sabato 20 luglio 2024

Il “Destino Manifesto” degli Stati Uniti, i Nativi Americani e il resto del mondo - Raffaella Milandri

 

Nel XIX secolo si fece strada negli Stati Uniti il concetto di “Destino manifesto” (in inglese Manifest destiny), una sorta di  credo nella naturale superiorità di quella che allora veniva chiamata la “razza anglosassone”: espandersi era considerata una missione, per diffondere la loro forma di libertà e democrazia. Per i sostenitori del Destino manifesto l'espansione non era solo buona, ma anche ovvia (manifesta) e inevitabile (destino).  Tutti concetti legati all'eccezionalismo americano e al nazionalismo romantico, e precursori dell’imperialismo americano e dell’americanismo. Oltre alle ovvie (anzi manifeste) riflessioni sul fatto che questo concetto sopravviva anche oggi, approfondiamone l’influsso nefasto, facciamo una visione d’insieme. Chiuderemo attenendoci al tema di questa rubrica: i Nativi Americani, che sono un ottimo esempio per analizzare la politica e la storia contemporanea. Disse Alexis de Tocqueville: “La storia è una galleria di quadri dove ci sono pochi originali e molte copie”.

Il Destino Manifesto

Vorrei dare un breve quadro geopolitico d’insieme.

Secondo lo storico William Earl Weeks, alla base del concetto del Destino Manifesto c'erano tre principi fondamentali:

1)L’assunto della virtù morale unica degli Stati Uniti;

2)L'affermazione della sua missione di redimere il mondo attraverso la diffusione della democrazia repubblicana e più in generale dello “stile di vita americano”;

3)La fede nel destino della nazione, stabilito in modo divino, di riuscire in questa missione.

Il Destino Manifesto, quando nacque, rimase fortemente divisivo in politica, causando un conflitto costante per quanto riguarda in particolare la schiavitù, ma fu associato anche al trattamento dei Nativi Americani. Il concetto divenne uno dei temi principali della campagna elettorale durante le elezioni presidenziali del 1844, dove il Partito Democratico vinse e la frase “Destino Manifesto” fu coniata.

Lo storico Daniel Walker Howe riassume che “l'imperialismo americano non rappresentò un consenso americano; provocò un aspro dissenso all'interno della politica nazionale”. Lo storico Frederick Merk afferma anche che il destino manifesto fu un concetto fortemente contestato all'interno della nazione. L'autore Reginald Horsman ha scritto nel 1981 che questa visione sosteneva anche che “le razze inferiori fossero destinate a uno status subordinato o all'estinzione” e che veniva utilizzata per giustificare “la schiavitù dei neri e l'espulsione e il possibile sterminio degli indiani”.

L'origine del primo punto, in seguito noto come eccezionalismo americano, è stata spesso ricondotta all'eredità puritana dell'America, in particolare al famoso sermone di John Winthrop “City upon a Hill” del 1630, in cui chiedeva l'istituzione di una comunità virtuosa che sarebbe stata un esempio luminoso per il Vecchio Mondo.

Henry Goulburn, uno dei negoziatori britannici a Gand, osservò, dopo aver compreso la posizione americana sull'acquisizione delle terre degli Indiani:

“Fino a quando non sono arrivato qui, non avevo idea della determinazione feroce che c'è nel cuore di ogni americano di estirpare gli Indiani e appropriarsi del loro territorio”.

Nel 1859, Reuben Davis, membro della Camera dei Rappresentanti del Mississippi, articolò una delle visioni più espansive del Destino Manifesto:

“Potremmo espanderci fino a includere il mondo intero. Messico, America Centrale, Sud America, Cuba, le Isole delle Indie Occidentali, e persino Inghilterra e Francia [potremmo] annetterci senza inconvenienti... permettendo loro, con le loro legislature locali, di regolare gli affari locali a modo loro. E questa, Signore, è la missione di questa Repubblica e il suo destino finale”.

Quando il Presidente William McKinley sostenne l'annessione della Repubblica delle Hawaii nel 1898, disse: “Abbiamo bisogno delle Hawaii quanto e più della California. È un destino manifesto”. Albert J. Beveridge sostenne il contrario nel suo discorso del 25 settembre 1900 all'Auditorium di Chicago. Dichiarò che l'attuale desiderio di Cuba e degli altri territori acquisiti era identico alle opinioni espresse da Washington, Jefferson e Marshall. Inoltre, “la sovranità delle Stelle e delle Strisce non può essere altro che una benedizione per qualsiasi popolo e per qualsiasi terra”.

La convinzione della missione americana di promuovere e difendere la democrazia in tutto il mondo, esposta da Jefferson e dal suo “Impero della Libertà”, e continuata da Lincoln, Wilson e George W. Bush (David, Charles Philippe; Grondin, David, 2006, “Hegemony Or Empire?: The Redefinition of Us Power Under George W. Bush”. Ashgate. pp. 129–130) continua ad avere un'influenza sull'ideologia politica americana. Sotto il Presidente Theodore Roosevelt, il ruolo degli Stati Uniti nel Nuovo Mondo fu definito, nel Corollario Roosevelt alla Dottrina Monroe del 1904, come un “potere di polizia internazionale” per garantire gli interessi americani nell'emisfero occidentale. Il corollario di Roosevelt in realtà conteneva un esplicito rifiuto dell'espansione territoriale.

In passato, il Destino Manifesto era visto come necessario per far rispettare la Dottrina Monroe nell'emisfero occidentale, ma ora l'espansionismo era stato sostituito dall'interventismo come valore centrale associato alla Dottrina. Il “destino manifesto” viene talvolta utilizzato dai critici della politica estera degli Stati Uniti per caratterizzare gli interventi in Medio Oriente e altrove. In questo uso, il “destino manifesto” viene interpretato come la causa sottostante a ciò che viene denunciato da alcuni come “imperialismo americano”. I critici hanno condannato il Destino Manifesto come ideologia usata per giustificare l'espropriazione e il genocidio contro le popolazioni indigene.

Dottrina Monroe

La Dottrina Monroe e il “destino manifesto” formarono un nesso di principi e ideologie strettamente correlati: lo storico Walter McDougall definisce il Destino Manifesto un corollario della Dottrina Monroe perché, mentre la Dottrina Monroe non specificava l'espansione, l'espansione era necessaria per far rispettare la dottrina. La Dottrina Monroe è una posizione di politica estera degli Stati Uniti che si oppone al colonialismo europeo (ma non solo) nell'emisfero occidentale. Ritiene che qualsiasi intervento negli affari politici delle Americhe da parte di potenze straniere sia un atto potenzialmente ostile nei confronti degli Stati Uniti. La dottrina, che pare ora allargata all’intero pianeta, è stata centrale per la grande strategia americana nel XX secolo.

Il documento completo della Dottrina Monroe, redatto principalmente nel 1823 dal futuro Presidente e allora Segretario di Stato John Quincy Adams, è lungo e articolato, ma la sua essenza è espressa in due passaggi chiave. Il primo è la dichiarazione introduttiva, che afferma che il Nuovo Mondo non è più soggetto alla colonizzazione da parte dei Paesi europei:

“L'occasione è stata ritenuta opportuna per affermare, come principio in cui sono coinvolti i diritti e gli interessi degli Stati Uniti, che i continenti americani (entrambi, quindi Nord e Sud America), per la condizione libera e indipendente che hanno assunto e mantengono, d'ora in poi non devono essere considerati come soggetti per una futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea”.

Il secondo passaggio chiave, che contiene una dichiarazione più completa della Dottrina, è rivolto alle “potenze alleate” dell'Europa; chiarisce che gli Stati Uniti rimangono neutrali nei confronti delle colonie europee esistenti nelle Americhe, ma si oppongono a “interposizioni che creerebbero nuove colonie tra le repubbliche spagnole americane recentemente indipendenti”.

Fu solo a metà del XX secolo che la dottrina divenne una componente chiave della grande strategia americana. (Sexton, Jay, 2023, “The Monroe Doctrine in an Age of Global History”. Diplomatic History. 47 (5): 845–870).

Con l'inizio della Guerra Fredda nel 1945, gli Stati Uniti ritennero che fosse più che necessario proteggere l'emisfero occidentale dall'influenza sovietica. Nella Crisi dei Missili di Cuba del 1962, il Presidente John F. Kennedy citò la Dottrina Monroe per giustificare il confronto degli Stati Uniti con l'Unione Sovietica per l'installazione di missili balistici sovietici sul suolo cubano.

Il Presidente Donald Trump ha lasciato intendere un potenziale uso della dottrina nell'agosto 2017, quando ha menzionato la possibilità di un intervento militare in Venezuela, dopo che il suo Direttore della CIA Mike Pompeo aveva dichiarato che il deterioramento della nazione era il risultato dell'interferenza di gruppi sostenuti dall'Iran e dalla Russia. Il 3 marzo 2019, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton ha invocato la Dottrina Monroe per descrivere la politica dell'Amministrazione Trump nelle Americhe, affermando: “In questa Amministrazione, non abbiamo paura di usare la parola Dottrina Monroe... È stato l'obiettivo dei Presidenti americani, a partire dal Presidente Ronald Reagan, di avere un emisfero completamente democratico”.

Gli storici hanno osservato che, sebbene la Dottrina contenesse l'impegno a resistere ad un ulteriore colonialismo europeo nelle Americhe, essa ha, invece, comportato implicazioni aggressive per la politica estera americana, dal momento che non vi erano limitazioni alle azioni proprie degli Stati Uniti. Lo storico Jay Sexton osserva che le tattiche utilizzate per attuare la Dottrina erano modellate su quelle impiegate dalle potenze imperiali europee durante il XVII e il XVIII secolo. Lo storico americano William Appleman Williams, vedendo la Dottrina come una forma di imperialismo americano, l'ha descritta come una forma di “anticolonialismo imperiale”. Noam Chomsky sostiene che, in pratica, la Dottrina Monroe è stata utilizzata dal Governo degli Stati Uniti come una dichiarazione di egemonia e un diritto di intervento unilaterale sulle Americhe. Ma non solo.

Vediamo quindi che queste ideologie e dottrine coniate agli inizi dell’Ottocento hanno continuato – e continueranno – a essere usate e a influenzare  tutto il panorama politico mondiale. 

Sarebbe incredibilmente interessante a questo punto approfondire i concetti di eccezionalismo americano e di americanismo, e magari fare un raffronto con la Dottrina della scoperta, per altri aspetti. Accenno solo che l'eccezionalismo americano è la convinzione che gli Stati Uniti siano distintivi, unici o esemplari rispetto ad altre nazioni. I sostenitori di questa idea sostengono che i valori, il sistema politico e lo sviluppo storico degli Stati Uniti sono unici nella storia dell'umanità, spesso con l'implicazione che sono destinati e hanno il diritto di svolgere un ruolo distinto e positivo sulla scena mondiale. Ma veniamo ai Nativi Americani la cui sopravvivenza, con queste premesse ideologiche, possiamo ben comprendere come  sia stata difficile.

Nativi americani

Il Destino Manifesto ebbe gravi conseguenze per i Nativi Americani, poiché l'espansione continentale implicò implicitamente l'occupazione e l'annessione della loro terra. Questo portò infine a scontri e guerre con diversi gruppi di popoli nativi attraverso la loro rimozione (Indian Removal). La politica nazionale prevedeva che gli Indiani si unissero alla società americana e diventassero “civilizzati”, il che avrebbe significato niente più guerre con le tribù vicine o raid contro i coloni bianchi o i viaggiatori, e un passaggio dalla caccia all'agricoltura e all'allevamento. I sostenitori dei programmi di civilizzazione ritenevano che il processo di colonizzazione delle tribù native avrebbe ridotto notevolmente la quantità di terra necessaria ai Nativi, rendendo disponibili più terreni per la costruzione di case e piantagioni e allevamenti da parte degli americani bianchi.

Thomas Jefferson credeva che, sebbene gli indigeni d'America fossero intellettualmente uguali ai bianchi, essi dovessero assimilarsi e vivere come i bianchi o essere inevitabilmente messi da parte e “rimossi”, come poi fu fatto. Secondo lo storico Jeffrey Ostler, una volta che l'assimilazione non fosse più possibile, Jefferson avrebbe sostenuto lo sterminio degli indigeni. Secondo lo studioso di legge e professore Robert J. Miller, Thomas Jefferson “comprese e utilizzò la Dottrina del Destino manifesto nel corso della sua carriera politica contro le tribù indiane”.

 L'idea della “rimozione degli indiani” guadagnò trazione nel contesto del destino manifesto e, con Jefferson come una delle principali voci politiche sull'argomento, accumulò sostenitori che credevano che gli Indiani d'America avrebbero fatto meglio ad allontanarsi dai coloni bianchi. Lo sforzo di rimozione fu ulteriormente solidificato attraverso la politica di Andrew Jackson, quando firmò l’Indian Removal Act nel 1830.

Come sappiamo, la rimozione dei Nativi a ovest del Mississippi non fu sufficiente: i coloni premevano per nuove terre. La studiosa di Colville Dina Gilo-Whitaker descrive come, durante il processo di rimozione e successivo ampliamento a ovest, le promesse di tecnologie e di risorse abbondanti furono fatte alle popolazioni indigene, mentre i coloni iniziarono effettivamente a sbarrare i fiumi, a imporre ferrovie e a cercare risorse naturali e minerali attraverso l'estrazione mineraria e lo scavo delle terre dei Nativi Americani.

Secondo gli storici Boyd Cothran e Ned Blackhawk, questo afflusso di commercio, industrializzazione e sviluppo di corridoi di trasporto uccise il bestiame circostante, causò danni ai corsi d'acqua e creò malesseri e malattie per i Nativi che vivevano in quelle regioni. Lo storico Jeffery Ostler commenta alcune delle teorie generali sul declino della popolazione nativa americana dovuto a questi fattori ambientali. Egli mostra che, nel corso di questo periodo, ci furono molte forze “di distruzione, tra cui la schiavitù, le malattie, le privazioni materiali, la malnutrizione e lo stress sociale”.

In seguito all'allontanamento forzato di molti popoli indigeni, gli americani credettero sempre più che i modi di vita dei Nativi sarebbero scomparsi con l'espansione degli Stati Uniti. Come ha sostenuto lo storico Reginald Horsman nel suo influente studio Race and Manifest Destiny, la retorica razziale aumentò durante l'epoca del Destino Manifesto. Ad esempio, questa idea si rifletteva nel lavoro di uno dei primi grandi storici americani, Francis Parkman. Parkman scrisse che, dopo la sconfitta francese nella Guerra franco-indiana, gli Indiani erano “destinati a sciogliersi e a scomparire di fronte alle onde avanzanti del potere anglo-americano, che ora avanzava verso ovest senza controllo e senza opposizione”.

Le politiche di rimozione degli indiani portarono all'attuale sistema di riserve che assegnava i territori alle singole tribù. Secondo la studiosa Dina Gilio-Whitaker, “i trattati crearono anche delle riserve che avrebbero confinato i nativi in territori molto più piccoli di quelli a cui erano abituati da millenni, diminuendo la loro capacità di nutrirsi”. Di conseguenza, “il cambiamento di stile di vita dei popoli nativi nel XIX secolo ha permesso alle malattie epidemiche di imperversare nelle loro comunità” e “il risultato del cambiamento dei modelli di sussistenza e degli ambienti ha contribuito all'esplosione di malattie legate alla dieta, come il diabete, le carenze vitaminiche e minerali, la cirrosi, l'obesità, le malattie della cistifellea, l'ipertensione e le malattie cardiache”.

Il concetto egoistico di destino manifesto, la convinzione che l'espansione degli Stati Uniti fosse divinamente ordinata, giustificabile e inevitabile, fu usato per razionalizzare l'allontanamento degli Indiani d'America dalle loro terre d'origine. Gli americani dichiararono che era loro dovere, il loro destino manifesto, che li obbligava a prendere, insediare e coltivare la terra. Non sorprende che i sostenitori più attivi del destino manifesto e i fautori dell'allontanamento degli indiani fossero coloro che praticavano la speculazione fondiaria.

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