Le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza
non smettono di diminuire: i dati Oxfam più recenti ne sono una prova. L’1% più ricco della popolazione che detiene
più ricchezza del 99% restante; multinazionali che vivono sullo
sfruttamento di lavoratori – adulti e bambini – che per un piatto di cibo
faticano ben più di otto ore lavorative; monopoli che non permettono a piccole
o medie aziende di sopravvivere, o almeno lo rendono assai arduo, a meno che
non siano inglobate dentro gli stessi monopoli: queste e altre situazioni sono
state denunciate.
Eppure si continua imperterriti per la stessa
strada. Perché non si trova un’alternativa?
Non è mancato chi ha detto che questa situazione, in
fondo, è il risultato dei principi dell’economia globale, del capitalismo.
Quasi a dire che il mondo è così, l’uomo è da sempre con questo carattere
concorrenziale e altre situazioni non sono plausibili; al massimo si potrà
mettere qualche limitazione alla riduzione dei salari e aggiungere qualche
politica sociale, ma rimanendo nei limiti delle leggi del mercato. Detto in altri
termini: l’uomo è schiavo dell’economia, deve sottostare ai suoi
princìpi.
Ma si è sicuri che queste leggi economiche siano
assolute, valide sempre e inevitabili? In relazione a ciò, è interessante
quanto – ben più di 70 anni fa – diceva Karl Polanyi a riguardo. Dando
un’occhiata allo sviluppo dell’etica capitalistica nei mercati, osservò
che l’economia non può esser
considerata come un Dio che tutto comanda, a cui l’uomo è succube. Essa si origina a partire da quella
molteplicità di fattori che caratterizza la società e la cultura di una
determinata epoca. Le idee e i bisogni che una comunità avverte plasmano
il modus operandi dei differenti ambiti d’azione umani – la politica, lo sport,
l’agricoltura ecc. fino ad arrivare all’economia. Motivo per cui «gli interessi economici [sono] inseparabili
da quelli non economici» (Polanyi, La grande trasformazione)
e da essi derivano.
Fu proprio a cavallo fra ‘700 e ‘800 che iniziò a
svilupparsi quella concezione economica definita come “mercato autoregolantesi”. Detta in termini semplici: cosa regola i prezzi delle merci, i mercati
di destinazione dei prodotti e ogni altro dettaglio di mercato? Null’altro che
il mercato stesso. Cioè nulla, oltre alla domanda e all’offerta,
dovrebbe influire sul mondo economico. Lo Stato si limiterebbe dunque a
garantire il sussistere di tale condizione.
Una concezione che è presente ancora adesso in buona
parte, ma che non si può certo indicare come condizione innata dell’umanità,
afferma Polanyi; bensì si tratta di una scelta consapevole, ritenuta buona per
lo sviluppo della società. Sul fatto che lo sia realmente – un’ottima scelta –,
l’economista ungherese ha tuttavia varie riserve. In primis per il fatto
che questa ideologia ha un
principio alquanto problematico: la distribuzione della ricchezza dipende
esclusivamente dal mercato, senza guardare a nessun altro motivo. La sicurezza
sociale, una redistribuzione equa, l’eliminazione della povertà ecc.: tutti
questi elementi non sono contemplati.
Ne è un esempio la situazione creatasi nella seconda
metà del diciannovesimo secolo in India, quando l’economia di mercato entrò
dirompente, sostituendosi alla gestione della società prima presente.
Relativamente a questo periodo:
« Le tre o quattro grandi
carestie che decimarono l’India sotto il dominio britannico […] non furono
quindi né una conseguenza degli elementi, né dello sfruttamento, ma
semplicemente della nuova organizzazione del mercato del lavoro e della terra
che abbatté il vecchio villaggio senza risolvere i suoi problemi. Mentre sotto
il regime feudale e della comunità di villaggio gli obblighi della nobiltà, la
solidarietà di clan e la regolamentazione del mercato del grano arrestavano le
carestie, secondo le leggi del mercato non era possibile impedire alla gente di
morire di fame secondo le regole del gioco. » (Ivi)
Una situazione grave a livello comunitario, che –
anche se portò l’India ad adeguarsi al nuovo sistema economico – non creò di
certo situazioni idilliache:
« Economicamente l’India può
averne ricevuto un beneficio e certamente lo ha avuto nel lungo periodo, ma
socialmente fu disorganizzata e quindi gettata in preda alla miseria e alla
degradazione. » (Ivi)
Un esempio che evidenzia come l’economia di mercato, lasciata a sé stante,
rischia di distruggere la società. Proprio per questo – come la storia
insegna –, le ferree leggi del mercato furono spesso addolcite da azioni protezionistiche nei
confronti della circolazione delle merci e della salute e sicurezza dei singoli
cittadini. Lo sviluppo dei sindacati, il salario minimo, il tetto massimo
all’orario lavorativo ecc. furono misure antitetiche al principio del
mercato autoregolantesi, ma necessarie per evitare lo sfasciarsi della società.
Verrebbe allora da chiedersi: se in tale situazione è
l’umanità ad essersi infilata volontariamente – e se questa economia ha portato
tutt’altro che benefici –, non sarebbe meglio pensare ad una soluzione
alternativa? Ad un’economia che
sia riformata alle radici e non abbellita da qualche scarno provvedimento sociale? Forse
sarebbe ora di ricordarsi che i
valori più importanti non sono solo il semplice guadagno per il guadagno;
che qualcos’altro – fra cui, innanzitutto, una vita dignitosa – dovrebbe essere
messo in primo piano per decidere lo sviluppo dell’economia e della società nel
suo complesso.
« Con troppa insistenza e
troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai
valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro
Pil ha superato 800 miliardi di dollari l'anno, ma quel Pil – se giudichiamo
gli USA in base ad esso – comprende anche l'inquinamento dell'aria, la
pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade
dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature
speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di
forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi
televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri
bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non
fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi
popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte
urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della
qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non
comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o
l'intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né
il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la
nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche
parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può
dirci tutto sull'America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere
americani. » (B.
Kennedy, discorso alla University of Kansas del 1968)
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