L’Italia è in una tempesta perfetta sui
mercati, complice l’instabilità politica. Ma i rally speculativi giocano spesso
su aspettative che si auto-avverano. Perciò inquieta che proprio nel giorno
cruciale per un nuovo governo, Moody’s abbia ipotizzato un declassamento. Urge
fissare nuove regole per la finanza.
Lo
spread – Lo spread è
la differenza tra il rendimento dei Btp a 10 anni e quello degli analoghi
titoli tedeschi. In pratica misura quanto l’Italia sia considerata a rischio.
La Germania è presa a riferimento perché ultra-sicura. Se i mercati pensano che
l’Italia sia solida e possa ripagare il proprio debito senza problemi, il
governo potrà offrire un basso tasso di interesse. Se al contrario siamo
percepiti come rischiosi e inaffidabili, il rendimento sui titoli, ovvero lo
spread, salirà.A differenza di quanto potrebbe sembrare leggendo i titoli
allarmistici sui media, un aumento dello spread non implica un rischio
immediato per lo Stato o un brusco peggioramento dei conti pubblici. Bot o Btp
hanno una durata (mesi o anni rispettivamente). Quando stanno per scadere, se
il debito pubblico non cala il governo deve emettere titoli nuovi per
sostituire quelli in scadenza. Se lo spread è alto, questi nuovi titoli avranno
un rendimento maggiore, ovvero solo su quelli lo Stato dovrà pagare interessi
più alti. Progressivamente più soldi pubblici vanno quindi a pagare gli
interessi sul debito e peggiorano i nostri conti, ma l’impatto di uno spread
alto o basso si manifesta su periodi medio-lunghi.Impatti su banche e imprese
– Gli impatti a breve si hanno per le banche. Se sale lo spread
e lo Stato deve emettere titoli con un alto rendimento, quelli analoghi e già
in circolo perdono di valore. Per semplificare, se domani arrivano BTP
che rendono il 5%, quelli che ho acquistato l’anno scorso e che rendevano solo
il 2% valgono meno. Ancora prima il valore cala, e bruscamente, se con
l’aumento dello spread circolano voci di un possibile default. Può essere un
problema per i risparmiatori, ma lo è prima di tutto per le nostre banche.
Queste, anche se negli ultimi tempi hanno progressivamente ridotto
l’esposizione, hanno comunque a bilancio centinaia di miliardi in titoli di
Stato.
Un
peggioramento dei conti per un sistema bancario già fragile rischia di
riversarsi sulle imprese che ricevono meno finanziamenti e a costi più alti.
Per le imprese i problemi sono anche altri: se sale lo spread e quindi
circolano titoli che danno elevati rendimenti, le imprese che si finanziano
tramite emissione di obbligazioni dovranno fronteggiare la concorrenza di tali
titoli, il che si traduce in maggiori costi e difficoltà. Questo senza
considerare che voci di un possibile default impattano il “sistema Paese” e
quindi a cascata non solo lo Stato ma anche le imprese nostrane.
Siamo in crisi? – La situazione quindi è così preoccupante? A
guardare i fondamentali no. Siamo in un contesto molto diverso da quello
dell’ultima impennata dello spread, nel 2011. Erano gli anni successivi alla
bolla dei subprime e alla conseguente crisi finanziaria internazionale, in un
momento di fortissima recessione e con prospettive a dire poco nere
all’orizzonte. Oggi l’Italia è in relativa ripresa, in particolare riguardo PIL
ed economia. Sembra difficile giustificare l’allarmismo di questi giorni.
Difficile se si guarda ai soli fondamentali dell’economia, meno analizzando il
funzionamento dei mercati e degli elementi su cui basano il loro insindacabile
giudizio.
Probabilmente
la prima regola dell’economia è quella della domanda e dell’offerta. Se tutti
vogliono qualcosa il prezzo sale, se nessuno la vuole il prezzo scende. O meglio,
cosi dovrebbe funzionare. Perché con il dominio della finanza sull’economia e
della speculazione sulla finanza, sempre più spesso sono le aspettative o
peggio ancora le voci di aumento o diminuzione di domanda e offerta a guidare i
prezzi. Se in giro si dice che un’impresa – o uno Stato – potrebbe avere dei
problemi, tutti vorranno venderne i titoli. I mercati cercano di anticipare i
fondamentali dell’economia, e fin qui tutto bene. Ma se sulla base delle
aspettative e delle voci di peggioramento tutti vendono, per la legge della
domanda e dell’offerta il prezzo crolla. Se crolla il valore dei titoli e
nessuno si fida più, i problemi iniziano davvero. Le aspettative si
auto-realizzano e la profezia si auto-avvera.
La speculazione e l’instabilità – La speculazione si nutre di
queste aspettative e soprattutto dell’instabilità dei prezzi. Nessuno specula
sui titoli tedeschi perché il loro valore è praticamente immutabile, non posso
estrarre profitti aspettandomi di comprarli a poco e venderli a tanto grazie a
oscillazioni sui mercati. Se però l’Italia è in una fase di instabilità, ecco
che la cosa si fa interessante. Li posso comprare a un certo prezzo e sperare
di rivenderli a uno molto diverso entro pochi giorni, realizzando così un ampio
margine di profitto. Sui mercati è oggi possibile scommettere tanto sul rialzo
quanto sul ribasso di un titolo. Il problema è che se in molti si lanciano a
scommettere sul valore di un dato titolo, l’enorme afflusso di capitali genera
volatilità. Questa volatilità, ovvero la possibilità che il prezzo vari molto
in poco tempo, è proprio quello che attira altri speculatori, il che aumenta
l’instabilità, nuovamente in una spirale che si auto-alimenta.
Attenzione,
qui non stiamo solamente dicendo che sono le aspettative sul futuro a guidare i
prezzi, ovvero che i mercati anticipano l’andamento dell’economia. Il problema
centrale è che sono proprio gli speculatori a generare o per lo meno ad
amplificare le oscillazioni e la volatilità che consente agli stessi
speculatori di realizzare profitti.
Lupi e greggi – Ma possono pochi scommettitori influenzare in
questo modo l’andamento dei mercati, in particolare per una delle maggiori
economie del pianeta come l’Italia? La risposta, almeno in parte è si, perché
contemporaneamente entrano in gioco altri meccanismi. Il primo è l’effetto
gregge. E’ noto che una regola fondamentale del commercio (e della finanza) è
compra a poco e vendi a tanto. Purtroppo i piccoli risparmiatori solitamente si
comportano all’esatto opposto. Quando un titolo è sulla bocca di tutti e il
prezzo è altissimo perché tutti lo vogliono, ecco che buoni ultimi arrivano i
piccoli risparmiatori. In maniera speculare, è facile che in situazioni di
difficoltà si scateni il panico sui mercati con una corsa a vendere, provocando
un crollo ulteriore.
E’ in questo
modo che si creano e poi scoppiano le bolle finanziarie, e che spesso piccole
oscillazioni si trasformano in inarrestabili valanghe. Chi è in posizione di
forza compra per primo (a prezzi bassi) e vende per primo (ai massimi). I
piccoli risparmiatori arrivano per ultimi, comprando ai massimi, e solitamente
rimangono con il cerino in mano quando arrivano i disastri.
Nel merito,
se l’Italia è in una fase di instabilità sale lo spread; questo alimenta timori
di futuro peggioramento dei conti pubblici; alcuni investitori venderanno i
titoli italiani; aumenta l’offerta e cala la domanda di titoli; per lo Stato
italiano è più difficile piazzarli; deve aumentare l’interesse offerto; ovvero
sale lo spread; il che alimenta i timori… E via con l’ennesima spirale che si
avvita su sé stessa.
Che voto mi hanno messo? – Una delle preoccupazioni
principali viene però da un’altra parte. E’ vero, come accennato in precedenza,
che l’aumento dello spread non implica un peggioramento immediato dei conti
pubblici. Però l’Italia può essere giudicata meno affidabile o più rischiosa
non solo dai mercati, ma prima ancora dalle agenzie di rating. Parliamo delle
agenzie (di fatto un oligopolio in cui quattro aziende si contendono quasi
tutto il mercato) che “danno un voto” agli Stati, alle imprese e ai loro
prodotti finanziari. Una tripla A segnala il massimo dell’affidabilità, poi
progressivamente si scende con vari “+” e “-” verso le B o ancora più giù. Il
voto riflette la rischiosità dell’emittente, e quindi si traduce nel rendimento
che questo dovrà offrire agli investitori. Ovviamente, tra due titoli che danno
lo stesso rendimento tutti sceglierebbero quello dell’emittente con il voto più
alto, o in altri termini, più basso è il voto maggiore è l’interesse che devo
offrire per finanziarmi.
Per l’Italia
in particolare i problemi non sono unicamente il maggiore o minore tasso di
interesse. Siamo solo un paio di gradini sopra il voto spesso indicato come
investimento “junk” ovvero speculativo (o letteralmente “spazzatura”). Se le
agenzie di rating ci assegnassero al livello “junk”, la Banca Centrale Europea
non comprerebbe più i nostri titoli di Stato. In questi anni lo spread si è
mantenuto basso anche perché la BCE, con il quantitative easing, ha acquistato
titoli italiani, alimentando la domanda e quindi portando a una riduzione di
interessi. Se questo acquisto si interrompesse di colpo, per l’Italia sarebbero
problemi.
Ancora, il
voto delle agenzie di rating è centrale per gli algoritmi che regolano le
strategie di innumerevoli investitori. I fondi pensione devono tutelare i
risparmi dei lavoratori, e per regolamento non possono investire in strumenti
eccessivamente rischiosi. La maggior parte di loro non può comprare titoli di
Stato al di sotto di un voto minimo. Se per l’Italia il giudizio delle agenzie
di rating peggiorasse ancora, i programmi nei computer dei gestori di tutto il
mondo darebbero indicazione di vendere. Crollo immediato della domanda, con
tutte le conseguenze immaginabili. E’ tramite simili meccanismi che, anche se
lo spread non implica un peggioramento immediato dei nostri conti pubblici, di
fatto siamo sotto il pesante ricatto dei mercati.
In questo
quadro appare a dire poco preoccupante la decisione di Moody’s di dichiarare lo
scorso 25 maggio che l’Italia era sotto osservazione per un possibile
declassamento, con una procedura al di fuori del normale percorso di
aggiornamento del voto dato agli Stati. Il giorno cruciale in cui si decideva
il nominativo di un possibile premier e la formazione di un governo, una delle
principali agenzie di rating pensava bene di mandare questo messaggio a mercati
e investitori.
La tempesta perfetta? – Quanto scritto si interseca con
altri elementi ancora. Un’incertezza sulle future decisioni della BCE,
soprattutto con l’uscita di scena di Draghi tra pochi mesi e il possibile
arrivo di un “falco” alla guida delle politiche monetarie europee. Ancora a
monte, la crisi italiana si inserisce in un quadro non proprio ottimista sul
futuro: sono sempre di più gli analisti che segnalano il possibile scoppio di
una nuova crisi, o comunque di un brusco riallineamento dei corsi dei mercati
finanziari. Con il moltiplicarsi di tali notizie, molti investitori potrebbero
avere iniziato, in silenzio, il cosiddetto “flight to safety”, ovvero a
spostare i propri investimenti verso titoli più sicuri, vendendo quelli che in
una situazione di difficoltà dei mercati potrebbero oscillare di più. In questo
momento, in prima fila ci sono ovviamente i nostri titoli di Stato.
In tutto
questo discorso ovviamente ha un peso, e un peso decisamente rilevante, la
situazione politica. La crisi istituzionale, i dubbi – che siano più o meno
fondati – sulla volontà di un nuovo governo di uscire dall’euro, l’instabilità
e la debolezza mostrate in questi giorni sono chiaramente alla base di quanto
sta avvenendo. Su questo si incardinano però meccanismi squisitamente
finanziari che incrementano le incertezze e le difficoltà iniziali, generando
essi stessi instabilità. Più che i meccanismi in sé, colpisce osservare lo
spropositato potere che i mercati finanziari hanno nel condizionare le scelte
politiche e ancora prima come l’intera attenzione sia rivolta non alla crisi
istituzionale in sé ma alle conseguenze che questa può avere in termini di
spread e reazioni sui mercati.
Conclusioni: come uscirne? – Sarebbe possibile spezzare i
meccanismi descritti fino a qui? La risposta per fortuna è positiva, anche se
complessa. Nel breve dobbiamo togliere benzina al fuoco della speculazione, il
che significa evitare che un passaggio politico si trasformi in una crisi
istituzionale tanto lunga quanto conflittuale. E’ su questo che sembrano
insistere tanto i politici quando i media, chiedendo stabilità e una soluzione
rapida. Giusto, ma parliamo unicamente di come limitare gli effetti dello
strapotere della finanza sulla politica, non di rimuoverne le cause.
Per non
fermarci alla superficie, è necessario introdurre di regole diverse, tanto per
la finanza privata quanto per quella pubblica. Parliamo di controlli sui
movimenti di capitale, di ridiscutere alla base i meccanismi che regolano il
debito pubblico (ne abbiamo parlato qui http://sbilanciamoci.info/piu-debito-uscire-dalla-crisi/),
di funzionamento del sistema bancario e più in generale di misure che
riaffermino alla base il primato della politica sulla finanza.
Basta
guardare l’incredibile discrepanza sui tempi – i mercati pretendono soluzioni
politiche nel giro di pochissimi giorni e la democrazia non può permettersi di
non ubbidire – per rendersi conto dell’urgenza e della profondità del lavoro da
fare per ribaltare gli attuali rapporti di forza. La speranza è che almeno
questa – ennesima – crisi possa servire per aprire uno spazio politico di
riflessione. Purtroppo il desolante livello di un dibattito che si limita a
“con noi o contro di noi” tra opposte fazioni appare lontanissimo da questo
obiettivo, ed è questo probabilmente l’elemento più preoccupante dell’attuale
situazione.
(*) ripreso
da “Sbilanciamoci”
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