giovedì 25 luglio 2024

Macabre liturgie di fine impero - Fabio Vighi

 

‘Che grande abilità scenica quella del capitale che ha saputo fare amare lo sfruttamento agli sfruttati, la corda agli impiccati e la catena agli schiavi.’ (Alfredo Bonanno)

Il modello economico imposto dalla finanza occidentale è caratterizzato da una logica ormai strutturale di “creazione distruttiva”, che è l’opposto della “distruzione creativa” teorizzata da Joseph Schumpeter quale ‘fatto essenziale del capitalismo’[1]. La “creazione” oggi non interessa primariamente quel meccanismo di innovazione tecnologica per cui nuove unità produttive sostituiscono quelle obsolete e in tal modo aumentano la performance macroeconomica. Piuttosto, va riferita all’espansione a leva (debito) del capitale speculativo trainato dalle matrioske dei derivati, ​​che richiede l’abbandono del quadro di valori liberal-democratici già messo a tutela del capitalismo industriale. Il paradosso cui ci troviamo di fronte è che l’innovazione tecnologica distrugge il capitalismo a base industriale (il “mondo del lavoro”) e simultaneamente ci assoggetta alle strategie manipolatorie delle oligarchie finanziarie. Tradotto: le élite gestiscono la crisi terminale del capitale facendola pagare a masse sempre più immiserite, e regimentate attraverso l’imbonimento di scenari apocalittici “provocati dal Nemico”, che in tale contesto diventa un bene più prezioso delle terre rare.

Se proprio vogliamo parlare di “sostenibilità” – concetto ideologico per eccellenza – almeno non facciamoci prendere per i fondelli. Perché il lemma non ha nulla a che vedere con i 17 obiettivi di “sviluppo sostenibile” solennemente dichiarati dall’ONU (debellare la povertà e la fame, migliorare la salute e il benessere, lottare contro il cambiamento climatico, per la parità di genere, ecc.). “Sviluppo sostenibile” va piuttosto riferito a un modello socioeconomico in avanzato stato di putrefazione che spinge Wall Street ai massimi storici facendo pagare il conto di tale exploit alla gente comune attraverso contrazione economica reale, erosione del potere d’acquisto, e terrore emergenziale a getto continuo. La questione della sostenibilità, quindi, andrebbe eventualmente posta nel seguente modo: siamo felici di ricevere bastonate sui denti per sostenere i privilegi degli ultraricchi e la loro sinistra idea di “migliore dei mondi possibili”?

Comprendere il presente significa guardare oltre i rituali ormai folkloristici della politica. Si tratta infatti di riflettere sul legame causale che lega la sopravvivenza dell’impero del Bene alla disperata evocazione del Nemico (il Male) da combattere ad ogni costo. Se la disinformazione russa, come ci dicono, arriva ovunque, noi non viviamo certo nel regno della trasparenza. Per esempio, i nostri media omologati (quelli dello ‘sbarco in Lombardia’ ripetuto su quattro TG concorrenziali nel fantastico mondo della “libera informazione” italiana) si guardano bene dall’informarci che, dopo la decisione del G7 di utilizzare i beni russi congelati per finanziare un nuovo pacchetto di 50 miliardi di dollari per l’Ucraina, il rublo si è notevolmente apprezzato rispetto al dollaro. Perché la valuta russa si rafforza? Non ci avevano assicurato che le sanzioni avrebbero trasformato il rublo in carta igienica, e che di conseguenza Putin avrebbe fatto la fine di Ceausescu? O di Nicola II, l’ultimo degli zar? Ma allora perché l’economia russa cresce di oltre il 3% mentre le nostre ristagnano, come certifica non la TASS ma il Fondo Monetario Internazionale? Possiamo prendere atto che dall’inizio del conflitto ucraino la produzione industriale tedesca, misurata in ordinativi, è crollata di più del 20%? Che dire poi di un debito sovrano USA che cresce al ritmo di 1 trilione ogni 100 giorni, e che supererà i 54 trilioni (circa la metà dell’attuale PIL globale) entro il 2034? Tale proiezione ha spinto Borge Brende, Presidente del World Economic Forum (WEF), ad affermare: ‘non vedevamo questo tipo di espansione del debito dai tempi delle guerre napoleoniche.’ Ma Brende ha dimenticato di aggiungere che nei prossimi mesi andranno a maturazione Treasuries per un valore di circa 10 trilioni di dollari. E forse è per questo che persino Janet Yellen è costretta ad ammettere che la de-dollarizzazione non è il soggetto di un film di fantascienza. Quo vadis, dunque, impero del Bene?

Nel frattempo, la Federal Reserve – il manovratore occulto – continua nel gioco delle tre carte: da un lato pompa liquidità nel settore finanziario ricorrendo ad acrobazie monetarie di varia specie (dalla rediviva Operation Twist all’utilizzo delle Supplementary Leverage Ratios)[2]; e dall’altro mantiene invariati i tassi d’interesse. In altre parole, a Wall Street vengono somministrate endovenose di liquidità aggiuntiva che però rimangono fuori dal bilancio Fed – manipolazione monetaria allo stato puro. Un QE mascherato, basato su immissione latente di denaro digitato al computer che, appunto, spinge l’azionario a frantumare record dopo record. Ovviamente, tutto ciò non ha nulla a che vedere con alcuna crescita reale. Al contrario, si tratta di un fenomeno di dipendenza monetaria che nasce dalla mancanza strutturale di sufficiente valorizzazione reale di capitale. Oggi più che mai, il capitalismo è un’illusione ottica, un enorme deep fake macroeconomico. E l’occidente, tenuto in pugno dall’ultra-finanza, affronta la sua grottesca crisi di debito facendo altro debito – meccanismo che garantisce profitti stellari ai pochi e impoverisce i molti, perlopiù ignari di quanto accade attorno a loro.

L’attuale contesto pan-emergenziale è dunque sintomo di crescente fragilità sistemica, interna al dispiegamento della logica implosiva del capitale. Dovremmo allora apprezzare la logica invertita di quanto sta accadendo: i war games alla periferia dell’impero del Bene, così come gli inside jobs al suo interno – si pensi al recente attentato a Donald Trump, che ha risvegliato il metabolismo complottista anche dei commentatori più allineati – non sono la causa del declino dell’occidente; piuttosto, il sistema alla canna del gas si prodiga di attivare scontri di ogni genere nel tentativo di nascondere la propria insolvenza. Nulla come l’industria del caos e della destabilizzazione consente oggi di monetizzare. Le guerre, per esempio – specie quando pubblicizzate come umanitarie o difensive – non sono che mezzi criminali per giustificare il confezionamento di quel “denaro facile” che viene sparato nelle bolle speculative, mentre le effettive condizioni economiche di milioni di lavoratori (o di “forza lavoro inattiva”) crollano verticalmente. L’emergenza Putin, così come l’emergenza Covid, o quella del terrorismo islamico subito prima, e magari dell’influenza aviaria già in rampa di lancio[3], sono la leva biopolitica della leva finanziaria che sorregge l’impero targato USA, che dopo mezzo secolo di dominio globale cerca disperatamente di nascondere il proprio tracollo.

Ma di queste cose non è dato ragionare pubblicamente, perché tutto può far notizia tranne la conferma della raggiunta insostenibilità del sistema. Con “insostenibilità” non s’intende che domani il mondo cadrà dal proprio asse. Piuttosto, più sobriamente, che i gestori delle economie occidentali continueranno a trovare il modo di gonfiare la mega-bolla speculativa, alimentando così ulteriormente un’inflazione strutturale che, peraltro, serve a mitigare i costi di rifinanziamento del debito (attraverso tassi reali negativi). Perché un modello economico che vive di espansione monetaria artificiale e cartolarizzazione infinita del debito può solo ambire a capitalizzare la svalutazione che spontaneamente ingenera. Indipendentemente da ciò che si pensa di Russia, Cina e altre autocrazie capitaliste, viene difficile biasimare il crescente numero di paesi del “sud del mondo” che fanno la coda per entrare nell’alleanza BRICS. Non hanno forse il diritto di provare a liberarsi da quella trappola economica che, grazie a entità misantropiche quali il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank, impone la dipendenza debitoria dal dollaro statunitense, con tutto il carico di macelleria sociale che ne consegue?

Prendiamone atto: la sostenibilità del “capitalismo neofeudale” in cui siamo entrati richiede rituali sempre più macabri. Dopo decenni di stabile declino, le economie “avanzate” non solo accelerano verso le sabbie mobili della stagflazione, ma sprofondano nel più totale delirio di onnipotenza autolesionistica. È il triste spettacolo dell’impero che inghiotte sé stesso. Finché, in un recente passato, si trattava di blandire i produttori di plusvalore alternando colpi di manganello alla carota del salario e del consumo, tutto bene. Veniva fin troppo facile fingersi buoni, democratici, e liberali. La scenografia che oscurava la prigione collettiva era ancora credibile, quasi realistica, persino appetibile. Le macchie di sangue sui muri venivano cancellate da passate di vernice chiamate “progresso”, “mobilità sociale”, “democrazia”, “consumismo”. Il capitale e i suoi burocrati riuscivano, insomma, nell’impresa di tenere accesi i desideri di quelle masse che al contempo sfruttavano, umiliavano, o contribuivano a massacrare in varie parti del “terzo mondo”.

Ora però la festa è finita. Il più grande teatro illusionistico della storia incanta solo gli opportunisti e gli utili idioti. E poiché l’American Dream si trasforma in incubo anche per le classi medie, non resta che passare alle maniere forti: propaganda, censura, inaudite manipolazioni di massa, somministrazione quotidiana di scenari farsesco-apocalittici, persino pulizie etniche e il ritorno della violenza politica contro i non-allineati. È il pilota automatico di un sistema che per sopravvivere al proprio fallimento trasforma ogni visione del futuro, dunque del possibile, in una visione di terrore. Siamo al divide et impera ontologico, per cui la crisi del capitale, che non ha vie d’uscita, viene scaricata direttamente sui teatri di guerra, e sulla retorica di divisioni politiche alimentate a tavolino. L’allarmismo H24 fa da necessario contrappeso agli effetti soffocanti di un “modello di crescita” basato su investimenti finanziari a leva affidati ad algoritmi quantistici – applicazione di intelligenza artificiale che qui come altrove non può che portare alla demolizione (in)controllata di intere società “(s)fondate sul lavoro”. In particolare, l’impero del Bene trasforma le proprie contraddizioni interne nell’imperativo morale della lotta contro un Nemico che s’accanisce contro vittime innocenti, e dunque va (o, nel caso della Russia, andrebbe) rieducato con le bombe.

È impressionante osservare quanta fatica impieghino anche le menti più acute a comprendere la logica immunitaria che lega un dispositivo socioeconomico obsoleto al proliferare di narrazioni escatologiche basate sulla produzione seriale di nemici. Soprattutto, non si afferrano le ragioni elementari per cui l’occidente continua a comportarsi come un ubriaco che cerca la rissa. Eppure, la logica è semplice: l’implosione viene affogata in un’assordante cacofonia di eventi dai toni più o meno catastrofici. Il suono delle bombe in Ucraina, Gaza, e Medio Oriente, così come il terrorismo da guerra ibrida, le minacce di escalation nucleare, e gli attentati politici, sono l’accompagnamento sinfonico all’inarrestabile declino dell’impero del Bene. Solo il continuo “rumore emergenziale” può preservare l’illusione della sostenibilità di un modello di civiltà arrivato a fine corsa. Ma è doveroso chiedersi: fino a che punto sarà possibile riciclare il presagio dell’inaudito nella mera provocazione apocalittica?

Guardiamoci intorno, i pupazzi sono usciti allo scoperto. Non si nascondono più dietro a narrazioni finto-idealistiche come l’esportazione della democrazia e del benessere. Piuttosto, da miseri burocrati in carriera quali sono, leggono dallo stesso copione distopico. Il frontman NATO Jens Stoltenberg (nomen omen) incita al conflitto diretto con la Russia, dichiarando senza alcun pudore che dietro la crociata in Ucraina c’è lo scontro con la Cina. Larry Fink (capoccia di BlackRock, con Vanguard la vera cupola dell’impero) sdogana la tesi eugenetica della riduzione della popolazione come incentivo alla competitività: ‘I problemi sociali legati alla sostituzione degli esseri umani con le macchine saranno più facili da gestire nei paesi sviluppati che hanno una popolazione in declino.’ Forse allora dovremmo chiederci: declineremo da soli o ci declineranno loro? E quali sono le vere alternative? Ormai in molti hanno compreso che i barbari non sono alle porte, perché sono tutti dentro. Fanno parte dell’impianto scenico, una coreografia da film hollywoodiano distopico. Per questo non ci è difficile ipotizzare che il capitale e i suoi viscidi funzionari possano ricorrere a soluzioni eugenetiche. Perché nei termini utilitaristici del capitale-mondo, l’energia di una forza-lavoro ridondante deve estinguersi o essere distrutta.

Amin Samman e Stefano Sgambati hanno osservato che ‘l’attuale sistema finanziario opera sulla base di una “apocalisse mobile”, programmando e rinviando continuamente milioni di punti terminali attorno ai quali sono organizzate vite e mezzi di sostentamento.’

‘In questo modo, la finanziarizzazione del capitalismo installa l’escatologia nel cuore della vita quotidiana, vincolando il soggetto contemporaneo alle finalità della finanza attraverso la circolazione infinita del debito. Viviamo tutti all’ombra dell’eschaton finanziario, indipendentemente da come ci troviamo inseriti nella macchina finanziaria, e il risultato è un trasferimento sull’economia del debito di tutto il carico psicologico precedentemente riservato alla fine della storia.’[4]

Questa argomentazione può essere sviluppata rigirandola su sé stessa: la bomba a orologeria inserita nel cuore dell’economia a leva viene ora impiegata direttamente come arma bio- o geopolitica, affinché incarni esplicitamente “il tempo della fine” (eschaton) nell’immaginario collettivo. Ciò porta alla luce il contenuto represso della tesi sulla “fine della storia” di Francis Fukuyama[5]. La famosa affermazione che la liberaldemocrazia occidentale rappresenta la forma finale del governo umano si realizza, oggi, nel collasso del futuro in un presente claustrofobico, soffocato nelle dinamiche violente del debito e nella continua minaccia di catastrofi globali: le liturgie escatologiche, ma prive di redenzione, di ciò che ho definito “capitalismo emergenziale”, o “economia libidica dell’apocalisse”.

Qui occorre essere precisi: l’annullamento del futuro coincide con la crisi finale del capitale, ben rappresentata dalla crescente inconsistenza del denaro. Il capitale monetario emerge ora come pura performatività autoriflessiva, circolazione infinita di debito improduttivo, che non realizza altro se non il nulla della propria auto-proliferazione. Nell’era del capitalismo dell’ultra-finanza, il denaro viene creato ex nihilo sotto forma di byte elettronici sugli schermi dei computer delle banche, e quanto più velocemente circola come debito da rifinanziare, tanto più accelera verso il suo destino rovinoso. Se è vero che nell’olimpo finanziario il debito non viene saldato ma piuttosto cartolarizzato e investito come asset in un loop potenzialmente infinito, in realtà questo meccanismo è sempre più esposto a fragilità estreme – motivo per cui il fantasma dell’apocalisse deve circolare direttamente nella realtà quotidiana, sotto forma di catastrofe pandemica (Covid), naturale (cambiamento climatico), geopolitica (Putin), e chissà cos’altro ancora. La caratteristica principale del soft power occidentale è questa forma di governo totalitario basato su retorica allarmistica, capace di spostare la criticità di sistema su entità esterne, aliene, e minacciose rispetto al nostro “stile di vita”.

Negli ultimi anni abbiamo assistito all’accelerazione di questo modello di governance. In passato bastava soffiare sul fuoco, magari con un ventaglio di bigliettoni verdi. Così fu, per esempio, nell’ex-Jugoslavia quando, dal 1993, i sauditi finanziarono un’operazione segreta per la consegna di 300 milioni di dollari in armamenti al governo bosniaco, con la tacita collaborazione degli Stati Uniti e in diretta violazione dell’embargo delle Nazioni Unite (che la stessa Washington si era impegnata a far rispettare). Questo come viatico alle criminali bombe NATO sulla Serbia; sulle quali, ricordiamolo, disegnarono cuoricini anche Massimo D’Alema (Presidente del Consiglio), Sergio Mattarella (Vicepresidente del Consiglio, con delega ai servizi di sicurezza), e tutto il governo italiano di “centro-sinistra”, evidentemente ansioso di accompagnare la NATO nell’espansione a Est. Come ha riassunto Jeffrey Sachs[6] in una recente intervista: ‘Nel 1999 abbiamo bombardato Belgrado [senza autorizzazione ONU] per 78 giorni, al fine di dividere la Serbia attraverso la creazione di un nuovo stato, il Kosovo, dove ora abbiamo la più grande base militare NATO nell’Europa sudorientale (Bondsteel).’

Oggi la guida USA-NATO istruisce i cagnolini europei ad abbaiare più forte contro il Nemico, e i sottoposti, impegolati in antiche gelosie, fanno a gara per ritagliarsi lo spazio warholiano dei quindici minuti di protagonismo geopolitico. Dopo le sanzioni boomerang arrivano i missili boomerang: l’autorizzazione a colpire il suolo russo con armi occidentali che, se insistita, non potrà che ritorcersi contro i sudditi europei mandati ad immolarsi per l’Imperatore. E come non bastasse è arrivato anche il taglietto della BCE ai tassi d’interesse (mentre la medesima alza le stime inflazionistiche!), che di fatto segna un ulteriore sacrificio a sostegno della bolla azionaria USA. Perché la decisione di svalutare l’euro dello 0.25% non serve a nulla se non a dirottare capitali verso il mercato statunitense, la cui ampiezza (rapporto tra azioni in rialzo e azioni in calo in un dato indice), come sottolinea persino Bloomberg, ha raggiunto il suo punto più basso dal 2009, ed è sorretta quasi esclusivamente dal comparto tech (Nvidia in primis).

Ecco dunque svelata la funzione del “progetto UE,” che, come ci ricorda Giorgio Agamben, non ha alcuna validità politico-giuridica in quanto mero patto tra stati privo di fondamento popolare: la Costituzione Europea (2004) fu clamorosamente bocciata nei referendum francesi e olandesi del 2005, poi accantonata, e infine sostituita dal Trattato di Lisbona (2007) – documento che ci si guarda bene dal sottoporre all’approvazione del popolino brutto sporco e cattivo. D’altronde, è arcinoto che il Parlamento europeo è un organo velleitario in quanto privo di quel potere legislativo che invece afferisce alla Commissione, la cui attuale papessa (Ursula) è espressione diretta delle élite di Washington e dunque lontana dall’elettorato quanto la stella Earendel dal pianeta Terra.

Tuttavia, l’occidente continua a rifiutare l’introspezione, preferendo invocare l’Altro come male assoluto. Per quanto l’esaurimento della civiltà capitalistica sia globale, e sullo scacchiere geopolitico non s’intraveda alcun modello di emancipazione realmente alternativo a quello attuale, l’odierno sentimento antirusso è frutto di una consolidata tradizione ideologica. Perché i russi sono da sempre considerati razza inferiore, barbari mischiati con i Mongoli e dunque di natura infida, dalle “caratteristiche asiatiche.” La russofobia è un’arma di tutto riguardo nell’arsenale della dottrina geopolitica occidentale. Non importa se zaristi, socialisti o capitalisti di ultima generazione, visti da ovest i russi da sempre ci appaiono come autocratici sottosviluppati affetti da libidine da dominio. Freud, giustamente, direbbe che proiettiamo sul Nemico mangiabambini le violente pulsioni coltivate nell’orto di casa. E oggi questa secolare russofobia – sorta di discarica a cielo aperto del rimosso occidentale – serve a nascondere il fatto che il capitalismo, nella sua veste più moderna e avanzata di “stamperia globale”, ha raggiunto l’età dell’impotenza. Detta con Hegel, l’occidente è una ‘forma di vita invecchiata’ – che però si crede ancora giovane e piena di energia.

Nel frattempo, il viagra del denaro facile sottoscritto dalle banche centrali ha talmente rincitrullito le oligarchie occidentali da far loro dimenticare di essersi deindustrializzate al punto da non poter più neppure produrre armi e munizioni sufficienti a salvare le apparenze. E così ripartono i mega investimenti (a debito) per il comparto tech-militare. Alla base della nuova corsa alle armi c’è sempre la dipendenza dal feticcio della bolla speculativa: trilioni (quadrilioni se contiamo i derivati) di denaro privo di sostanza valoriale – cioè scorporato dal lavoro umano – che orbitano sopra le nostre teste a ritmi vertiginosi grazie a massicce iniezioni di moneta inflattiva. Come dire: la virtualizzazione dell’economia (denaro che si auto-feconda senza valorizzarsi, ovvero senza attraversare i corpi dei lavoratori che producono merci) ingenera ora una serie di grotteschi spettacoli da grand guignol che potremmo leggere, in chiave ironica, attraverso l’immortale adagio di Totò: ‘armiamoci e partite, io vi seguo dopo.’ Questo perché l’occidente arriva per primo all’esperienza del collasso. Negli anni in cui Fukuyama vergava il suo poco lungimirante classico, la fuga dei capitali nell’eldorado finanziario aveva già iniziato a decostruire le società capitalistiche “avanzate”, spingendole all’attuale condizione parossistica per cui si spende più per rifinanziare il debito sovrano che per la riproduzione sociale (lavoro, infrastrutture, trasporti, agricoltura, educazione, sanità, ecc.). Non per nulla Fredric Jameson definì il postmodernismo (e la decostruzione) come una sorta di tintura per capelli del “tardo capitalismo” neoliberista, in quanto consegnava a quel progetto di violenta frammentazione sociale una hybris culturale tipicamente borghese: ‘tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l’espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell’America nel mondo: in questo senso, come per l’intera storia di classe, l’altra faccia della cultura è sangue, morte, tortura e orrore.’[7]

D’altronde, è difficile immaginare che una civiltà si sbarazzi allegramente degli idoli che ne hanno segnato la storia. La Russia è in questo senso un obiettivo storicamente comodo, pratico, e funzionale. Che nell’epoca moderna sia stata bersaglio di espansionismo da ovest era un tempo materia da scuole medie. Polonia (inizio Seicento), Impero svedese (fine Settecento), Impero napoleonico (inizio Ottocento), Germania (Prima e Seconda guerra mondiale) – invasioni che si sono tradotte in territori occupati, risorse devastate e depredate, perdita di una parte ingente della popolazione; e altrettante sconfitte. Il crollo dell’URSS determinò poi un vuoto geopolitico in cui si infilò subito l’egemone, installando al potere un presidente alcolizzato (Boris Eltsin) che avvallò il saccheggio sistematico delle immense risorse, liberalizzando e privatizzando tutto il possibile. Imperialismo allo stato brado passato per spontaneo processo di democratizzazione. Il risultato, per la popolazione russa, fu un’enorme catastrofe sociale, economica, culturale, e demografica.

Per comprendere l’attuale ondata di russofobia basterebbe consultare La Grande Scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, di Zbigniew Brzezinsky (uscito nel 1997). Brzezinsky – consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, co-fondatore con David Rockefeller della Commissione Trilaterale (1973), e nota eminenza grigia della politica estera statunitense dall’amministrazione di Lyndon Johnson fino a quella di Barack Obama – espone chiaramente l’importanza dell’Ucraina come ‘perno geopolitico’ per il mantenimento della supremazia statunitense nel continente eurasiatico – a conferma che “l’operazione Ucraina” era da tempo stata messa in cantiere. Dare sostegno all’indipendenza ucraina, offrendo l’adesione alla NATO e all’UE (Brzezinsky parla del decennio 2005-2015 come ‘periodo di tempo ragionevole’), sarebbe stato fondamentale per raggiungere questo scopo. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto ‘attribuire un valore aggiunto all’intrigo e alla manipolazione al fine di prevenire l’emergere di una coalizione ostile che potesse eventualmente cercare di sfidare il primato americano. […] Il compito più immediato è quello di garantire che nessuno stato o combinazione di stati acquisisca la capacità di espellere gli Stati Uniti dall’Eurasia o di diminuire significativamente il loro ruolo egemonico.’[8]

Condizioni altrettanto chiare venivano poste alla Russia: accettare il primato globale degli Stati Uniti o auto-condannarsi al ruolo di “emarginato eurasiatico”. Per quanto Brzezinsky avesse previsto rischi e difficoltà, contava sul fatto che la terapia d’urto dell’ultra-liberalizzazione imposta tramite Eltsin avrebbe a lungo favorito gli USA. Ma presto l’ottimismo degli anni Novanta svanì, ed emerse un quadro diverso. La ripresa della Russia sotto Putin, la crescita economica sostenuta della Cina, e il fallimento della politica estera neocon dopo l’11 settembre hanno, da una parte, spinto Washington a mettere quasi tutte le uova capitaliste nel paniere finanziario; e dall’altra ad accelerare l’opzione del sabotaggio delle relazioni tra UE (Germania in primis) e Russia. È in tale contesto che va collocata l’escalation di quella strategia di ‘intrigo e manipolazione’ già caldeggiata da Brzezinsky.

Nel frattempo, la NATO era entrata in Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria (1999), paesi baltici, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia (2004), Albania e Croazia (2009), mentre già dal 2008 si preparavano le carte a Georgia e Ucraina. Poi vi fu il golpe antirusso di piazza Maidan del 2014, la secessione delle Repubbliche russofone del Donbass, l’annessione della Crimea, la strage ucro-nazista di Odessa, e i ripetuti bombardamenti del Donbass (circa 14,000 vittime), fino all’Operazione Speciale del 2022 (tuttora venduta alle masse come invasione dei Cosacchi che presto, come da retorica da Guerra Fredda, porteranno i cavalli ad abbeverarsi alle fontane di San Pietro). Ma il piano originario di far implodere la Russia tramite sanzioni e armi all’Ucraina è subito fallito, rivelandosi un bluff da giocatore di poker (più che di scacchi). Ora l’autorizzazione a colpire il territorio russo con armi occidentali (maneggiate da intelligence occidentale) è, evidentemente, la mossa disperata di chi non ha altri argomenti che aumentare la percezione del rischio per proteggere gli ultimi due fragilissimi bastioni imperiali: il dollaro quale traballante valuta globale, e il complesso militar-industriale, funzionale alla creazione di finanziamenti dal nulla a sostegno della gigantesca bolla equities cui è appeso per la sacca testicolare il destino dell’impero stesso.

Contemporaneamente, sul fronte palestinese l’occidente tiene deliberatamente acceso un teatro di guerra ancor più raccapricciante: esseri umani da più di 70 anni trattati peggio delle bestie vengono fatti spostare tra le macerie per poi essere sterminati senza pietà, arsi vivi nella plastica dei loro miseri accampamenti, maciullati dalle bombe nelle scuole e negli ospedali. E su questa barbarie assoluta, che di per sé mette una pietra tombale sulla presunta superiorità morale e politica dell’occidente, si costruiscono solo penose recite mediatiche tra la fazione dei moralisti, improvvisamente risvegliatisi da istintivo torpore, e quella dei prezzolati propagandisti di regime. In pochi hanno il coraggio di collegare i puntini e mettere il dito nella piaga di un modello socioeconomico che si aggrappa alla guerra per non cadere nel vuoto. Perché al sistema servirebbe proprio un salto di qualità nel gioco al massacro, un sacrificio umano di dimensioni inaudite che consenta al capitale di fare quello che ha sempre fatto: riprodursi. Il capitalismo solipsistico dell’ultra-finanza si è già messo all’angolo da solo. Da almeno mezzo secolo lavora alla propria dissoluzione, che gestisce seminando panico e distruzione, fino alla promessa dell’apocalisse. Ma essendo null’altro che dinamismo pulsionale – ossessione per il rendimento oggi affidata all’algoritmo – il capitale non è in grado di riflettere su sé stesso in quanto causa del proprio male. Il suo motore auto-espansivo si è già schiantato contro un muro. Continuando ad accelerare arriverà presto alla completa auto-combustione.

Alleato alla tecnologia di terza e quarta rivoluzione industriale, il capitale è giocoforza asociale ed eugenetico. Ha da tempo inibito il suo dispositivo di riproduzione sociale incentrato sulla “necessità economica” dell’estrazione di plusvalore dalla merce-lavoro (l’ossessione per la fatica che ancora contraddistingue i moderni) da convertire in profitto attraverso la competizione. Su questo versante non c’è più nulla da fare: o si comincia realmente a costruire un mondo oltre il capitalismo, pianificando una via d’uscita collettiva dal cerchio magico della merce (“merda metafisica”, parafrasando Marx), o la tendenza distruttiva non potrà che accelerare. Pensiamo davvero che ci siano altre soluzioni, magari riformiste? C’è ancora chi ha il coraggio di usare questa parola in buona fede, senza sentirsi attraversato da un profondo senso di inutilità esistenziale? Siamo ben oltre il tempo massimo per le riforme. Siamo già nella fase in cui il capitale divora tutto, incluso sé stesso, pur di sostenere l’illusione della propria immortalità (illusione particolarmente dura a morire).

Le tecnologie digitali si sviluppano a ritmi incontenibili. Ma nonostante questa crescita esponenziale renda precario un sistema che insiste a definirsi “fondato sul lavoro produttivo di valore”, rimaniamo così legati alle categorie del capitale, e dunque alla sua autorità, che per disfarcene avremmo bisogno di uno sconvolgimento profondo delle nostre abitudini, e del coraggio di sgombrare l’ego dai suoi attuali contenuti. Viceversa continuiamo ad aggrapparci all’illusione che, se solo gestito meglio, il capitale saprà ancora una volta uscire vincitore dalla sua crisi “ciclica”. Scriveva l’anarchico Bonanno: ‘Gli sfruttati hanno quasi nostalgia di questa illusione. Hanno fatto il callo alle catene e ci si sono affezionati. Sognano qualche volta affascinanti sollevamenti e bagni di sangue, ma si lasciano abbagliare dalle parole delle nuove guide politiche.’[9] D’altronde, già Etienne de La Boétie, nel sedicesimo secolo, aveva posto la medesima questione nel Discorso sulla servitù volontaria: ‘Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura.’[10]

Oggi questa passione per la sudditanza, tra il nevrotico e il perverso, sembrerebbe seguire una doppia logica, che testimonia della natura divisa del potere stesso. Da una parte, sappiamo che ogni emergenza può essere manipolata attraverso il monopolio del codice del potere. Il capitale globalizzato si permette il lusso di fomentare conflitti per poi scommettere su entrambe le posizioni; ogni disputa può coincidere con i giochi di equilibrismo di chi manovra le leve del potere. Ma, occorre ribadirlo, il limite di questa visione sta nel sottovalutare la cecità autodistruttiva di un modello di socializzazione che ha come unico fine la propria espansione. Oggi il capitalismo d’emergenza ci lega al cappio dell’eschaton finanziario: come dimostrato nel 2020, una psico-pandemia può servire a chiuderci in casa e permettere al sistema di stampare trilioni di dollari da iniettare direttamente nel corpo finanziario, così da rinviarne il collasso. Tuttavia questi subdoli e criminali azzardi generano esplosive contraddizioni che le élite faticano a tenere sotto controllo. L’odierna manipolazione a sfondo escatologico può rapidamente avverarsi, trasformandosi in barbarie globale. Presumere che chi detiene il banco sia in grado di bluffare in eterno significa cedere alla più pericolosa delle illusioni.


[1] Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy (New York: Harper & Bros, 1942).

[2] L’Operation Twist è una strategia di politica monetaria (già utilizzata dopo la crisi del 2008) che consiste nella vendita di titoli di debito a breve termine finalizzata all’acquisto di titoli di debito a lunga scadenza, i cui tassi in questo modo vengono tenuti sotto controllo. Con l’utilizzo della Supplementary Leverage Ratio, invece, le banche beneficiano di una leva pressoché illimitata per l’acquisto di debito USA a un costo di finanziamento dello 0%; operazione che, in sostanza, consente alle grandi banche di fare QE per conto della Fed, assorbendo cioè quei titoli del Tesoro USA sempre più bistrattati.

[3] Al prossimo convegno sulla Bird Flu a Washington, DC (2-4 ottobre 2024) sono in programma gruppi di discussione sui seguenti temi: •Pianificazione della gestione delle morti di massa •Sorveglianza e gestione dei dati •Fornitura di vaccini e farmaci antivirali •Contromisure mediche •Impatto socio-economico sulle industrie del pollame e dell’allevamento •Valutazione rischi-benefici: sanità pubblica, industria e prospettive normative •Sforzi di educazione alla prevenzione e comunicazione dei rischi •Comando, controllo e gestione •Gestione della risposta alle emergenze •Pianificazione aziendale •Pianificazione dell’educazione scolastica •Pianificazione delle comunità.

[4] Amin Samman and Stefano Sgambati, ‘Financialising the Eschaton’, in Clickbait Capitalism. Economies of Desire in the Twenty-First Century (ed. Amin Samman and Earl Gammon), pp. 191-208 (193) (mia traduzione dall’inglese).

[5] Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man (London: Penguin Books, 1992).

[6] Insieme ad altri accademici USA come Richard Falk e John Mearsheimer, Sachs da tempo condanna gli errori (e crimini) in politica estera commessi dai politici statunitensi, da Bill Clinton a Joe Biden passando per George W. Bush, Barack Obama, e Donald Trump. Gli illustri politologi non riconoscono però il legame causativo profondo tra l’implosione economica e l’emergenzialismo/avventurismo bellico.

[7] Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo (Milano: Garzanti, 1989), p. 15.

[8] Mia traduzione dall’inglese.

[9] Alfredo Bonanno, La gioia armata (Catania: Edizioni anarchismo, 2013 [1977]), p. 13.

[10] Etienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (Milano: Jaka Book, 1983), p. 42.

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