sabato 30 giugno 2018

L’osceno al centro della scena - Militant


Dovremmo fare tutti un po’ di sana autocritica, noi per primi. Per anni abbiamo sottovalutato Matteo Salvini tratteggiandolo come un razzista meschino e imbecille intento a giocare con le ruspe, complice forse quell’espressione non proprio sveglia che si porta dietro. In realtà, però, il leader leghista, pur confermando in pieno di essere un razzista estremamente gretto, sta dimostrando quantomeno di sapersi muovere politicamente. Nel giro di pochi anni ha liquidato l’eredità ingombrante (e imbarazzante) di Umberto Bossi e della sua famiglia di traffichini, trasformando la Lega da partito “nordista” e “secessionista” a partito populista con ambizioni nazionali e portandola dal 4 al 17%. Dopo di che ha regolato i conti nel centrodestra, ponendo di fatto fine alla leadership ventennale del suo ottuagenario fondatore e riuscendo paradossalmente laddove la sinistra antiberlusconiana aveva fallito per anni. Adesso, complice anche l’insipienza pentastellata, sta conquistando stabilmente il centro della scena politica dettando la sua agenda tanto agli alleati di governo quanto all’opposizione e imponendosi così come il leader di fatto della coalizione. Fateci caso: Di Maio è pressochè sparito dai radar dell’informazione, e con lui tutti i temi cari ai cinque stelle, mentre da settimane non si fa che parlare di fantomatiche invasioni di migranti e di una gestione più muscolare delle politiche migratorie.
In questo una grossa mano gliela sta dando anche certa sinistra e l’informazione liberal che si porta appresso, un’area politica che per quanto eterogenea sembra aver scelto il piano dell’antirazzismo umanitario come quello su cui costruire l’opposizione al governo. Senza capire che in questo modo si lascia Salvini proprio nella sua comfort zone, libero di twittare alla pancia rancorosa di un paese impoverito e incattivito proprio dalle politiche di austerità portate avanti proprio dalla “sinistra” e che su questo piano purtroppo lo segue. Per fare i feroci sui social coi più deboli o per litigare con Saviano a mezzo stampa non servono risorse, altra cosa è invece abolire la legge Fornero, come pure avevano promesso, oppure abrogare il jobs act, oppure ancora immaginare forme di sostegno al reddito per i disoccupati. I vincoli di bilancio imposti dalla Ue non potranno certo essere rotti a colpi di propaganda xenofoba. Sono queste le contraddizioni che, esplodendo, potrebbero fargli male, non certo le contumelie di qualche intellettuale illuminato. Ed è su questo piano e su quello dell’antirazzismo di classe che dovremo provare a lavorare nei prossimi anni, perchè altrimenti c’è il rischio che la sconfitta da storica diventi permanente.
da qui

Il fuggitivo - Olav Hergel

in Danimarca hanno paura dell'invasione dei poveri, la storia è quella di una giornalista che sta in Iraq e torna a casa diversa da come è partita.
un ragazzo carnefice e salvatore riesce ad arrivare a Copenhagen, e poi si scatena il circo mediatico e razzista.
ma non sono tutti così, per fortuna.
chi cerca un romanzo d'evasione provi da un'altra parte, gli altri non si staccheranno se non  all'ultima pagina.
a me è piaciuto molto.





…la storia passa dalle vicenda romanzesca alla cronaca della vita politica della civilissima Danimarca. L’odio per gli immigrati, la paura che la loro presenza danneggi il benessere raggiunto dal piccolo fortunato regno, l’alleanza con gli Usa di Gorge Bush spingono la maggior parte dei giornali e dei partiti politici ad una politica xenofoba, razzista, discriminatoria nei confronti degli immigrati e dei rifugiati, anche se ammantata da affermazioni solo formalmente “politically correct”; ne esce un quadro di egoismo nazionalista contrastato solo dalla Svezia, che soprattutto nella parte finale del romanzo, la più coinvolgente, sembra voler dare una lezione di democrazia solidale a chi, al contrario, sembra averla del tutto smarrita. Il dubbio che coglie i protagonisti, incerti se seguire leggi severissime che il paese scandinavo si è dato o la voce insistente della propria coscienza, attraversa gran parte della narrazione, stringata e fluente, anche se molto articolata e problematica. Una bella lezione anche per noi, che negli ultimi anni ci siamo trovati ad attuare la politica dei “respingimenti” e che in queste ore, per venire incontro agli enormi problemi che la Storia ci sta improvvisamente proponendo, chiediamo aiuto all’Europa: quale Europa, mi chiedo dopo aver letto questo durissimo romanzo-verità?

Trovato per caso in biblioteca. Semplicemente bellissimo e scritto benissimo. Leggetelo.

Hergel è un noto giornalista danese, vincitore del premio Cavling nel 2006 per un’inchiesta sui centri d’accoglienza in Danimarca. Il premio riappare in maniera preponderante nelle ultime pagine del libro, tanto da divenire il set delle vicende conclusive dell’intera storia. I meccanismi occulti del Quarto Potere, invece, vengono sezionati scrupolosamente pagina dopo pagina e offerti allo sguardo attonito del lettore per permettergli di crearsi un personalissimo Giudizio Finale.
Non stento a dubitare che il libro abbia scatenato un vespaio di polemiche, come afferma la quarta di copertina. Tra l’analisi spietata sul ruolo, le finalità e il modus operandi della stampa e della televisione, le decisioni politiche prese in materia di immigrazione dal paese che un paio di decenni fa era stato in grado di salvare migliaia di ebrei, e la gestione spietata dei profughi iracheni, per quasi 400 pagine la coscienza del lettore viene sbatacchiata come una bandiera al vento…

armi

































da qui 



venerdì 29 giugno 2018

Il gioco sporco sui rifugiati - Lorenzo Guadagnucci



Il 20 giugno è la Giornata internazionale del rifugiato ed è l’occasione per rammentare a opinioni pubbliche distratte (quelle dei paesi occidentali e benestanti) che nel mondo circa 68,5 milioni di persone si trovano costrette a vivere lontano da casa perché costrette alla fuga (un abitante del pianeta ogni 110). Un rapido esame delle cifre offre informazioni che sembrano confliggere con l’idea corrente dei flussi migratori: l’85% dei rifugiati si trova nei paesi del sud del mondo (di solito limitrofi a quelli di origine); oltre 40 milioni sono sfollati interni;  due terzi provengono da soli cinque stati: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Somalia e Myanmar, cioè paesi devastati da guerre pluriennali, più l’ex Birmania alle prese con la tragedia del popolo rohingya. 
Dunque l’Europa non è affatto il cuore dei flussi migratori, nonostante la drammatizzazione politica in corso da tempo. Basta alzare lo sguardo per constatare che siamo parte di un mondo complesso e che dovremmo considerare questa materia senza dimenticare che la Giornata cade il 20 giugno per un preciso motivo: ricordare la firma nel 1951 della Convenzione Onu per la protezione, appunto, dei rifugiati, un documento che è parte integrante del sistema di tutela dei diritti umani scaturito dalla carneficina della seconda guerra mondiale.
In Europa stiamo celebrando – diciamo così – questa ricorrenza civile con gesti violenti e regressivi quali la chiusura dei porti alla nave Aquarius e un dibattito politico ormai a senso unico, volto cioè a blindare le frontiere esterne dell’Unione. E’ una regressione che costituisce di per sé un arretramento delle nostre democrazie, sempre meno disposte a onorare i princìpi fondanti della civiltà giuridica occidentale di cui tanto – a parole – andiamo orgogliosi, in testa l’uguaglianza fra le persone e tutto quanto ne consegue.
La Giornata è anche l’occasione per mettere a nudo una mistificazione corrente nel discorso pubblico. Si sta cercando di affermare l’idea che ci siano due categorie di immigrati: i potenziali “rifugiati” in quanto richiedenti asilo perché in fuga dalle guerre e/o perseguitati politicamente – non proprio graditi ma in qualche modo “buoni” – e gli emigranti economici, per definizione “cattivi” perché in Europa non ci sarebbe posto per loro. Il nostro governo in questi giorni fornisce anche delle cifre – 10% i primi, 90% i secondi – che però non corrispondono a quelle ufficiali di Unhcr e altri enti (i richiedenti asilo sono in realtà il 40% del totale). 
Questa distinzione somiglia a un’altra pretesa separazione fra “buoni” e “cattivi” in voga fino a poco tempo fa: “clandestini” da una parte, “regolari“ dall’altra. Sono linee di demarcazione utili ad alimentare la retorica xenofoba che ben conosciamo ma del tutto inadatte a descrivere la realtà della vita. Così come tutti i “regolari” buoni sono stati in precedenza “clandestini” cattivi per la semplice ragione che none esistono in Italia sistemi di accesso legali per gli stranieri, così la distinzione fra rifugiati veri e rifugiati falsi è irrealistica e falsata da premesse sbagliate.
 A sentire i nostri ministri (in particolare un ministro) i rifugiati “veri” sarebbero esclusivamente le persone in fuga da guerre guerreggiate (grossomodo da Siria e Afghanistan): solo loro, si sostiene, possono ambire al diritto asilo, quindi alla condizione tecnica di rifugiato. Quest’accezione è in realtà riduttiva e ormai superata. Da un lato è ormai molto difficile distinguere le motivazioni dell’esodo di persone che vivono in paesi non solo dilaniati dai conflitti bellici, ma anche con economie e società distrutte da crisi ambientali e sistematica predazione economica; dall’altro lato, va considerato che alla nozione iniziale di rifugiato si sono aggiunti almeno altri due status: la “protezione sussidiaria” e la “protezione umanitaria”, allargando quindi le maglie dell’accoglienza. Negli anni ’50 l’idealtipo del rifugiato corrispondeva all’esule politico, al dissidente (specie nei paesi del blocco sovietico), poi la storia ha determinato un necessario aggiornamento, fino alla magmatica condizione odierna.    
In definitiva certe distinzioni hanno senso solo per chi vuole utilizzarle per limitare diritti e opportunità. Si dice: possiamo arrivare ad accettare gli uni, che sono oltretutto pochi (i “regolari”, i “rifugiati veri”) ma dobbiamo respingere gli altri, che oltretutto sono molti (i “clandestini”, i “migranti economici”). Su questa mistificazione si gioca – oggi, nella lotta politica di queste settimane e mesi – il nostro futuro e quello della stessa Europa. 
Si tratta di capire che tipo di società e di democrazie vogliamo, quanto le immaginiamo vicine all’idea di solidarietà transnazionale implicita nella Convenzione del 1951 o quanto, viceversa, siamo disposti a costruire muri fisici e normativi per chiudere i nostri piccoli mondi.

NON POTRANNO UCCIDERCI TUTTI – Patrizia Cecconi



Il 15 giugno era festa grande a Gaza, come in tutti i paesi a prevalenza musulmana. Una festa che non si ignora neanche laddove cadono senza sosta bombe devastatrici di vite e di intere comunità. Era il primo giorno dell’Eid fitr, quello che segue la fine del Ramadan e che ha ancor più importanza di quanto ne abbia il Natale nei paesi a prevalenza cristiana.
L’Eid fitr è la festa in cui i bambini hanno gli abiti nuovi e girano felici per le strade e le famiglie si fanno visita l’un l’altra. Anche nelle case dei recenti martiri si festeggia l’Eid ed è un’occasione per onorare il martire e ricordare che la sua morte è benedetta sebbene dolorosa.
Molti gazawi hanno deciso di passare questi giorni negli accampamenti della grande marcia lungo il confine. Israele, che non cessa mai di far sentire la sua presenza con il ronzio ossessivo dei droni-spia, ha partecipato all’Eid non solo con l’onnipresenza dei droni ma anche con alcuni missili lanciati su uno degli accampamenti in cui i ragazzi preparavano i temibili aquiloni diventati simbolo della grande marcia. Per fortuna niente vittime e l’Eid fitr continua per altri due giorni come previsto dal rito coranico.
Nei giorni precedenti l’Eid, cioè durante il Ramadan, è normale essere invitati all’iftar, cioè alla cena che interrompe il digiuno dopo il calar del sole. Queste cene sono un’immersione totale nello spirito del luogo. Uno spaccato sociologico che toglie ogni dubbio su quanto ci sia di falso negli stereotipi forniti dai media i quali, a parte pochissime eccezioni, si gingillano in cosiddette analisi di situazioni che non conoscono neanche per un affaccio veloce alla finestra.
Essere invitati all’iftar, in quanto stranieri, è una forma di rispetto e di affetto in tutta la Palestina. Essere invitati all’iftar nella Striscia di Gaza è anche qualcosa di più: è un ringraziamento per esserci, perché in una prigione come Gaza, in cui per gli stranieri è molto difficile entrare e per i gazawi è quasi impossibile uscire, anche se feriti o malati, esserci significa vedere e testimoniare. Testimoniare dal vivo e raccontare il vero, sempre che si abbia l’onestà intellettuale per farlo e non si dipenda dal libro paga di chi stabilisce cosa sia opportuno scrivere.
Quindi, stante la condizione di assoluta libertà di espressione, ecco una cronaca da Gaza arricchita dalle tante interviste informali raccolte durante questi incontri conviviali.
Due o tre sono le cose particolarmente rilevanti emerse in queste conversazioni ed una di queste è che, nonostante il taglio dell’elettricità da parte di Israele, ogni casa visitata è illuminata da luce elettrica e non da candele. Come mai? Forse che Israele, detentore dell’assedio e anche dell’elettricità, ha concesso più ore di luce? No. Il motivo è che i gazawi, in questi 11 anni di illegale assedio, hanno sviluppato su vari fronti la loro creatività. Mentre gli ospedali o le grandi strutture usano i generatori e, chi può, usa i pannelli solari, le singole abitazioni – spesso appartamenti arrampicati l’uno sull’altro in uno degli 8 campi profughi, o piccole case ricostruite alla meglio dopo l’ultimo terribile massacro del 2014 – non hanno la possibilità di usare un generatore, sia per il costo dello stesso, sia per il costo del carburante, e allora qualcuno si è inventato l’uso alternativo della batteria dell’automobile. Qualche piccola modifica per poterla alimentare nelle due o tre ore in cui Israele fa passare l’elettricità, cioè verso mezzanotte quando normalmente la famiglia ormai dorme, e qualche altra modifica per alimentare gli impianti domestici con l’energia accumulata nella batteriaet voila, il gioco è fatto: Israele vuole lasciare al buio Gaza e Gaza si attrezza sviluppando sistemi alternativi.
In questo periodo sembra che la scelta di rispondere in modo non violento alla negazione dei propri diritti abbia scatenato, in questa comunità di prigionieri, una grande fantasia creativa che ha preso il posto di frustrazione e rabbia. Lo si è visto nelle manifestazioni della Grande marcia del ritorno in cui ai micidiali lanci di tear gas un gruppo di manifestanti aveva organizzato il “rilancio” nel campo nemico usando racchettoni e racchette da tennis, o nel tentativo vagamente pitagorico di utilizzare gli specchi per confondere i cecchini, o nell’incendio dei copertoni il cui denso fumo nero impediva ai cecchini di prendere la mira, riducendo così il numero delle vittime che, comunque, sono state circa 130 alle quali si aggiungono oltre 13mila feriti. Ma l’idea principe è stata sicuramente quella delle mini mongolfiere e degli aquiloni con la codina accesa da far volare oltre la rete dell’assedio, spiegando così all’assediante che i gazawi non si arrendono e pretendono il riconoscimento dei loro diritti. Seguitano anche a spiegare, inascoltati dall’occidente, che dietro a queste decine di migliaia di uomini donne e bambini che si radunano lungo il confine non c’è il coordinamento di Hamas, né di altri partiti politici, bensì la riedizione di un tentativo già sperimentato, ma fallito, nel 2011 e cioè un movimento di base che scavalchi i partiti senza negarli, ma senza lasciarsi irretire dalle rivalità tra i vertici, e che tende a richiamarsi al concetto di fronte unico per ottenere i diritti affermati dall’ONU ma negati da Israele.
Questi i discorsi generali che hanno accompagnato le belle cene dell’iftarnell’ultima settimana del Ramadan. Ma a questi vanno aggiunti spunti e suggestioni che offrono inquietanti motivi di riflessione.
In parte per caso, in parte per scelta, nessuno degli incontri ha avuto come interlocutori militanti o simpatizzanti di Hamas, il partito al potere, il quale in passato ha scelto la lotta armata, compreso l’uso di kamikaze per ottenere senza mai riuscirci – il rispetto dei diritti del popolo palestinese da parte di Israele. Ormai Hamas ha preso un’altra via sebbene Israele trovi molto comodo nella sua propaganda con l’occidente attribuirgli la responsabilità di qualunque azione ostile, violenta o meno, ottenendo in tal modo due risultati: uno verso l’esterno, quello di screditare ogni azione legittima, quale la richiesta di applicare le Risoluzioni ONU, ammantandola di un falso velo di terrorismo grazie ai buoni servigi dei tanti opinion maker israelo-dipendenti. Verso l’interno, invece, quello di ottenere l’accredito di Hamas come organizzazione capace di muovere le masse dei gazawi anche se non sempre questo risponde al vero, restituendogli un carisma che ad un’analisi orientativa sembrava essere in caduta ibera.
I due argomenti più interessanti, oggetto delle interviste informali realizzate in questi giorni, hanno riguardato: 1) il comportamento dell’Anp, che qui viene regolarmente riportato al solo presidente Abu Mazen, considerato come responsabile unico della punizione collettiva imposta ai palestinesi di Gaza attraverso il taglio degli stipendi e 2) l’uccisione di bambini e teenager da parte di Israele. Questo secondo argomento creerà sicuramente disappunto e verrà attaccato brutalmente dalle organizzazioni sioniste, se questo articolo verrà letto, come già successo per altri lavori che sono stati oggetto di attacchi rabbiosi ma non destrutturanti di quanto affermato, visto che scriviamo solo ciò che è dimostrabile e documentabile.
Per quanto riguarda il taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di Gaza in carico al governo di Ramallah, taglio dovuto al tentativo di fiaccare Hamas accrescendo a dismisura la povertà nella Striscia, sperando in una qualche forma di sollevazione pro Anp, l’effetto si è dimostrato un boomerang dal punto di vista politico e un baratro dal punto di vista morale. A nessuno sfugge l’altissimo livello di vita di Abu Mazen e dei suoi figli, ricchi imprenditori probabilmente per loro proprio merito, ma tacciati di corruzione da tutti gli intervistati. L’amaro senso di tradimento probabilmente porta a queste risposte esasperate, ma queste sono comunque le risposte offerteci. Gaza è assediata, Israele tra i tanti crimini passati sotto silenzio commette anche quello di irrorare di glifosato le coltivazioni gazawe per impedirne il raccolto, e l’Autorità palestinese invece di sostenere i propri figli li getta in un’ancor più nera miseria! Questo non è percepito da nessuno dei miei interlocutori come un errore politico, ma da tutti come un crimine commesso contro i fratelli gazawi per un odio contro Hamas tanto cieco da favorire Israele. Questo dicono i Gazawi.
Agli occhi di un occidentale che non conosce la cultura palestinese tutto questo sembra confliggere col fatto che la Striscia sia piena di Università (nessuna completamente gratuita) e che le università siano piene di studenti e studentesse i quali vengono spessissimo da famiglie in cui si sopravvive grazie ai sussidi dell’Unrwa. Studenti che solo in bassa percentuale hanno partecipato alle manifestazioni al confine ma che plaudono alla grande marcia e che mostrano l’icona dell’infermiera Razan Al Najjar, o dell’artista Mohammed Abu Amr che scolpiva sulla sabbia, o del giornalista Yaser Murtaja, tutti resi martiri da Israele. Studenti che pur non partecipando direttamente alla grande marcia, plaudono alla geniale idea degli aquiloni che è stata capace di mettere in crisi il potentissimo apparato bellico israeliano. Si riconoscono in quelle figure di combattenti disarmati capaci di far vacillare l’immagine di Israele come onnipotente e danno il loro sostegno ideale anche se raramente hanno raggiunto i manifestanti al confine.
Uno dei miei intervistati, padre di alcuni studenti e prima persona che mi ha mostrato con un’espressione vagamente divertita l’apparato elettrico alternativo che illumina la sua casa, lo stesso che mi ha fatto avere come regalo un paio di quei bellissimi aquiloni, che difficilmente potrò riportare in Italia, è uno dei tanti dipendenti legati a Fatah e rimasto senza stipendio per la “lungimiranza” dell’Anp. Tra le tante cose dette, mi dice una frase che riporto testualmente: “Hamas non brilla per creatività, sono i nostri giovani la nostra forza e questo Israele lo sa e per questo li uccide”. E’ lapidaria e terribile la sua affermazione, la contesto. Statistiche alla mano non ho difficoltà a contestarla, non perché voglia difendere Israele, conosco bene la gravità dei suoi crimini e l’ancora maggior gravità del fatto che questi restino regolarmente impuniti, ma mi sembra un’affermazione impropria. Gli faccio notare che per ragioni statistiche, essendo la popolazione gazawa mediamente giovane dato l’alto numero di figli che arricchisce ogni famiglia, è normale che vengano uccisi più ragazzi giovani che popolazione matura. Non è così. Alla conversazione partecipa uno dei medici degli ospedali che hanno fatto miracoli per provare a salvare vite e arti e mi chiede se ricordo che durante la mia visita nel suo ospedale ben tre ragazzi erano stati colpiti ai genitali e resi sterili oltre che invalidi. Mi dice che altri hanno avuto lo stesso destino e che sono troppi perché il fatto possa essere considerato pura coincidenza. Israele ha paura della crescita demografica del popolo palestinese, questo lo sappiamo, ma questo non può significare lo sterminio scientifico di una generazione. Sinceramente mi sembra troppo e insisto nella mia posizione.
Ho davanti a me un uomo che ha conosciuto (come il 90% degli uomini palestinesi) le galere israeliane da quando aveva 16 anni. Arrestato mai per crimini, ma per la sua militanza in Fatah, cosa che ora forse non succederebbe più. Un uomo che la mentalità israeliana e il cinismo scientifico che l’accompagna li conosce bene. Accanto a lui ho un medico ospedaliero che nei suoi tanti anni di professione ha avuto non solo malati ma molti feriti dall’esercito detto il più morale del mondo. Anche lui mi dice che c’è grande scientificità, perfettamente mirata, nei crimini israeliani. Ho di fronte a me anche dei ragazzi che ancora non hanno avuto modo, per fortuna, di conoscere le galere israeliane ma che mi dicono di aver perso un gran numero di amici della loro età nei bombardamenti del 2014. Mi viene ricordato un episodio avvenuto in Cisgiordania negli anni “80 in cui vennero rese sterili circa duemila ragazze. Quattro conti e viene fuori che in un colpo solo Israele ha ridotto la popolazione potenziale di circa 16.000 persone che oggi, per effetto del moltiplicatore generazionale ne avrebbero probabilmente fatte nascere già almeno altre 32.000.
E’ spaventoso oltre che inquietante. Faccio ancora qualche obiezione ma poi mi faccio qualche conto veloce. Prendo in esame solo i due massacri maggiori degli ultimi dieci anni: Piombo fuso e Margine protettivo. Non so quanti diciottenni o ventenni o venticinquenni siano stati ammazzati ma so che sono stati la maggioranza dei circa 1450 morti di Piombo fuso e dei 2260 di Margine protettivo. So però quanti bambini sono stati ammazzati. Ben 318 nei soli 21 giorni del primo massacro e 570 più un migliaio resi invalidi a vita nei 49 giorni del secondo.
A parere dei miei intervistati tutto questo fa parte della lungimiranza strategica, tanto intelligente quanto cinica, dei governanti israeliani. Non solo di Netanyahu, ma di tutti i governanti israeliani e mi invitano a ricordare che molti di loro erano stati feroci terroristi prima della nascita dello Stato di Israele di cui poi sarebbero diventati onorevoli statisti.
Mi ripetono che questo rientra nella mentalità israeliana e che nessuna uccisione di palestinese in grado di procreare è casuale. “Sono i nostri giovani la nostra forza e per questo Israele li uccide” ripete il mio ospite. Però, con uno spirito assolutamente palestinese, aggiunge “ma non potrà ucciderli tutti e gli interessi che sostengono Israele non saranno eterni. Assaggia la zuppa di verdura che è speciale”. Si cambia registro così, qui a Gaza. Se non fosse così fosse sarebbero stati assuefatti e addomesticati. Qualcuno la chiama resilienza.
Mentre scrivo queste riflessioni dalla mia finestra entrano tre cose: l’insopportabile ronzio dei droni al quale non riuscirò mai ad abituarmi, un caldo che fino a poco fa pare abbia toccato i 42 gradi all’ombra e che mi ha tenuta bloccata in casa, e il rumore di clacson misto a tante voci che vengono dal porto. Tra un po’, appena spirerà un po’ di brezza scenderò sulla spiaggia che ho davanti al mio ufficio e che sarà piena di palestinesi in festa. La spiaggetta in cui nel 2014 vennero fatti a pezzi 4 bambini mentre giocavano a pallone. Ho sempre pensato si trattasse di crudeltà e sadismo, ma dopo le ultime interviste ho cambiato idea: Israele non ha soltanto bisogno di uccidere, come già scritto alcuni giorni fa, per una sindrome non superata dovuta all’olocausto, Israele ha anche l’obiettivo di uccidere per fermare la crescita del popolo palestinese. Lucidamente, scientemente, criminalmente.
Ripensando ad alcuni articoli di Gideon Levy, una delle firme più prestigiose del giornalismo israeliano progressista, mi rendo conto che Levy questo orrendo obiettivo lo denuncia da tempo. Ma solo l’impatto vis à vis con chi è direttamente colpito da questo progetto mi ha dato consapevolezza della sua mostruosità. Se Israele si salverà da se stesso sarà anche perché quella piccola minoranza di cui Gideon Levy fa parte e che rappresenta la parte sana del paese, riuscirà ad ostacolare questa deriva razzista o peggio.
Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.”
Per oggi è tutto, la festa continua comunque, nonostante l’ombra minacciosa di Israele, nonostante la cecità politica dell’Anp, nonostante il dolore per i tanti martiri, che però non sono assenti, basta entrare nelle case per vedere che anche loro partecipano all’Eid. Partecipano in forma di icona e di ritratti che riempiono i muri.

Come il Guardian ha aiutato gli antisemiti - Jonathan Cook

Ecco un piccolo esperimento mentale con cui anche il direttore del Guardian, Kath Viner, dovrebbe riuscire a destreggiarsi.



Chi aiuti quando censuri una vignetta che descrive i ben documentati crimini di guerra israeliani contro i palestinesi – e lo fai con la motivazione che le critiche a Israele sono antisemite?
La risposta è: aiuti gli antisemiti.
Ecco la vignetta che il Guardian non vuole che i suoi lettori vedano (Copertina). È stata disegnata da Steve Bell, probabilmente il più importante vignettista politico britannico. Mostra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu seduto accanto alla sua controparte britannica, Theresa May, a Downing Street.
La loro intima alleanza è offerta alle telecamere a un prezzo terribile per i palestinesi. La minuscola figura di Razan al-Najjar, una giovane infermiera palestinese assassinata la scorsa settimana a Gaza da un cecchino israeliano mentre soccorreva altri palestinesi uccisi e feriti da altri cecchini israeliani, funge da simbolo. Bruciata nel cuore di Downing Street tra Netanyahu e May, è la vittima sacrificale che alimenta la loro relazione di potere.
Quindi possiamo chiedere, che cosa potrebbe essere antisemita nella vignetta? Fa una generalizzazione sugli ebrei? No. Fa una generalizzazione sugli israeliani? No. Si occupa solo del falco leader di Israele. Ma in realtà, si potrebbe sostenere che non è nemmeno principalmente su Israele o Netanyahu. Probabilmente è meglio leggerla come un’accusa sul modo in cui i leader come May si accostano a Israele, come se le vite dei palestinesi fossero così irrilevanti da non dover essere prese in considerazione.
La vignetta accusa i calcoli immorali compiuti nel perseguimento del potere politico, il prezzo terribile pagato dalle vittime, e la nostra – collettività di spettatori – collusione in un sistema che privilegia i potenti e ignora i deboli. In altre parole, rappresenta tutto ciò che è il meglio delle vignette, o di quello che potrebbe essere definito giornalismo grafico. Lì dentro c’è il potere – e noi – che deve rendere conto.
Eppure il Guardian ha deciso che i suoi lettori devono essere protetti da questo messaggio. Ha preferito schierarsi con i potenti contro i deboli e dare la priorità alla sensibilità di uno stato con armi nucleari sulla sofferenza di un popolo senza stato tenuto prigioniero dal suo occupante.
Ma per quanto questo sia orribile, il Guardian ha fatto qualcosa di ancora peggiore. Ha giustificato questo terribile atto di censura accusando il vignettista di antisemitismo. Dalla corrispondenza che abbiamo visto da Bell, sembra che Viner e altri redattori abbiano ritenuto che presentare Razan al-Najjar come un pezzo di carbone umano che brucia possa suggerire parallelismi con i nazisti, i crematori e l’Olocausto.
Potremmo riflettere su quanto questo rivela sui limiti dell’arte dei vignettisti quando si tratta di rappresentare Israele, uno stato altamente militarizzato che celebra attualmente il 51° anno della sua belligerante occupazione dei territori palestinesi. Uno stato che sta tuttora commettendo regolari massacri di dimostranti palestinesi non armati che cercano di liberarsi dalla prigione di Gaza.
Mostrare i palestinesi come vittime sacrificali, secondo il Guardian, è antisemita.
E, come ha scoperto alcuni anni fa un altro grande vignettista britannico, Gerald Scarfe, presentare la realtà quotidiana dei palestinesi che sanguinano sotto l’occupazione è, secondo il Sunday Times, una calunnia a sangue.



 Nel frattempo, il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung ha recentemente licenziato il suo vignettista per antisemitismo dopo che aveva disegnato Netanyahu con un missile in mano mentre festeggia la possibilità di sfruttare la vittoria di Israele al concorso Eurovision.


In un post del mese scorso, ho descritto questo processo come la mistificazione dell’antisemitismo. Ho spiegato perché è così pericoloso e di come se ne abusa per chiudere ogni sorta di conversazioni politiche di cui abbiamo disperatamente bisogno – e non solo riguardo a Israele.
Ma qui voglio fare un ulteriore punto. L’atto di censura di Viner aiuta in realtà a realizzare quello che lei e gli altri redattori sostengono di voler raggiungere? Contribuisce a ridurre la minaccia dell’antisemitismo? La risposta è che non è così. Anzi, è vero il contrario: può solo servire a alimentare l’antisemitismo.
Quando le dure critiche a Israele e ai suoi leader sono messe a tacere – e di aspre critiche a Israele è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno – Israele viene trattato come un caso speciale. Trae beneficio da una specie di antisemitismo all’inverso, o filosemitismo.
Quando una comune caricatura di Netanyahu – molto meno cruda delle caricature di leader britannici e americani come Blair e Trump – viene denunciata come antisemita, è facile dedurre che i leader israeliani si aspettano e ricevono un trattamento preferenziale. Quando si mostra Netanyahu immerso nel sangue – come molti altri leader mondiali sono stati – si è fatti a pezzi come per una calunnia a sangue, è probabile che si concluda che i crimini di guerra israeliani sono autorizzati in modo univoco. Quando Netanyahu non può essere mostrato con un missile in mano, possiamo supporre che Israele disponga di una dispensa speciale per bombardare Gaza, indipendentemente dal costo in perdite di civili.
E quando vediamo la furia creata da una vignetta come quella di Bell, possiamo solo supporre che altri vignettisti meno affermati ne trarranno la giusta conclusione: stai lontano dal criticare Israele perché danneggerà la tua reputazione personale e professionale.
In tali circostanze, la logica del vero antisemita inizia a suonare più plausibile. Dice che “gli ebrei” controllano segretamente il mondo, i loro tentacoli sono dappertutto. Nessuno, nemmeno i paesi più potenti della terra, può resistere loro. È per questo che “gli ebrei” possono ottenere che una vignetta di Netanyahu sia censurata, perché “gli ebrei” possono intimidire i più grandi giornali e emittenti televisive, perché “gli ebrei” hanno i nostri politici in pugno.
Quando non riusciamo a far rendere conto a Israele; quando concediamo a Israele, uno stato presidio con armi nucleari, la sensibilità di una vittima dell’Olocausto; quando confondiamo le priorità morali in modo tale da innalzare i diritti di uno stato sui diritti dei palestinesi sue vittime, non solo alimentiamo i pregiudizi dell’antisemita, ma rendiamo i suoi argomenti seducenti per altri. Non aiutiamo a eliminare l’antisemitismo, incoraggiamo a diffonderlo.
Ecco perché Viner e il Guardian hanno peccato non solo contro Bell, e contro l’arte delle vignette politiche, e contro la giustizia per i palestinesi, ma anche contro gli ebrei e la loro sicurezza a lungo termine.
 (Traduzione: Simonetta Lambertini – Invictapalestina.org)


Il tempo della democrazia schedata - Matteo Saudino



Tra rabbia e delusione, tra rancore e indifferenza, tra cinismo e solitudine, la disumanizzazione della politica e l’imbarbarimento delle relazioni umane procedono drammaticamente senza sosta. E così dalle dichiarazioni contro le Ong, accusate di organizzare la deportazione di migranti-forza lavoro per conto di scafisti e speculatori della finanza (ebrei?), siamo passati alla chiusura dei porti e al respingimento di centinaia di uomini, donne e bambini in cerca di salvezza e di briciole di vita; e ancora, dalle frasi, considerate folkloristiche, sulle ruspe contro i campi rom siamo giunti alla proposta aberrante di procedere ad una schedatura etnica degli zingari presenti in Italia.
Anno dopo anno e giorno dopo giorno, stiamo assistendo, quasi inermi e lobotomizzati, alla frantumazione della nostra Costituzione e, di conseguenza, al rapido declino di quel poco che resta della nostra sempre più malata democrazia.
Gli spazi democratici di dissenso e di pensiero critico umanista stanno rapidamente evaporando, dalla scuola dell’alternanza alle piazze della repressione, dai luoghi del lavoro precario e sfruttato ai centri della in-cultura mercificata (televisiva e social), lasciando via libera e campo aperto al trionfo della violenza, della stupidità e dell’obbedienza. Stiamo assistendo ad una costante e dolorosa svolta regressiva della nostra vita associata.
Il nuovo governo italiano, cerca di ricomporre le lacerazioni sociali prodotte dal capitalismo globale, attraverso politiche di stampo razzista e discriminatorio, attuando moderne e cieche caccia alle streghe contro facili capri espiatori, che alimentano mortali guerre tra poveri. Le prime settimane del nuovo governo, poco giallo e tanto verde, hanno lanciato segnali tanto inequivocabili quanto inquietanti, che stanno raccogliendo un ampio consenso in molti strati della popolazione.

Il decennio di politiche liberiste e di austerità, portate avanti dai governi di centrosinistra e centrodestra e dai governi tecnici, ha creato uno spaventoso vuoto che ha inghiottito ogni possibilità e credibilità di una democrazia progressista; in tale buco nero, si è inserito il populismo sciacallo e senza popolo della Lega nazionalista e il populismo ondivago e qualunquista del M5S, sempre più cannibalizzato dal decisionismo rude, ignorante e carismatico di Matteo Salvini.
La sconfitta storica delle sinistre riformiste e governative è stata disarmante: la rinuncia alla costruzione di una società giusta e solidale, in cui rimettere profondamente in discussione i processi di alienazione e di sfruttamento del mercato e del capitalismo, e la scelta di trasformarsi in amministratori dello status quo a vantaggio di industriali e banchieri hanno prodotto un profondo scollamento con quella parte di società, fatta di pensionati, disoccupati, marginali, subalterni, lavoratori precari e salariati, che è stata maggiormente colpita dalla lunga crisi economica di inizio XXI secolo. In questa frammentazione sociale, è riemersa nel nostro Paese, come in altre parti d’Europa e del mondo, la voglia di uomini e di identità forti, pronti a tutelare non tanto la comunità, ma gli interessi privati dei singoli. Tali spinte autoritarie stanno generando, ancora una volta, mostri politici che, ben lungi dallo scagliarsi contro le cause strutturali che generano miseria e sfruttamento, si concentrano ad assicurare i mercati, ad agevolare le imprese, a detassare i grandi patrimoni e a regalare alle classi sociali meno abbienti delle belle crociate contro migranti, omosessuali, rom, centri sociali, Ong e sindacati.
In questo clima, il governo blu notte sta facendo della paura lo strumento centrale per dominare le società liquefatte del mercato. Muri, confini, porto d’armi, respingimenti, cultura de nemico, odio razziale, egoismo identitario e disprezzo della democrazia stanno diventando prospettive politiche e culturali egemoniche nella società italiana.
Gli anticorpi sono stati quasi azzerati da decenni di riformismo a favore delle classi dominanti e ora i condottieri del cambiamento che nulla cambia nella distribuzione della ricchezza, passano all’incasso politico, appoggiati da un popolo sempre più spaventato, ammaestrato al nulla e pertanto pericoloso. Siamo sempre di più di fronte ad un bivio. Se le crepe e le macerie di un capitalismo predone e coloniale non si trasformano nelle pietre di radicale rivoluzione sociale ed economica, fatta di mutualismo, di solidarietà, internazionalismo e di autogoverno dal basso, le nostre società e le nostre vite saranno destinate ad essere schiacciate dalla violenza dello sfruttamento, dell’autoritarismo e della guerra.
La volontà di schedare i rom ci riporta al 22 agosto del 1938, data dell’ultimo censimento su basi razziali in Italia, effettuato dalla Direzione Generale per la Demografia e la Razza, istituita da Mussolini presso il ministero degli interni per censire gli ebrei. Tutto ciò dovrebbe inquietarci, darci i brividi e indignarci profondamente. Invece, tutto sembra subire un processo di banalizzazione e normalizzazione. Possiamo tranquillamente minimizzare il tutto, continuare a ridere a scherzare o a ripetere che finalmente Salvini sta ridando dignità al popolo italiano. Ricordiamoci, però, che la democrazia è qualcosa di più che entrare in un supermercato, comprare un’auto a rate o guardare una partita di calcio. La democrazia è un bene comune prezioso, che richiede la presenza di cittadini, studenti e lavoratori sempre vigili e motivati, altrimenti vi è rischio di scambiare l’arrivo di una terribile notte buia e tempestosa con una passeggera e naturale eclissi di luna. La notte della democrazia inizia sempre con un crepuscolo, che pochi riconoscono come tale.

giovedì 28 giugno 2018

Camminare o morire: l’Algeria abbandona 13.000 rifugiati nel Sahara



Il rapporto della Associated Press riporta testimonianze di migranti e rifugiati provenienti dall’Africa lasciati morire nel deserto del Sahara.
L’Algeria ha abbandonato oltre 13.000 persone nel deserto del Sahara negli ultimi 14 mesi, tra cui donne incinte e bambini, espellendoli senza cibo o acqua e costringendoli a camminare, a volte sotto la minaccia delle armi, sotto un sole rovente. Alcuni non riescono mai a uscirne fuori vivi.
I migranti e i rifugiati espulsi si possono vedere all’orizzonte mentre arrivano a centinaia, apparendo dapprima come granelli in lontananza, con temperature fino a 48 gradi Celsius.
In Niger, dove la maggior parte giunge, i più fortunati zoppicano attraverso una desolata terra di nessuno di 15 km, fino al villaggio di confine di Assamaka.
Altri vagano per giorni prima che una squadra di soccorso delle Nazioni Unite riesca a trovarli.
Un numero incalcolabile muore; quasi tutti delle oltre due dozzine di sopravvissuti intervistati dall’agenzia The Associated Press hanno parlato di persone nei loro gruppi, che semplicemente sono svanite nel Sahara.
“Donne giacevano morte, uomini … Altre persone sono scomparse nel deserto perché non conoscevano la strada”, ha detto Janet Kamara, che all’epoca era incinta.
“Ognuno era soltanto per se stesso.“
Con una voce quasi priva di sentimento, ha ricordato almeno due notti all’aperto prima che il suo gruppo fosse salvato, ma ha detto di aver perso la cognizione del tempo.
“Ho perso mio figlio, il mio bambino“, ha detto Kamara, che è liberiana.
Un’altra donna poco più che ventenne è entrata in travaglio e ha perso il bambino, ha detto.
Le espulsioni di massa in Algeria sono aumentate da ottobre 2017, quando l’Unione europea ha rinnovato la pressione sui paesi nordafricani per far fronte ai migranti e ai rifugiati che vanno a nord verso l’Europa attraverso il Mar Mediterraneo o le barriere con la Spagna.
Un portavoce dell’UE ha detto che l’UE era a conoscenza di ciò che l’Algeria stava facendo, ma che i “paesi sovrani” possono espellere migranti e rifugiati finché sono conformi al diritto internazionale.

● ‘Gettati nel deserto
A differenza del Niger, l’Algeria non prende niente dei soldi dell’Unione europea destinati a contribuire alla crisi migratoria e dei rifugiati, sebbene abbia ricevuto 111,3 milioni di dollari in aiuti dall’Europa tra il 2014 e il 2017.
L’Algeria non fornisce dati per le sue espulsioni non volontarie. Ma il numero di persone che attraversano a piedi il Niger è aumentato da quando l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha iniziato a contarli nel maggio 2017, quando 135 persone sono state abbandonate, fino a 2.888 nell’aprile 2018.
In tutto, secondo l’IOM, un totale di 11.276 uomini, donne e bambini sono sopravvissuti alla marcia.
Almeno altri 2.500 sono stati costretti ad un viaggio simile nel vicino Mali, con un numero sconosciuto che è deceduto lungo la strada.
I migranti e rifugiati con cui AP ha parlato, che hanno descritto di essere stati arrestati centinaia alla volta, sono stati stipati in camion per ore fino a quello che è noto come Punto Zero, poi lasciati nel deserto e diretti verso il Niger. Camminano, a volte con armi puntate.
“C’erano persone che non ce la facevano. Si sono seduti e li abbiamo lasciati. Stavano soffrendo troppo“, ha detto Aliou Kande, 18enne del Senegal.
Kande ha detto che circa una dozzina di persone si sono arrese, crollando nella sabbia. Il suo gruppo di 1.000 ha vagato dalle 8:00 alle 19:00, ha detto. Non ha mai più visto le persone scomparse.
“Ci hanno gettato nel deserto, senza i nostri telefoni, senza soldi“, ha detto.

● ‘Non c’è alcuna pietà
I racconti dei migranti e dei rifugiati sono confermati dai video raccolti dall’AP per mesi, che mostrano centinaia di persone che barcollano lontano dalle file di camion e autobus, spargendosi sempre più attraverso il deserto.
Due persone hanno detto alla AP che dei gendarmi hanno sparato su di loro, e più video visti da AP hanno mostrato uomini in uniforme armati che facevano la guardia.
Il liberiano Ju Dennis ha filmato la sua deportazione con un telefono che teneva nascosto sul suo corpo. Mostra persone ammassate sul pavimento di un camion aperto, che cercano invano di riparare i loro corpi dal sole e di nascondersi dai gendarmi. Ha raccontato ogni passo della strada con una voce sommessa.
“Stai affrontando la deportazione in Algeria – non c’è alcuna pietà“, ha detto. “Voglio esporli ora … Noi siamo qui, e abbiamo visto quello che hanno fatto. E abbiamo ottenuto le prove“.
Le autorità algerine hanno rifiutato di commentare. Ma in passato l’Algeria ha negato le critiche secondo cui sta commettendo violazioni dei diritti abbandonando migranti e rifugiati nel deserto, definendo le accuse come una “campagna malevola” destinata a infiammare i paesi vicini.

● ‘Killer veloce
Il Sahara è un killer veloce che lascia dietro di sé poche prove. L’IOM ha stimato che per ogni persona che si sa essere morta attraversando il Mediterraneo, ben due sono perse nel deserto – potenzialmente oltre 30.000 persone dal 2014.
Il vasto flusso di persone mette a dura prova tutti i punti lungo il percorso.
“Arrivano a migliaia. Questa volta, le espulsioni che sto vedendo, non ho mai visto nulla di simile“, ha detto Alhoussan Adouwal, un funzionario dell’IOM che si è trasferito ad Assamaka per inviare l’allarme quando arriva un nuovo gruppo.
Quindi cerca di organizzare il salvataggio per quelli ancora nel deserto. “È una catastrofe“.
La maggior parte sceglie di partire con un autobus della IOM per la città di Arlit, circa sei ore a sud attraverso una sabbia soffice. E poi ad Agadez, la città del Niger che è stata un crocevia per il commercio e le migrazioni africane per generazioni.
Alla fine, torneranno nei loro paesi d’origine sui voli sponsorizzati dall’IOM.
Anche se questi migranti e rifugiati si spostano verso sud, incrociano quelli che stanno facendo il viaggio verso nord, verso l’Algeria e l’Europa.
Ogni lunedì sera decine di camion pieni di gente speranzosa attraversano un checkpoint ai margini della città.
Sono completamente carichi di acqua e di persone che impugnano bastoni, con i loro occhi fermamente fissi sul futuro.



Povera scuola, così hanno fatto a pezzi la catena del sapere - Salvatore Settis




Fra i tanti vaccini in giro, manca proprio quello oggi più urgente: il vaccino contro la politica personalistica, una peste berluscon-renziana. Se lo avessimo (e in dosi massicce) potremmo salvarci, tra l’altro, dal frivolo gioco di società detto“toto-ministri ”. Quasi che, trovato il ministro, si risolvessero d’incanto i problemi dell’economia, della cultura, dell’ambiente, della sanità. Ma anche i migliori esperti non hanno virtù taumaturgiche, e nulla potranno fare senza un progetto complessivo, un’idea di futuro. Dovremmo dunque concentrare l’attenzione non sulle persone ma sui problemi, sulle cose da fare. Per esempio, la scuola.

Funestata, nei discorsi correnti, da un bivio paradossale: da un lato, c’è chi sostiene che la scuola italiana è arretrata, sotto le medie Ocse e così via; dall’altro, chi pensa che la scuola italiana, per la formazione ad ampio ventaglio che offre nei licei, sia la migliore del mondo, e che le recenti riforme l’abbiano solo peggiorata. Confrontare le ragioni degli uni e degli altri sarebbe dunque indispensabile. Ma proviamo a prendere il discorso da un terzo punto di vista, quello delle generazioni future. Quale Italia ci aspettiamo da loro (o meglio: loro da noi), e da quale scuola?

Per millenni, tutte le culture umane hanno elaborato e trasmesso conoscenze. Lo hanno fatto nelle famiglie, nelle botteghe artigiane, nei templi, nelle caserme, negli ospedali, per le strade, nelle scuole. Il cuore di questo meccanismo di trasmissione della conoscenza è sempre stato il rapporto fra le generazioni: i più giovani hanno imparato qualcosa dai meno giovani. Ci sono sempre stati buoni maestri, quelli che praticano con passione e impegno il proprio mestiere e sanno comunicare ai giovani curiosità, interesse, entusiasmo; e ci sono sempre stati cattivi maestri, scontenti di sé, insicuri, incapaci di dialogare e di suscitare attenzione. Ma quel che stimola ogni trasmissione di conoscenza è l’appassionata pratica di un sapere e il conseguente desiderio di trasmetterlo ai più giovani. La conoscenza si propaga per contatto fra esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso da una generazione all’altra.

Questa catena millenaria sembra essersi spezzata. Da alcuni decenni è di moda credere che per insegnare, poniamo, la matematica o la storia non basta conoscere bene queste discipline, ma è indispensabile praticare qualcos’altro, che le supera e le contiene: la didattica della ma- tematica, la didattica della storia. Questa perniciosa petitio principii ha infettato le nostre menti, ma anche le circolari ministeriali, i meccanismi di reclutamento e di valutazione. La didattica, o pedagogia che dir si voglia, tende così a diventare non un sapere fra gli altri, bensì una sorta di super-disciplina che pretende di superare o contenere tutte le altre. Di conseguenza, si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa. Principio, questo, che non vale nei saperi più elementari e indispensabili che pratichiamo ( l’agricoltura, la cucina…), ma che si ritiene debba valere per la scuola.

Di sofisma in sofisma, potremmo allora chiederci : ma per insegnare la didattica della matematica, non ci vorrà, “a monte”, un insegnamento di didattica della didattica della matematica? E così via rinculando, finché a furia di parlare del come e non del che cosa si deve insegnare a scuola, i contenuti si perdono nel nulla, e quel che resta è il burocratico rituale di un insegnamento-scatola vuota. La sapienza specifica dell’insegnante diventa un bagaglio ingombrante, se “sapere la matematica” (o la storia) conta poco o niente, se vale solo una tecnica dell’insegnare che è parente stretta della “scienza della comunicazione” e della pubblicità commerciale.

Concentrarsi sulle modalità dell’ insegnamento e non sui suoi contenuti. Questa sembra essere la parola d’ordine della nuova scuola, “buona” o cattiva che sia. Si viene così a creare una perversa simmetria: agli insegnanti si chiede di spostare l’accento, nella loro preparazione e nel loro lavoro, dai contenuti ai metodi d’ insegnamento. Agli studenti si chiede di spostare l’accento dalla elaborazione della conoscenza all’acquisizione di abilità, competenze, skills. La scuola così intesa può forse ancora ( stancamente) trasmettere nozioni, ma non la passione di sapere. Le nozioni, una volta acquisite, non serviranno a pensare il futuro creativamente, ma a eseguire questo o quel lavoro lungo binari prestabiliti. Da una scuola così concepita resta ovviamente fuori lo spirito critico, il senso del dubbio, la vigilanza intellettuale sulle informazioni ricevute e sulle nozioni correnti, il desiderio di controllare quel che ci vien detto, la capacità di ragionarne con indipendenza di giudizio, la creatività. Restano fuori le virtù essenziali di un buon cittadino.

Ma in verità l’insegnante ideale è chi sa benissimo la storia o la matematica, vi dedica la miglior parte del suo tempo, e ha elaborato la passione di trasmetterla perché la considera non solo utile, ma “bella” da coltivare, da conoscere e da far conoscere. Solo un insegnante come questo (e per nostra fortuna nella scuola italiana ce ne sono ancora migliaia) saprà davvero trasmettere, attraverso la storia o la matematica, la capacità di ragionare con rigore che è la dote più preziosa di ogni essere umano. Questo insegnare con passione (per i contenuti, non per i metodi) presuppone una concezione della scuola come luogo dove si insegna a pensare, non a “fare cose” che appaiano immediatamente produttive, secondo gli indecenti equivoci della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”.

E prima di scegliere da che parte stare, pensate un momento: salireste mai su un aereo sapendo che ai comandi non c’è un bravissimo pilota, ma un esperto in didattica del pilotaggio?


mercoledì 27 giugno 2018

Anche noi, delegati Fiom, siamo arrivati qui da migranti economici




Il 17 giugno dopo nove giorni di viaggio estenuanti la nave Aquarius è approdata finalmente al porto di Valencia. Altre ne arriveranno, perché non è bloccando i porti o dichiarando guerra alle Ong che si risolve il problema dell’immigrazione. Sarebbe necessario informare il ministro degli interni e l’opinione pubblica attanagliata dalla propaganda xenofoba che l’Italia ha di fronte un continente con decine di conflitti in corso. Cosi come bisognerebbe ricordare al ministro che l’apporto dei migranti all’economia italiana si aggira intorno a 9,6% del pil, con 8 miliardi annui di contributi previdenziali e almeno 5 miliardi di tasse versate all’erario. In Italia, contrariamente a ciò che comunemente si pensa, il volume della popolazione immigrata è da anni stazionaria, poco sopra i 5 milioni di persone, compresi 1,2 milioni di cittadini rumeni dall’interno della Ue. Bisognerebbe ricordare al ministro che in Italia esiste una Costituzione definita la più bella del mondo, una società civile che non si riconosce nelle politiche di odio e che intende agire con fermezza e continuità affermando i principi di civiltà e di solidarietà sancite dalla Costituzione.
Dobbiamo sviluppare tutte le forme di lotta democratica dentro e fuori dai luoghi di lavoro per contrastare questa ondata di odio e di razzismo contro essere umani sfuggiti da povertà e guerre che ci trovano spesso corresponsabili direttamente o indirettamente poiché continuiamo a vendere armi a chiunque. L’avversità di tutti i governi europei nei confronti dei cosiddetti migranti economici, uomini e donne che lasciano i loro Paesi per fuggire dalla povertà dalla fame, è inconcepibile. Forse non tutti sanno che gli italiani emigrati all’estero negli ultimi due anni per migliorare la loro condizione sono stati più numerosi dei migranti economici arrivati nel nostro Paese. Migrare per ricercare una vita migliore, per sé e per i propri figli, dovrebbe essere un diritto di tutti.
È compito dei sindacati e di tutti le compagne e i compagni della Fiom mettere in campo a propria capacità organizzativa per contrastare la sottocultura dell’odio che si alimenta di paure e si è fatta legge con la Bossi-Fini.
Anche noi siamo arrivati in questo Paese, l’Italia, per motivi «economici», per cercare un lavoro dignitoso: i nostri figli sono italiani di fatto ma non di diritto, frequentano le scuole italiane, vivono da italiani.
Abbiamo quindi il dovere morale di costruire per loro una società basata sulla conoscenza, sul rispetto reciproco e sulla convivenza pacifica e civile tra diversi, proprio come prevede la Costituzione.
Integrazione e inclusione sono obiettivi raggiungibili: lo dimostra il fatto che nei luoghi di lavoro la coesione tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri già esiste. La fabbrica oggi è l’unico luogo veramente democratico e inclusivo dove i lavoratori migranti possono votare i loro rappresentanti sindacali e a loro volta possono candidarsi e venire eletti per rappresentare tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro provenienza e dalla loro religione. Per questo è importante che dalla Fiom parta un’iniziativa sulle questioni relative all’immigrazione che coinvolga tutte le strutture e tutti i delegati a partire dall’evento che si terrà a Lamezia Terme il 16 luglio. Invitiamo tutte e tutti a partecipare a quell’iniziativa e a tutte le altre che verranno messe in campo su questi temi nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Madnack Luximan, Comitato centrale Fiom
Ben Houmane El Araby, Comitato centrale Fiom
Saoui Khalid, Comitato centrale Fiom
Lucia Alejandra Lucero De Cavalcanti – Seg. Gen. Fiom Parma –Comitato Centrale Fiom
Seck Mamadou segretario generale Fiom-Cgil Asti – Comitato Centrale Fiom
Cisse Falilou Verona Comitato Centrale Fiom
Tamba Famara Treviso Comitato Centrale Fiom
Banja Edgar Trieste Comitato Centrale Fiom
Rizki Mohamed Modena Comitato Centrale Fiom