L’ormai famosa domanda 10 del
questionario presente nell’ultimo test Invalsi chiede ai bambini della quinta
elementare un esplicito esame di realtà. Ma di quale realtà stiamo parlando?
Prima di procedere può essere utile capire di cosa stiamo parlando.
Il questionario segue immediatamente il test: dopo che
all’allievo vengono poste domande le cui risposte si dividono in giuste e
sbagliate, gli vengono sottoposte domande come quelle di cui sopra, che solo
apparentemente chiedono un’opinione. La realtà è che suggeriscono una
precisa visione del mondo. Ai bambini non viene chiesto, ad esempio, se
immaginano il loro lavoro come utile a qualcuno, se ameranno una persona, se
verranno amati o se faranno le cose giuste. Viene loro chiesto invece se
pensano che avranno sempre abbastanza denaro per vivere. Viene chiesto
loro se nella vita riusciranno a fare ciò che desiderano, se riusciranno a
comprare quello che vogliono e se troveranno un buon lavoro. In
sostanza, viene chiesto di immaginarsi rotelle di un sistema alienante,
fatto di guadagno e consumo, desiderio e realizzazione. Il parossismo si
espleta nella domanda relativa al titolo di studio, come se all’alunno di
quinta elementare fosse necessario gettare lo sguardo oltre i propri orizzonti
di riferimento per non venire travolto dalle future difficoltà della
vita. Tutto questo suggerisce che al bambino di dieci anni non si cerca
di trasmettere maturità di sguardo, bensì ansia da prestazione,
inculcandogli un velato timore di non riuscire a ottenere la licenza elementare
(“il titolo di studio che voglio”). L’ansia da prestazione necessaria
per non affogare nella vita di chi non studia quello che vuole bensì studia per
ottenere un titolo, un pezzo di carta, una riga del curriculum; come se fosse
implicito che i bambini vogliono tutto questo – e non qualcosa di più.
Tal modo di suggerire il futuro a un bambino lascia a
bocca aperta solo se non si è avvezzi ai trend aziendalizzanti dell’attuale
formazione scolastica. Ad esempio, le Indicazioni nazionali per il
curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione,
redatte dal Ministero dell'Istruzione in riferimento al Quadro delle
competenze chiave per l’apprendimento permanente definite dal
Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea, definiscono le otto
competenze che gli studenti dovrebbero sviluppare durante il primo ciclo
scolastico: si va dalla comunicazione nella madrelingua (1) alla
comunicazione nelle lingue straniere (2), dalla competenza matematica alle
competenze di base in scienza e tecnologia (3), dalla competenza digitale (4)
all’imparare a imparare (5), dalle competenze sociali e civiche (6) alla
consapevolezza ed espressione culturale (8). Fin qui, nessuno scarto netto
rispetto a quanto promosso da buona parte dei più recenti modelli formativi,
anche se in realtà sappiamo che i bambini in età in prescolare già comunicano
nella loro madrelingua mentre quella che viene insegnata a scuola di fatto non
è la madrelingua; sappiamo che per imparare le lingue straniere bisogna vivere
in un paese straniero o comunque usarne la lingua in modo veicolare e non
studiarne la grammatica sul tavolino della scuola primaria (o peggio della
scuola dell'infanzia); sappiamo che le competenze in tecnologia e soprattutto
in tecnologia digitale si esauriscono nel giro di lassi temporali brevissimi,
dato il continuo, profondo e repentino cambiamento dell’informatica e degli
apparati tecnici in genere. Gli unici punti che non mostrano evidenti ingenuità
sono quelli che presentano meno legami con la trasmissione di conoscenze,
abilità e competenze puntuali, ossia i punti 6 e 8, che almeno delineano
esplicitamente per l’istituzione scolastica un ruolo di agenzia di
socializzazione.
Quello sul quale vale la pena concentrarsi è tuttavia
il punto 7: spirito di iniziativa e imprenditorialità.
Avete letto bene. Ricordo che si tratta di indicazioni per il primo ciclo, le
elementari. La competenza in imprenditorialità viene definita come la capacità
di «tradurre le proprie idee in azione, attraverso la creatività,
l’innovazione, l’assunzione responsabile di rischi, la capacità di pianificare
e di gestire progetti per raggiungere i propri obiettivi e di cogliere le
opportunità che il contesto offre». Ah! Se le competenze specifiche sono
queste, tutto si chiarisce. O forse no. Cosa c'entrano la creatività e la
responsabilità con l'imprenditorialità? Ormai dovremmo sapere che le imprese
evitano il rischio d'impresa come la peste in quanto l’imprenditore è colui che
investe un capitale (normalmente prendendolo a prestito da soggetti che pur
creandolo dal nulla richiedono sul prestito ingenti quantità di interesse) al
fine di accrescerlo o quantomeno di mantenerlo costante. La legge
italiana impone che l’imprenditore abbia fini sociali, ma di fatto le cose non
stanno così: il fine dell’imprenditore si limita al capitale (non-umano).
L’elemento del capitale è fondamentale non solo negli scopi, ma anche nelle
dotazioni di partenza: senza capitale (o garanzie) non si può fare
l’imprenditore. Non è solo un elemento necessario: normalmente è l’elemento
sufficiente. In effetti la competenza di imprenditorialità, anche se non viene
detto esplicitamente, impone tale consapevolezza. Ecco perché ai bambini di
quinta elementare viene richiesto un esame di “realtà”, una presa di coscienza
che il proprio futuro sarà (o meglio dovrà essere) incentrato sull’acquisizione
di titoli(che la sociologia contemporanea definisce come “capitale
culturale”, il quale si traduce, sulla base della fiducia nelle istituzioni che
rilasciano i titoli, in “capitale sociale”), sull’accumulo di denaro e
sulla realizzazione di desideri indotti. Quest’ultimo punto potrebbe
apparire come positivo, ma è il cardine della civiltà dei consumi, senza i
quali non vi sarebbe imprenditorialità alcuna.
Coloro che definiscono il futuro dei nostri figli
partono da questi principi. Credono di essere realisti e tuttavia filtrano
l’esperienza della realtà attraverso lenti distorte, il cui fine è solo
apparentemente descrittivo. La questione sollevata dalla domanda 10 spinge
a informarsi meglio sul test Invalsi, con risultati che lasciano basiti. Il
test si presenta come un metodo per rilevare i livelli di apprendimento su
scala nazionale. Tuttavia, se lo scopo fosse solo questo, gli sforzi (anche
economici) messi in campo risulterebbero eccessivi. I censimenti su scala
nazionale, infatti, non vengono condotti ogni anno: le rilevazioni annuali
vengono invece svolte sulla base di campioni significativi.
Ma sono altri gli elementi decisivi che concorrono a
invalidare lo scopo descrittivo del test Invalsi. Molti insegnanti
preparano gli studenti al test, circolano persino alcuni manuali e si arriva a
tarare i programmi su ciò che il test Invalsi misura: non a caso alcuni
docenti ne inseriscono gli esiti all’interno della valutazione dell'allievo.
L'atteggiamento di approvazione di queste pratiche da parte dei funzionari e
finanche di alcuni pedagogisti conferma che la funzione programmatica
di Invalsi non è solo descrittiva bensì anche prescrittiva. Il test Invalsi
non viene utilizzato per rilevare l’efficacia dell’insegnamento, bensì per
trasmettere un preciso obiettivo formativo con annesso modello didattico. Una
strategia che non fa onore al Ministero, in quanto mescola in modo poco chiaro
le sue funzioni, creando inevitabilmente gerarchie legate all'adesione al
modello proposto/imposto dal ministero. Le politiche ministeriali degli ultimi
decenni si dimostrano sempre più oblique e ambigue, finalizzate all’ottenimento
di effetti avversati dalla maggioranza del corpo docente. Se mai i libri di
storia si occuperanno di questi processi, il test Invalsi verrà visto
come un anello delle catena di trasmissione attraverso la quale si è
tentato di governare con mezzi che non si palesano come direttivi. Un
attacco alla trasparenza che risulta tanto più incredibile quanto più lo si
associa a un establishment che della trasparenza si è fatto araldo. A che pro?
vien da chiedersi. Non si tratta di questioni di vita o di morte, di politiche
che vanno applicate volenti o nolenti. Siamo in presenza di una serie di
forzature senza motivazioni sufficienti. Con l’aggravante di presentare
il tutto come realpolitik, necessità di controllare l’operato dei
controllori. Solo che gli insegnanti non sono e non vogliono trasformarsi in
controllori.
Si insegna sempre meno, ma il motivo non risiede nel
mancato controllo dell’operato dei docenti. I contenuti (conoscenze,
ma anche abilità e competenze) hanno un peso sempre minore nella
didattica: i docenti passano sempre meno tempo a insegnare. Certo, gli
studenti sono sempre meno in grado di partecipare alla lezione, hanno sempre
meno motivazione e capacità di concentrazione, ma il punto è un altro: il
focus delle attività svolte dall’insegnante si sta spostando su attività che
non sono insegnare. Se si prendesse alla lettera quanto prescritto da molti
manuali di formazione didattica, il docente dovrebbe passare il suo tempo a
progettare e valutare, lasciando il momento formativo a rousseauiani
autoapprendimenti basati sull'esternalizzazione del lavoro realmente didattico,
appaltato direttamente al discente o ai suoi pari o a chi ne sa un millimetro
in più di lui.
La catena di trasmissione del controllo della libera
docenza si sviluppa lungo vari anelli. Uno di questi è la supposta
autonomia degli istituti, affidata al famigerato collegio docenti,
la riunione plenaria che coinvolge tutti gli insegnanti di una scuola,
normalmente diretta e condotta dal dirigente scolastico con piglio militaresco
per interi pomeriggi, passati ad approvare per alzata di mano e con percentuali
bulgare una serie infinita di provvedimenti burocratici – o che si fingono
tali. Gli attuali collegi docenti vengono allestiti come farse, diretti
da dirigenti scolastici in modi che se fossimo in parlamento verrebbero
agilmente definiti come attinenti a una qualche forma di soft and
benevolent dictatorship: penose caricature delle peggiori repubbliche
delle banane. Questo emerge sia in evidenza (si chieda a un qualsiasi docente
che non faccia parte dello staff della dirigenza) che attraverso quello che gli
stessi dirigenti didattici dicono quando fanno formazione per gli insegnanti
che intendono diventare a loro volta dirigenti: sotterfugi, omissioni,
retorica, indottrinamento spicciolo, leva sul carisma, gatekeeping e
agenda setting. Un atteggiamento globale molto simile a quello
riscontrabile nelle grandi aziende, pubbliche e private. La maggior parte
degli insegnanti giovani si relaziona al dirigente come un bracciante con il
padrone della masseria, mostrando la proattività di un promoter il primo giorno
di lavoro. Gli insegnanti meno giovani si dividono invece in due tipologie:
totale passività oppure totale adesione (quale che sia il contenuto, la
proposta, il problema), atteggiamenti che a volte vengono a coincidere. Magari
era così anche quaranta o cinquanta anni fa: tuttavia, chi c'era mi dice di
no. Il mondo della scuola (argh! che espressione idiota siamo
usi adottare, come se la scuola non fosse parte del mondo che la circonda) è
certamente affetto da immobilismo atarassico, ma il modo in cui viene
combattuto è del tutto slegato dal mondo reale. Il tragico sta nel fatto
che buona parte degli attori che mettono in scena lo spettacolo del
rinnovamento non si rende conto di essere manipolata, di vivere nello spazio
pubblicitario tra un sogno e l'altro.
Nulla da aggiungere a questa profonda e sconfortante riflessione o forse sì solo una cosa: immaginando di dover rispondere a quella domanda io avrei risposto "sicuramente" al punto A e "per niente" per tutti gli altri.
RispondiEliminauna forma di lavaggio del cervello per i bambini che dovranno crescere con due soli verbi, vendere (vendersi) e comprare :(
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