lunedì 18 giugno 2018

L'economia: tiranno o suddito dell'uomo? - Francesco Pietrobelli




Le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza non smettono di diminuire: i dati Oxfam più recenti ne sono una prova. L’1% più ricco della popolazione che detiene più ricchezza del 99% restante; multinazionali che vivono sullo sfruttamento di lavoratori – adulti e bambini – che per un piatto di cibo faticano ben più di otto ore lavorative; monopoli che non permettono a piccole o medie aziende di sopravvivere, o almeno lo rendono assai arduo, a meno che non siano inglobate dentro gli stessi monopoli: queste e altre situazioni sono state denunciate.
Eppure si continua imperterriti per la stessa strada. Perché non si trova un’alternativa?

Non è mancato chi ha detto che questa situazione, in fondo, è il risultato dei principi dell’economia globale, del capitalismo. Quasi a dire che il mondo è così, l’uomo è da sempre con questo carattere concorrenziale e altre situazioni non sono plausibili; al massimo si potrà mettere qualche limitazione alla riduzione dei salari e aggiungere qualche politica sociale, ma rimanendo nei limiti delle leggi del mercato. Detto in altri termini: l’uomo è schiavo dell’economia, deve sottostare ai suoi princìpi.



Ma si è sicuri che queste leggi economiche siano assolute, valide sempre e inevitabili? In relazione a ciò, è interessante quanto – ben più di 70 anni fa – diceva Karl Polanyi a riguardo. Dando un’occhiata allo sviluppo dell’etica capitalistica nei mercati, osservò che l’economia non può esser considerata come un Dio che tutto comanda, a cui l’uomo è succube. Essa si origina a partire da quella molteplicità di fattori che caratterizza la società e la cultura di una determinata epoca. Le idee e i bisogni che una comunità avverte plasmano il modus operandi dei differenti ambiti d’azione umani – la politica, lo sport, l’agricoltura ecc. fino ad arrivare all’economia. Motivo per cui «gli interessi economici [sono] inseparabili da quelli non economici» (Polanyi, La grande trasformazione) e da essi derivano.


Fu proprio a cavallo fra ‘700 e ‘800 che iniziò a svilupparsi quella concezione economica definita come “mercato autoregolantesi”. Detta in termini semplici: cosa regola i prezzi delle merci, i mercati di destinazione dei prodotti e ogni altro dettaglio di mercato? Null’altro che il mercato stesso. Cioè nulla, oltre alla domanda e all’offerta, dovrebbe influire sul mondo economico. Lo Stato si limiterebbe dunque a garantire il sussistere di tale condizione.

Una concezione che è presente ancora adesso in buona parte, ma che non si può certo indicare come condizione innata dell’umanità, afferma Polanyi; bensì si tratta di una scelta consapevole, ritenuta buona per lo sviluppo della società. Sul fatto che lo sia realmente – un’ottima scelta –, l’economista ungherese ha tuttavia varie riserve. In primis per il fatto che questa ideologia ha un principio alquanto problematico: la distribuzione della ricchezza dipende esclusivamente dal mercato, senza guardare a nessun altro motivo. La sicurezza sociale, una redistribuzione equa, l’eliminazione della povertà ecc.: tutti questi elementi non sono contemplati.

Ne è un esempio la situazione creatasi nella seconda metà del diciannovesimo secolo in India, quando l’economia di mercato entrò dirompente, sostituendosi alla gestione della società prima presente. Relativamente a questo periodo:

« Le tre o quattro grandi carestie che decimarono l’India sotto il dominio britannico […] non furono quindi né una conseguenza degli elementi, né dello sfruttamento, ma semplicemente della nuova organizzazione del mercato del lavoro e della terra che abbatté il vecchio villaggio senza risolvere i suoi problemi. Mentre sotto il regime feudale e della comunità di villaggio gli obblighi della nobiltà, la solidarietà di clan e la regolamentazione del mercato del grano arrestavano le carestie, secondo le leggi del mercato non era possibile impedire alla gente di morire di fame secondo le regole del gioco. » (Ivi)

Una situazione grave a livello comunitario, che – anche se portò l’India ad adeguarsi al nuovo sistema economico – non creò di certo situazioni idilliache:

« Economicamente l’India può averne ricevuto un beneficio e certamente lo ha avuto nel lungo periodo, ma socialmente fu disorganizzata e quindi gettata in preda alla miseria e alla degradazione. » (Ivi)

Un esempio che evidenzia come l’economia di mercato, lasciata a sé stante, rischia di distruggere la società. Proprio per questo – come la storia insegna –, le ferree leggi del mercato furono spesso addolcite da azioni protezionistiche nei confronti della circolazione delle merci e della salute e sicurezza dei singoli cittadini. Lo sviluppo dei sindacati, il salario minimo, il tetto massimo all’orario lavorativo ecc. furono misure antitetiche al principio del mercato autoregolantesi, ma necessarie per evitare lo sfasciarsi della società.

Verrebbe allora da chiedersi: se in tale situazione è l’umanità ad essersi infilata volontariamente – e se questa economia ha portato tutt’altro che benefici –, non sarebbe meglio pensare ad una soluzione alternativa? Ad un’economia che sia riformata alle radici e non abbellita da qualche scarno provvedimento sociale? Forse sarebbe ora di ricordarsi che i valori più importanti non sono solo il semplice guadagno per il guadagno; che qualcos’altro – fra cui, innanzitutto, una vita dignitosa – dovrebbe essere messo in primo piano per decidere lo sviluppo dell’economia e della società nel suo complesso.

« Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l'anno, ma quel Pil – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l'inquinamento dell'aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l'intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. » (B. Kennedy, discorso alla University of Kansas del 1968)

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