Fra
i tanti vaccini in giro, manca proprio quello oggi più urgente: il vaccino
contro la politica personalistica, una peste berluscon-renziana. Se lo avessimo
(e in dosi massicce) potremmo salvarci, tra l’altro, dal frivolo gioco di
società detto“toto-ministri ”. Quasi che, trovato il ministro, si risolvessero
d’incanto i problemi dell’economia, della cultura, dell’ambiente, della sanità.
Ma anche i migliori esperti non hanno virtù taumaturgiche, e nulla potranno
fare senza un progetto complessivo, un’idea di futuro. Dovremmo dunque
concentrare l’attenzione non sulle persone ma sui problemi, sulle cose da fare.
Per esempio, la scuola.
Funestata,
nei discorsi correnti, da un bivio paradossale: da un lato, c’è chi sostiene
che la scuola italiana è arretrata, sotto le medie Ocse e così via; dall’altro,
chi pensa che la scuola italiana, per la formazione ad ampio ventaglio che
offre nei licei, sia la migliore del mondo, e che le recenti riforme l’abbiano
solo peggiorata. Confrontare le ragioni degli uni e degli altri sarebbe dunque
indispensabile. Ma proviamo a prendere il discorso da un terzo punto di vista,
quello delle generazioni future. Quale Italia ci aspettiamo da loro (o meglio:
loro da noi), e da quale scuola?
Per
millenni, tutte le culture umane hanno elaborato e trasmesso conoscenze. Lo
hanno fatto nelle famiglie, nelle botteghe artigiane, nei templi, nelle
caserme, negli ospedali, per le strade, nelle scuole. Il cuore di questo
meccanismo di trasmissione della conoscenza è sempre stato il rapporto fra le
generazioni: i più giovani hanno imparato qualcosa dai meno giovani. Ci sono
sempre stati buoni maestri, quelli che praticano con passione e impegno il
proprio mestiere e sanno comunicare ai giovani curiosità, interesse,
entusiasmo; e ci sono sempre stati cattivi maestri, scontenti di sé, insicuri,
incapaci di dialogare e di suscitare attenzione. Ma quel che stimola ogni
trasmissione di conoscenza è l’appassionata pratica di un sapere e il
conseguente desiderio di trasmetterlo ai più giovani. La conoscenza si propaga
per contatto fra esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso
da una generazione all’altra.
Questa
catena millenaria sembra essersi spezzata. Da alcuni decenni è di moda credere
che per insegnare, poniamo, la matematica o la storia non basta conoscere bene
queste discipline, ma è indispensabile praticare qualcos’altro, che le supera e
le contiene: la didattica della ma- tematica, la didattica della storia. Questa
perniciosa petitio principii ha infettato le nostre menti, ma anche le
circolari ministeriali, i meccanismi di reclutamento e di valutazione. La
didattica, o pedagogia che dir si voglia, tende così a diventare non un sapere
fra gli altri, bensì una sorta di super-disciplina che pretende di superare o
contenere tutte le altre. Di conseguenza, si può insegnare solo a patto di
sapere come, non che cosa. Principio, questo, che non vale nei saperi più
elementari e indispensabili che pratichiamo ( l’agricoltura, la cucina…), ma
che si ritiene debba valere per la scuola.
Di
sofisma in sofisma, potremmo allora chiederci : ma per insegnare la didattica
della matematica, non ci vorrà, “a monte”, un insegnamento di didattica della
didattica della matematica? E così via rinculando, finché a furia di parlare
del come e non del che cosa si deve insegnare a scuola, i contenuti si perdono
nel nulla, e quel che resta è il burocratico rituale di un insegnamento-scatola
vuota. La sapienza specifica dell’insegnante diventa un bagaglio ingombrante,
se “sapere la matematica” (o la storia) conta poco o niente, se vale solo una
tecnica dell’insegnare che è parente stretta della “scienza della
comunicazione” e della pubblicità commerciale.
Concentrarsi
sulle modalità dell’ insegnamento e non sui suoi contenuti. Questa sembra
essere la parola d’ordine della nuova scuola, “buona” o cattiva che sia. Si
viene così a creare una perversa simmetria: agli insegnanti si chiede di
spostare l’accento, nella loro preparazione e nel loro lavoro, dai contenuti ai
metodi d’ insegnamento. Agli studenti si chiede di spostare l’accento dalla
elaborazione della conoscenza all’acquisizione di abilità, competenze, skills.
La scuola così intesa può forse ancora ( stancamente) trasmettere nozioni, ma
non la passione di sapere. Le nozioni, una volta acquisite, non serviranno a
pensare il futuro creativamente, ma a eseguire questo o quel lavoro lungo
binari prestabiliti. Da una scuola così concepita resta ovviamente fuori lo
spirito critico, il senso del dubbio, la vigilanza intellettuale sulle
informazioni ricevute e sulle nozioni correnti, il desiderio di controllare
quel che ci vien detto, la capacità di ragionarne con indipendenza di giudizio,
la creatività. Restano fuori le virtù essenziali di un buon cittadino.
Ma
in verità l’insegnante ideale è chi sa benissimo la storia o la matematica, vi
dedica la miglior parte del suo tempo, e ha elaborato la passione di
trasmetterla perché la considera non solo utile, ma “bella” da coltivare, da conoscere
e da far conoscere. Solo un insegnante come questo (e per nostra fortuna nella
scuola italiana ce ne sono ancora migliaia) saprà davvero trasmettere,
attraverso la storia o la matematica, la capacità di ragionare con rigore che è
la dote più preziosa di ogni essere umano. Questo insegnare con passione (per i
contenuti, non per i metodi) presuppone una concezione della scuola come luogo
dove si insegna a pensare, non a “fare cose” che appaiano immediatamente
produttive, secondo gli indecenti equivoci della cosiddetta “alternanza
scuola-lavoro”.
E
prima di scegliere da che parte stare, pensate un momento: salireste mai su un
aereo sapendo che ai comandi non c’è un bravissimo pilota, ma un esperto in
didattica del pilotaggio?
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