poteri di indirizzo che prima erano nelle mani dell’esercito. In altre parole, siamo di fronte al superamento pieno delle soglie giuridiche per parlare di annessione.

Siamo cioè a un salto di qualità dell’aggressione militare alla Palestina, che va anche oltre la sconcertante impunità di Israele di fronte a risoluzioni e norme di diritto internazionale.

Dopo una lunga occupazione, ormai, il primo ministro Netanyahu dichiara apertamente il cosiddetto diritto “esclusivo e insindacabile” degli ebrei israeliani su tutto il territorio storico. In definitiva, è esplicito nel non riconoscere nessun diritto all’autodeterminazione e persino all’esistenza dei palestinesi come gruppo nazionale. Da queste macro-violazioni derivano a cascata ulteriori abusi. I coloni, come testimoniato da decenni di report delle organizzazioni per i diritti dell’uomo, si contraddistinguono spesso per comportamenti particolarmente violenti e razzisti, in alcuni casi sfilando in cortei che incitano direttamente e pubblicamente al genocidio dei palestinesi. In questa cornice vanno inserite le dichiarazioni del ministro Smotrich, egli stesso colono, che a Parigi, nel cuore dell’Unione Europea, ha apertamente affermato che il popolo palestinese non esisterebbe, sarebbe un’invenzione. Tali parole espresse contro qualsiasi altro gruppo nazionale scatenerebbero un putiferio, costituendo una premessa di eliminazione e il segnale di un pericolo di genocidio. Ma la gravità della situazione si può rilevare anche a partire da commentatori israeliani e stranieri che utilizzano la locuzione “cosiddetti palestinesi”, a dimostrazione di una palese intolleranza e sprezzo, persino sul piano linguistico, verso l’esistenza di questo gruppo nazionale. Non mancano editoriali, infatti, che teorizzano apertamente la necessità di ‘cancellare la Palestina’.

Si può parlare di una strategia sempre più evidentemente finalizzata all’eliminazione fisica del popolo palestinese?

Eliminazione fisica non direi. Ma l’eliminazione incrementale del gruppo nazionale in quanto tale è un pericolo concreto. In che modo questo gruppo nazionale può sopravvivere come tale senza territorio, senza uno stato, senza diritti civili e senza autodeterminazione? Bisognerebbe cominciare a ragionare delle responsabilità cogenti degli Stati nel prevenire pericoli di genocidio. Non parliamo però di genocidio, in senso giuridico, come eliminazione fisica di un gruppo (o di una sua parte sostanziale), ma di progressiva eliminazione di uno Stato palestinese e della negazione del diritto a esistere dei palestinesi come gruppo nazionale, mettendone a rischio la sopravvivenza di insediamento coloniale in insediamento coloniale, di espulsione in espulsione, di confinamento in confinamento. Il rischio, insomma, è che nel medio termine non esisterà più un gruppo nazionale palestinese. Si discute molto di rischi di genocidio in relazione all’Ucraina, anche se la Federazione Russa non ha intenzioni di conquista territoriale integrale dell’Ucraina. Per Israele lo scopo di una conquista integrale o quasi integrale del territorio palestinese, con cancellazione incrementale dello stato di Palestina, è un obiettivo in vista.

Inoltre, il divieto di trasferimento di civili appartenenti alla potenza occupante nel territorio che essa occupa è uno dei più centrali divieti nel diritto internazionale contemporaneo, con precisa rilevanza nel diritto penale internazionale e funzionale a proteggere territori in conflitto da progetti di denazionalizzazione forzata. Proprio a Norimberga emerse un’imputazione di “germanizzazione” dei territori occupati, perché nell’abietta idea imperialista del Reich v’era la spinta all’omologazione etnico-razziale e culturale dei territori conquistati, oltre che l’obiettivo della conquista territoriale in sé. Il divieto contro queste pratiche è oggi confluito nel crimine di guerra trasferimento di civili dello Statuto della Corte penale Internazionale (di cui l’Italia è parte e che fu concluso a Roma). Date tutte queste premesse, il parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia sarà decisivo.

Tra gli altri organismi internazionali interessati, sarebbe fondamentale un ruolo più attivo della Corte Penale dell’Aia sul tema delle violazioni in Palestina.

Sì e anche in questo caso si registra l’avanzamento dell’indagine in merito da parte della Corte Penale Internazionale. Questa, che è un organo non sospettabile di simpatie anti-occidentali, ha infatti precisato di avere giurisdizione sulla situazione in Palestina. La ex procuratrice della Corte ha ricostruito un quadro indiziante molto grave a carico di Israele, incluso il massiccio trasferimento di civili della potenza occupante in territorio occupato.

Tuttavia, con la gestione di Karim Khan, nuovo procuratore della Corte, registriamo anche un’eccessiva lentezza procedurale.

È da 15 anni che le vittime palestinesi attendono giustizia da parte dell’Aia. Ed è vero che per questo motivo si diffonde un clima di sfiducia, che però ha un effetto nichilista che rischia di allontanarci dalla responsabilità di mobilitarci affinché quelle indagini siano portate a termine e che si celebrino processi per accertare le responsabilità. Va detto che le indagini non riguardano solo le autorità israeliane, ci sono indizi di gravi crimini di guerra anche a carico di alcuni gruppi armati palestinesi, il che rende ancora più assurde le mobilitazioni del Governo Netanyahu contro la Corte stessa. Abbiamo tutti una responsabilità a mettere pressione affinché le indagini si concludano in tempi ragionevoli. Ci sono migliaia di vittime che attendono giustizia, con crimini iper-documentati da decenni di lavoro sul campo di ONG e difensori dei diritti umani.

Eppure, nel caso del mandato di arresto emesso nei confronti di Putin per i fatti ucraini, la Corte si è mossa con grande intensità e velocità procedurale…

Accade quando c’è forte pressione degli interessi dominanti, ma anche, a cascata, delle classi dirigenti, del giornalismo investigativo, dell’opinione pubblica, e così via, sicché le istituzioni inquirenti sono spronate ad agire più velocemente. Per simili, analoghe violazioni del diritto internazionale nel contesto ucraino, tutte le potenze occidentali affermano concordi che è la legalità internazionale a dover essere il punto di partenza per una pace giusta. La legge del più forte non può essere presupposto di pace. Non si capisce perché questo principio non debba applicarsi in Palestina. La via della pace non è certo l’illegalità. Per ripristinare la legalità è necessario porre fine alla costruzione di insediamenti coloniali. Parlano chiaramente le risoluzioni dell’ONU, incluso il Consiglio di Sicurezza, con l’astensione persino degli USA, che intimano ad Israele il loro smantellamento.

Sia io che lei, non nascondiamolo, per il solo fatto di discutere analiticamente e criticamente dell’operato da parte dell’occupazione israeliana, potremmo incappare in assurde accuse di antisemitismo da parte di qualcuno.

Sarebbe diffamazione, contro la quale personalmente agirei immediatamente in giudizio. Ma devo dire che lo scenario è profondamente cambiato negli ultimi dieci anni. Mentre l’antisemitismo è un male antico e ancora lungi dall’essere sconfitto, l’uso strumentale e distorto dell’accusa di antisemitismo contro chiunque denunci forme di razzismo contro i palestinesi e critichi i governi israeliani ha perso molto mordente. Certo, tale accusa, per la tragedia storica che evoca, è particolarmente sgradevole ed inquietante. Ha costretto chi ne è stato ingiustamente vittima alla necessità di difendersi e contro-argomentare, il che, per chi non è antisemita, è già una pena di per sé. È una battaglia ancora in corso, ma rispetto alla definizione IHRA, esistono altre definizioni operative di antisemitismo come la Jerusalem Declaration, che non rinunciano al sacrosanto contrasto all’antisemitismo, ma non cedono a sue indebite sovrapposizioni con le critiche a una potenza occupante. Il vento sta cambiando da questo punto di vista.

Similmente a quanto accadde per l’apartheid in Sudafrica, la mobilitazione internazionale sta abbattendo sempre più muri di complicità e smantellando le premesse della discriminazione istituzionalizzata. È in questo quadro che si inserisce la vicenda di Khaled el Qaisi ed è in questo quadro che dobbiamo tutte e tutti agire, ciascuno secondo le proprie possibilità, perché i suoi diritti e quelli del popolo palestinese siano rispettati.

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venerdì 22 settembre 2023

Ariane Lavrilleux libera!

 

La giornalista francese Ariane Lavrilleux in custodia cautelare per la sua inchiesta sull’operazione Sirli in Egitto - Alekos Prete

La giornalista del quotidiano investigativo Disclose, Ariane Lavrilleux, collaboratrice di RFI, è stata arrestata martedì 19 settembre. All’origine del suo arresto le rivelazioni della sua inchiesta del 2021 sull’operazione militare Sirli in Egitto e sui suoi legami con le forze armate francesi.

“Sono sconvolta e preoccupata per l’escalation degli attacchi alla libertà d’informazione e per le misure coercitive adottate contro la giornalista di Disclose”, ha dichiarato Virginie Marquet, avvocato di Ariane Lavrilleux e dei media investigativi. “Questa perquisizione rischia di ledere gravemente la riservatezza delle fonti dei giornalisti, che posso legittimamente temere sia stata completamente violata da questa mattina. Disclose proteggerà i giornalisti che hanno rivelato solo informazioni di interesse pubblico”, ha aggiunto.

L’operazione, affidata alla DGSI, nasce da un’indagine giudiziaria in corso dal luglio 2022 aperta dalla procura di Parigi e che anticipa di poche settimane gli Stati Generali dell’informazione voluti dall’Eliseo. Intanto France.tv, l’azienda che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo in Francia, ha pubblicato l’inchiesta integrale sul proprio sito. “È un affare di Stato – si legge su France.tv -denunciato da un informatore che non poteva più tacere. Rivela come la Francia avrebbe fornito a un regime autoritario, l’Egitto, informazioni utilizzate per commettere crimini, il tutto in nome di un interesse commerciale più alto: la vendita di armi”.

Numerosi organi di stampa e giornalisti, nonché Reporter Senza Frontiere (RSF), hanno espresso la loro indignazione sui social network, definendo l’operazione di polizia un “ostacolo inaccettabile alla libertà di informazione”. Secondo Pierre Isnard-Dupuy, portavoce del collettivo di giornalisti indipendenti Presse-Papiers: “Informare non può essere un reato. È una libertà fondamentale e questo non riguarda solo i giornalisti, ma tutti i cittadini, la salute della nostra democrazia”.

Intervenuta con un comunicato anche la Federazione Internazionale della Stampa: “L’IFJ l’EFJ e i loro affiliati francesi si uniscono a Disclose nel denunciare l’intervento della DGSI come “un altro inaccettabile episodio di intimidazione”. Le federazioni condannano un’operazione chiaramente mirata a identificare le fonti che hanno permesso di rivelare la complicità della Francia nei crimini di Stato in Egitto . “Il governo francese, che ha appena scandalosamente modificato il progetto di regolamento europeo EMFA per legalizzare lo spionaggio dei giornalisti, è il segno di una politica ostile alla stampa e al diritto di accesso dei cittadini all’informazione. Chiediamo il rilascio immediato di Ariane Lavrilleux e la cancellazione di ogni accusa contro di lei”, ha dichiarato martedì il segretario generale dell’EFJ Ricardo Gutiérrez .

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Arianne Lavrilleux è stata liberata grazie all’immediata mobilitazione

Dopo quasi 40 ore, il fermo di polizia della giornalista Ariane Lavrilleux è stata revocato mercoledì sera. La marsigliese ha annunciato sul suo account X: “Sono libera, grazie mille per il vostro sostegno!”

Immediatamente dopo il suo fermo giornalisti e persone comuni si erano radunate per protestare contro l’evidente intimidazione di una giornalista scomoda, sottolineando il tema della libertà di stampa.

Martedì mattina, la sua casa di Marsiglia era stata perquisita a lungo da agenti della DGSI (agenzia di intelligence nazionale francese). “Viene trattata come una criminale quando tutto ciò che ha fatto è il suo lavoro”, ha dichiarato indignato  Disclose, media per il quale ha pubblicato una serie di inchieste sul coinvolgimento dello stato francese nell’esecuzione di civili sotto la dittatura del generale Al Sissi in Egitto e sulla vendita di armi ed equipaggiamenti militari a Paesi come Russia, Libia e Arabia Saudita.

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