Sono alto, atletico, biondo con gli occhi verdi. Abito a Bologna,
in una palazzina al secondo piano e ho quattordici anni. I miei amici
continuano a parlare di ragazze, sembra una scalata: «Le ho dato un bacio sulle
labbra e lei mi ha messo la lingua in bocca», «Le ho toccato i seni, le ho
messo le mani dentro le mutande e poi, la sera, ho riempito un foglio di
scottex per non sporcare le lenzuola». Ascolto, cerco di essere interessato, ma
ho altri pensieri, e se penso alle labbra di qualcuno, ne sogno due incorniciate
da una peluria incolta. La scuola è terminata, abbiamo organizzato la
tradizionale festa di fine anno. Ci sono i ragazzi anche delle altre classi e
molte femmine sembrano interessate a me. Non sono particolarmente loquace e il
gruppo si sfoltisce. Rimane solo Giulia. È sempre rimasta in silenzio e sembra
invitarmi ad alzare il sipario del mio palcoscenico. Mi ha conquistato e decido
di fidarmi. Le confesso che non sento nessuna attrazione per lei e per nessuna
altra femmina e che i miei desideri erotici sessuali si rivolgono ai maschi. Mi
ascolta attonita e il suo viso si trasforma: la simpatia, la curiosità e
l’interesse sono velocemente sfrattati dalla sorpresa, il rifiuto e il
ribrezzo. Si allontana, quasi correndo, e la sento bofonchiare: «Che schifo!».
Rimango da solo, ma non per molto, perché, in pochi minuti, divento il
protagonista della festa. Intorno a me, sguardi sadici e crudeli di giudici
implacabili, risolini nascosti ed esibiti, dita che mi indicano e corpi che
compiono danze irrisorie. Qualcuno vuole guadagnarsi l’encomio e la decorazione
in questa olimpiade della lapidazione. Inizia la gara per guadagnare il podio:
«Guarda se doveva capitare una checca in mezzo a noi», «L’ho scampata bella
tutte le volte che ho pisciato al suo fianco», «Chissà che bello prenderlo nel
culo», «Ma vai via, schifoso, vai a farti fottere!». Decido di non assistere
alle premiazioni e vado via. Quando arrivo a casa, ho gli occhi rossi e gonfi e
i singhiozzi non mi permettono di respirare. La mia cattolicissima mamma,
devota del beato Wojtyla, sta leggendo Oscar Wilde, il suo autore preferito. Si
accorge che è successo qualcosa di grave e smette la lettura per chiedermi
spiegazioni. Addirittura, mio padre interrompe la visione della partita di
calcio. Mi fanno sedere al centro del divano, accarezzandomi e abbracciandomi.
Lentamente il nodo alla gola si scioglie, i singhiozzi si fanno meno intensi e
permettono alle parole di dare una forma a frammenti e sensazioni che avevo
sempre nascosto. Ma con il dipanarsi della matassa che celava il mio segreto,
non sento più le carezze, l’abbraccio diventa meno intenso e perde la sua forza
protettrice. Quando finisco di parlare, mia madre sta ticchettando le dita
sulle ginocchia e mio padre, a braccia conserte, spostato ai bordi del divano,
sentenzia: «Non preoccuparti, è una malattia che si può curare, non baderemo a
spese, cercheremo i migliori specialisti». La donna che mi ha messo al mondo,
mentre una lacrimuccia le lava l’imbarazzo, annuisce convinta, a intervalli regolari.
Sono in trappola, non vedo vie di uscita, ma la strada me la indicano loro,
quando mi invitano ad andare in bagno per rinfrescarmi, ripetendomi che tutto
si risolverà, perché un ragazzo alto, bello e muscoloso come me, non può essere
un omosessuale. Se c’è un errore bisogna riavviare il programma. Ubbidisco,
chiudo la porta a chiave, prendo il rossetto di mia madre e uso lo specchio
come quaderno. Apro la finestra e, prima di diventare brandelli di carne sul
selciato, mi sento un angelo, a cui sono spuntate le ali che mi porteranno
lontano dalla ottusa e tetra prigione umana.
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