È stato pubblicato il decreto governativo che disciplina chi e come debba definire le aree idonee a posizionare pannelli e pale eoliche. Il rischio di iniquità, impatti sociali, ecologici e ambientali e di nuovi consumi di suolo è concreto, osserva il prof. Pileri. Sacrificando le uniche due procedure per arginare il degrado ambientale, a vantaggio di pochi
In diversi
festeggiano per il decreto aree idonee del 21 giugno scorso, ovvero
il decreto che fissa chi e come deve definire le aree idonee a posizionare
pannelli solari e pale eoliche (entrato in vigore lo scorso 4 luglio dopo
pubblicazione su gazzetta ufficiale n. 153). Inviterei a valutare bene che cosa
sta succedendo perché non mi pare sia tutto oro quel che esce dal cilindro.
Ovvio che piace al fronte degli energetici e degli investitori in rinnovabili,
ma questo non basta per dire che sia immune dalla produzione di iniquità, di
impatti sociali, ecologici e ambientali e che non avvii nuovi consumi di suolo.
Spieghiamo il perché, con calma e sempre ricordando a tutte e tutti che le
prime e uniche aree idonee sono quelle già asfaltate o costruite, sempre che
non siano vincolate paesaggisticamente.
Partiamo
dalla definizione di aree idonee che rimane un compito delegato alle Regioni
(art. 1, c. 2, pt. a): “le aree in cui è previsto un iter accelerato e
agevolato per la costruzione ed esercizio degli impianti a fonti rinnovabili e
delle infrastrutture connesse secondo le disposizioni vigenti di cui all’art.
22 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199;”. A parte il fatto che a
descrivere le aree è un iter e non la sostanza di cui sono fatte le aree (e
questo è già una bizzarria che, peraltro, senza dirlo lascia spazio ad altra
bizzarria: le 20 Regioni definiranno 20 idoneità diverse), iniziamo con il dire
quanto è ancora doloroso quel rimando ad altra legge (titolo: “Procedure
autorizzative specifiche per le aree idonee”), con tanto di imbarazzante
problema (che denunciamo da tempo).
“1. La
costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia da fonti
rinnovabili nelle aree idonee sono disciplinati secondo le seguenti
disposizioni: a) nei procedimenti di autorizzazione di impianti di produzione
di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili su aree idonee, ivi
inclusi quelli per l’adozione del provvedimento di Valutazione di impatto
ambientale (Via), l’autorità competente in materia paesaggistica si esprime con
parere obbligatorio non vincolante. Decorso inutilmente il termine per
l’espressione del parere non vincolante, l’amministrazione competente provvede
comunque sulla domanda di autorizzazione; b) i termini delle procedure di
autorizzazione per impianti in aree idonee sono ridotti di un terzo. 1-bis. La
disciplina di cui al comma 1 si applica anche, ove ricadenti su aree idonee,
alle infrastrutture elettriche di connessione degli impianti di produzione di
energia da fonti rinnovabili e a quelle necessarie per lo sviluppo della rete
elettrica di trasmissione nazionale, qualora strettamente funzionale
all’incremento dell’energia producibile da fonti rinnovabili. 1-ter. La disciplina
di cui al comma 1 si applica altresì, indipendentemente dalla loro ubicazione,
alle infrastrutture elettriche interrate di connessione degli impianti di cui
medesimo comma 1”.
In sostanza
che si dice? Appena le Regioni avranno deliberato le aree idonee (tra sei mesi,
se va bene), per gli impianti fotovoltaici, agrivoltaici ed eolici la
Valutazione di impatto ambientale, laddove prevista, varrà come il due di
picche visto che, per decreto, chi dovrà esprimersi parlerà al nulla: il suo
parere non sarà vincolante e pure affrettato. Insomma, l’autorità competente
lavorerà a vuoto: e allora perché mai dovrà lavorare? A beneficio di chi e di
che cosa? Saranno risparmiate dalla Via anche le opere di movimentazione terra
per realizzare i tunnel chilometrici per portare i cavi per l’elettricità alle
cabine “infrastrutture elettriche interrate di connessione” e/o quelle per
raggiungere le cabine di raccolta nazionale. C’è da fare festa? No. Con due
decreti sono riusciti ancora a imbavagliare la Valutazione di impatto
ambientale e questo non va bene affatto. Le compagini politiche
ambientaliste non hanno nulla di cui festeggiare perché accettare che la corsa
alle rinnovabili renda legittimo l’azzeramento della Via è semplicemente grave
e apre a successive richieste pericolose davanti alle quali sarà ora più
difficile dire che non si è d’accordo. Perché non scontare la Via anche ad
altre opere “ambientali” come ponti ferroviari sul mare, ecogasdotti, centrali
a biomassa, caserme dei carabinieri forestali o, magari pure depositi di
rifiuti?
Via e
Valutazione ambientale strategica (Vas) sono sacre e rimangono le uniche due
procedure per arginare il degrado ambientale ed è grave decidere di eliminarle/scontarle/zittirle.
Sono già oggetto di continuo attacco e molte fatte giusto per farle (specie le
Vas). Se addirittura le inertizziamo per decreto, non rimane più nulla per
arginare il declino. Semmai il governo attuale avrebbero dovuto moltiplicare gli
investimenti così da qualificare meglio e ampliare la rosa dei tecnici nei
ministeri preposti a verificare queste Via e Vas. Questo andava fatto,
apprViaofittando della grande palestra offerta dalla transizione energetica e
dagli extraprofitti che questo mondo incasserà e da cui si sarebbe potuto
generare un fondo pubblico per una task force dedicata a Via e
Vas. Invece hanno fatto l’esatto contrario: depotenziato lo strumento e non
irrobustito i suoi tecnici. C’è poco da essere contenti. Lo saranno forse gli
energetici della transizione veloce a qualunque costo (sempre che non facciano
pannelli e pali in fianco alle loro case al mare o ai monti). Lo sarà la
generazione degli speculatori eco green. Lo saranno quelli del
“meglio così che le energie fossili”. Ma chiedete a quanti dovranno cedere le
loro terre per ospitare le rinnovabili, se sono contenti come voi. Chiedete a
chi si vedrà una pala eolica a due passi da casa.
Ma c’è
dell’altro per cui non stare allegri per nulla. Il decreto governativo
suggerisce alle Regioni di considerare idonee le “aree a destinazione
industriale, artigianale, per servizi e logistica” (art. 7, c. 2, pt. b). Qui
ci sono due gravi problemi. Il primo: un’area a cui è assegnata una
destinazione urbanistica è, a oggi e al 90%, un suolo completamente libero e
spesso in buona salute. Non ha nulla di compromesso solo perché il piano
urbanistico ne prevede la trasformazione ad altro uso. Potenzialmente potrebbe
addirittura diventare prato o bosco e concorrere ad accrescere la quota di aree
da riportare a livello di buona naturalità per il regolamento Ue della “Nature
restoration law”. Invece qui, con il solito fare all’italiana, il decreto fa
passare la “previsione” di trasformazione per qualcosa che ha già degradato
quell’area e quindi, ope legis, decide di salvarla rendendola idonea per
impianti fotovoltaici. Scientificamente inaccettabile. Anzi apre a un
pericoloso e perverso giochino: si fa una variante di piano trasformando
un’area agricola in area logistica e poi si chiede alla Regione di aggiornare
la carta delle aree idonee e così si ottiene la possibilità di installare i
lucrosi pannelli.
In tutto
questo, vi è anche sotto traccia la gravità che a prevalere nelle decisioni di
idoneità delle aree sia sempre e solo un criterio amministrativo e non uno
ambientale né ecologico. Nel decreto l’idoneità non passa dall’analisi
eco-pedologica di suoli: non vedo che cosa ci sia da festeggiare. La seconda
cosa tocca il tema dell’equità. Favorendo l’idoneità alle aree previste per
logistica o produzione, etc., il decreto sta servendo a un determinato target di
investitori privati (peraltro spesso posseduti a loro volta da fondi di
investimento e capitali stranieri) una grande possibilità di fare speculazione
energetica sui loro terreni che potranno consumare liberamente, pure evitando
di mettere i pannelli sui loro tetti. Ci va bene? C’è da festeggiare?
E, per
finire, questo decreto non ha fermato ancora il problematico decreto
legislativo n. 199 del 2021 (promozione dell’uso dell’energia da fonti
rinnovabili) dove con un colpo di spugna si è deciso che sono aree
idonee tutte quelle aree agricole che si trovano entro 500 metri attorno a
stabilimenti produttivi (anche capannoni logistici) o impianti industriali o
centri commerciali: le hanno chiamate “solar belt” (art. 20). Queste aree
continuano a essere idonee fin quando le Regioni non approveranno le loro. Ma a
quel punto si troveranno costrette a includerle, pena una pioggia di ricorsi.
Non a caso il decreto del governo invita le Regioni proprio a includerle (come
infatti dice l’art. 7 c.2 pt. c). E poi, non sottovalutiamo il fatto che,
nonostante della necessità di definire le aree idonee si sapesse da un anno, il
decreto ha deciso di dare alle Regioni sei mesi per approvare le loro aree
idonee (art. 3), pertanto in questo transitorio fioccheranno richieste di solar
belt e altre richieste nelle more delle aree idonee.
Stiamo
parlando di una quantità enorme di aree agricole che sfuggirà ai criteri di
idoneità delle Regioni: quasi quasi in certi casi potrà convenire rilevare un
piccolo capannone dismesso per ottenere di diritto una grande area
pannellizzabile attorno. Già, perché, se hai un ettaro a magazzino (magari per
un solo pacchetto) in mezzo alla campagna arrivi ad “autoidoneizzarti” due ettari
attorno e in più potrai usarti i tuoi ettari interni al sedime: bingo. Ovvio
che tutto questo è configurabile come una deroga bella e buona ai criteri di
idoneità ed è altrettanto ovvio che tutto ciò accelera le speculazioni, con
buona pace degli energetici e della loro fretta a passare alle rinnovabili.
Prova ne è che in un battibaleno società energetiche italiane e straniere,
fondi di investimento e altri soggetti non ben definiti si sono attaccati
alle mail di geometri e architetti di campagna promettendo
loro lauti guadagni: dai cinquemila ai 60mila euro di compenso solo per
fare scouting ovvero per trovare proprietari disponibili a
cedere aree papabili per le solar belt e non solo, da
presentare a investitori energetici. Visto? Questa è la prova provata di come
fare una legge che anziché orientare verso una transizione giusta ed ecologica,
ne disegna una facile per le finanziarie che usano le rinnovabili per
speculare.
In ultimo
ricordiamo ancora che nessuno sta sollevando il dubbio che, per come è stata
congegnata, l’attuale transizione è di fatto una privatizzazione ante litteram.
Quando si raggiungerà la soglia di produzione energetica rinnovabile
desiderata, saranno le centinaia di operatori privati (oppure le poche unità,
se scopriremo un giorno che si saranno fusi tra loro) ad avere il pieno
controllo della produzione di energia per il Paese e potranno spegnere
l’interruttore se vorranno. A quel punto lo Stato e gli interessi collettivi
usciranno di scena o si troveranno in una posizione assai complessa e
certamente più ricattabile. Chi oggi ci sta garantendo che un domani ciò non
accadrà? Altro motivo per non festeggiare ma per concentrarsi sul da
farsi.
Paolo Pileri
è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano.
Il suo ultimo libro è “L’intelligenza del suolo” (Altreconomia, 2022)
Su questi
temi il dibattito su Altreconomia è aperto. Segnaliamo a proposito l’intervento, dall’orientamento diverso, del prof. Stefano Caserini dal
nuovo numero della rivista. La redazione.
Il 10 luglio
è intervenuto il prof. Nicola Armaroli, dirigente di ricerca al
Cnr dal 2007, membro dell’Accademia nazionale delle Scienze e direttore della
rivista italiana di divulgazione scientifica “Sapere”
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