Da almeno un decennio è
ormai evidente che i profughi che cercano di raggiungere l’Europa dall’Africa o
dal Medioriente – una frazione infima di quelli costretti ad abbandonare le
loro terre – provengono dai paesi più colpiti dai cambiamenti climatici, dai
conseguenti dissesti ambientali, dalle guerre e dai conflitti da questi
generati. Ma di questa evidenza non si trova traccia nei discorsi
dell’establishment politico europeo: per loro i
migranti compaiono solo nel momento in cui si imbarcano o attraversano una
frontiera. Ma dove ci stiano trascinando le politiche antimigratorie adottate
era già stato scritto in un documento del Pentagono del 2004, riassumibile in
questi termini: “Le prossime guerre saranno combattute per ragioni di
sopravvivenza. Milioni di persone moriranno a causa di guerre o carestie,
finché gli abitanti del pianeta non saranno stati ridotti a un numero
sostenibile. I paesi più ricchi, come gli Stati uniti e l’Europa si
trasformeranno in “fortezze virtuali” per impedire l’arrivo di milioni di
migranti espulsi dalle loro terre sommerse o non più in grado di produrre cibo
per mancanza di acqua. I Governi incapaci di difendere i propri confini
verranno spazzati via dal caos e dal terrorismo”.
L’orizzonte mentale di Salvini e Trump, di Kurz e
Orban, ma anche, con maggiore ipocrisia, di Macron o Minniti, è questo; ma se
quella catastrofe è ancora lungi dal verificarsi nei termini previsti, la
soluzione prospettata – la “Fortezza Europa”,
cioè la distruzione di democrazia, libertà e diritti di tutti – è già andatamolto avanti senza che i
nostri governanti si chiedano se, e come, si possa invertire quella deriva.
D’altronde non esserselo chiesto e non aver cercato delle risposte a un problema che riassorbe in sé tutti
gli altri – dal lavoro al futuro dell’Unione Europea e, ovviamente,
dell’euro, che certo non vive di vita propria, e di tutto ciò che dall’euro
consegue – è la principale causa dell’annichilimento di ogni prospettiva di
cambiamento sociale; e della fine delle tante sinistre: poca cosa rispetto allo
tsunami di quegli umori rancorosi e feroci che Salvini ha solo portato alla
luce, ma che covava da tempo. Quelle domande e risposte non possono però
attendere. Ma bisogna cominciare da ciò che l’agenda politica mette all’ordine
del giorno.
Innanzitutto, è
possibile e realistico concepire un’accoglienza che non sia una forma
mascherata e selettiva di respingimento, come lo sono tutte le politiche
adottate o proposte finora? Ne va della nostra umanità; della
nostra capacità di costruire relazioni sociali e personali basate sul rispetto
reciproco: che una volta perso nei confronti dei migranti, è perso per
tutti. Sì, è possibile: a condizione che
l’accoglienza sia decente – oggi non lo è quasi mai, e lo è ovunque sempre meno
– e che all’accoglienza facciano seguito processi di inclusione; che per chi
viene da fuori e non conosce nessuno non possono che basarsi sul lavoro. Il
lavoro non è un bene in sé; non “nobilita” l’uomo; è anzi una condanna; per lo
meno finché non si trasformerà in un’attività scelta liberamente – sganciando
reddito e lavoro – e consensualmente – facendone un “bene comune” da gestire in
modo condiviso. Ma oggi le politiche di inclusione, tanto di “stranieri” che di
“nativi”, non possano che basarsi sul lavoro. Dal lavoro oggi nascono le
relazioni sociali, la possibilità di avere casa e famiglia, e anche
l’accettazione da parte del prossimo, mentre senza lavoro nasce solo rancore da
entrambe le parti.
Oggi profughi e migranti sono ancora pochi rispetto
alla popolazione europea; resterebbero pochi anche allargando le maglie degli
ingressi, perché la maggior parte degli esuli
dell’Africa e del Medioriente si ferma ancora ai confini dei propri territori.
Quelli che “osano” affrontare un viaggio sempre più pericoloso, ma anche una
vita, o un suo pezzo, in un mondo estraneo, sono una minoranza: i più giovani,
i più intraprendenti, spesso i più istruiti delle loro comunità; un tesoro che
noi bistrattiamo fino al massacro invece di valorizzare. Ma non sarà sempre
così, un giorno o l’altro le dighe costruite a
protezione delle nostre fortezze potrebbero rompersi; a meno di
invertire almeno in parte la direzione di quel loro “cammino della speranza”
con un processo di rientri volontari.
Le migrazioni di oggi si
distinguono da quelle del secolo scorso perché, almeno nelle intenzioni, non
sono “per sempre”; molti profughi, ma anche molti cosiddetti “migranti
economici” contano di ritornare nel proprio paese appena se ne presentino le
condizioni: pace, risanamento del proprio territorio, recupero delle sue
risorse. Sono solo loro a poterle realizzare, forti sia delle conoscenze e
delle relazioni – il “capitale sociale” – che possono acquisire in Europa se
verranno accolti e inclusi nel nostro tessuto sociale, sia delle relazioni che
mantengono con le comunità di origine, dove sono soprattutto le donne, rimaste
a casa, a mantenerne insieme il tessuto sociale.
Ma come si fa a creare inclusione, cioè lavoro, per
milioni di nuovi arrivati, quando il lavoro manca già per molti cittadini e
cittadine europee? Occorre investire migliaia di miliardi di euro – quelli che
le politiche di austerità hanno riservato alle banche, senza alcun risultato
positivo – e non per creare lavoro purchessia, affidato a meccanismi di mercato
che non sono più in grado di generarlo; bensì per fare nei prossimi decenni
quello che comunque va fatto se non vogliamo trasformare la Terra in un pianeta
inabitabile: la conversione
ecologica. Un grande piano di finanziamento degli investimenti
necessari, mettendo per sempre da parte l’austerità; un insieme di programmi
che leghino l’assegnazione di quei fondi all’impiego di una quota di migranti
(senza migranti, niente fondi: si farebbe a gara per “accaparrarseli”). Migliaia di progetti di “piccole opere”
di risanamento di città e territori e di conversione energetica, agricola,
alimentare e della mobilità: progetti messi a punto e sottoposti alla verifica
delle comunità territoriali, perché senza partecipazione la conversione
ecologica non si può fare.
Non è un discorso nelle
nuvole; se non si parte da qui resteremo impantanati nel rancore dei tanti
Salvini che stanno impadronendosi non solo dell’Europa, ma anche delle nostre
vite.
da qui
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